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Autore: Anna Santarello

CONCESSO IL VISTO D’INGRESSO NEGLI USA A MALALAI JOYA!

24 marzo 2011

L’Ambasciata degli Stati Uniti ha concesso oggi il visto all’attivista afghana per i diritti umani ed ex membro del parlamento Malalai Joya, poco più di una settimana dopo averglielo negato. A Malalai Joya, che ha sempre apertamente criticato la guerra in Afghanistan, era stato negato il visto d’ingresso negli USA per un tour promozionale del suo libro perché “clandestina” e “disoccupata”, nonostante fosse stata negli Stati Uniti ben quattro volte negli ultimi anni. A causa del diniego del visto, Joya ha dovuto annullare tutti gli incontri previsti a New York e Washington DC e sta ora recandosi a Boston per cercare di completare almeno il resto del tour previsto.

La co-direttrice di Afghan Women’s Mission Sonali Kolhatkar ha dichiarato: “Siamo felici che alla fine il governo abbia concesso a Malalai Joya l’ingresso nel paese, così gli Americani possono ascoltare tutto ciò che ha da dire sulla verità della guerra, e in particolare su tutto ciò che le donne afghane stanno subendo grazie a questa occupazione. Questa è una grandiosa risposta alla campagna lanciata dalla coalizione nazionale delle organizzazioni e di tutti gli individui che hanno lavorato per programmare tutti gli eventi e per farla arrivare negli Stati Uniti”.

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Quanto ancora prima di dire basta?

Peacereporter – 31 marzo 2010

Afghanistan: nuove scioccanti immagini dei crimini di guerra commessi dai soldati Usa. Si moltiplicano le notizie di vittime civili dei raid aerei, soprattutto bambini.

46932Le nuove scioccanti immagini dei crimini di guerra commessi in Afghanistan dai sadici soldati americani del cosiddetto ‘Kill Team’, pubblicate dal magazine Rolling Stone, scuotono un’opinione pubblica mondiale ormai assuefatta agli orrori della guerra.

Le raccapriccianti foto dei civili uccisi e mutilati per gioco dal soldato Jeremy Morlock e dai suoi compagni, e i truculenti video di presunti talebani massacrati da mitra ed elicotteri al ritmo di musica heavy metal, sono solo la punta estrema di un iceberg fatto di massacri e crimini quotidiani commessi per errore, se non peggio.

Dall’Afghanistan continuano ad arrivare, puntualmente ignorate dai mass media, notizie di civili uccisi dalle forze d’occupazione Nato. Soprattutto bambini.

Come’è accaduto domenica scorsa, quando un bambino è rimasto gravemente ferito al petto da diverse pallottole sparate dalle truppe Nato australiane impegnate in un’operazione a Deh Rafshan, nella provincia di Uruzgan.

O, peggio, venerdì scorso, quando un elicottero americano ha bombardato un convoglio sospetto di auto a Nawzad, nella provincia di Helmand, uccidendo sette civili innocenti, tra cui tre bambini e due donne, e ferendo garvemente altri tre bambini.

Il 23 marzo altri tre civili, tra cui un bambino, sono stati uccisi ‘per errore’ in raid aereo della Nato nella provincia di Khost.

Altri due bambini, di 9 e 15 anni, sono stati uccisi dall’aviazione Usa il 14 marzo a Sawakai, nella provincia di Kunar: armati di vanghe, stavano riparando l’argine di un canale nel campo di famiglia; i piloti li hanno scambiati per talebani che piantavano ordigni esplosivi.

Una dinamica simile al massacro avvenuto, sempre a Kunar, il 20 febbraio, quando nove bambini che stavano raccogliendo legna nei boschi sono stati fatti letteralmente a pezzi dalle mitragliatrici di due elicotteri Usa.

Due giorni prima, in un villaggio della stessa zona, un bombardamento condotto da caccia F-15 americani aveva provocato la morte di sessantacinque civili, tra cui ventidue donne e quaranta bambini.

Enrico Piovesana

IL NAWRUZ DEL PICCOLO SHAH MOHAMMED

Peacereporter – 28 marzo 2011

Un bambino afgano di otto anni festeggiava il capodanno persiano con i suoi genitori quando un razzo è piombato in casa portandogli via una mano e un piede
Il Nawruz è la festa per il primo dell’anno, che nei calendario persiano cade il 21 di marzo, con l’arrivo della primavera. È un giorno particolare per tutti: in ospedale sono arrivate mandorle caramellate, uvetta secca e altre prelibatezze.
È arrivato anche il più classico dei feriti di guerra: un bambino, bellissimo, di otto anni.

Era in casa sua, a Grishk, vicino al padre che leggeva il Corano e la mamma che preparava il cibo. D’improvviso un oggetto è entrato a forte velocità proprio nella loro stanza ed è esploso.
Sono stati portati immediatamente nel nostro centro di primo soccorso e da lì, dopo essere stati medicati, trasportati in ambulanza al nostro centro chirurgico.

Shah Mohammed non ha più il piede destro, non ha più la mano sinistra, la destra è rotta e lacerata, ha ferite profonde ad entrambe le gambe, gli è stato asportato un testicolo, ha un sacchettino per fare i bisogni attaccato alla pancia e un occhio ancora gonfio a causa dell’esplosione. È stato operato immediatamente.

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IL GOVERNO DEGLI STATI UNITI NEGA IL VISTO D’INGRESSO ALL’ATTIVISTA AFGHANA PER I DIRITTI DELLE DONNE E AUTRICE MALALAI JOYA

Da Common Dreams.org

NATIONWIDE – 17 marzo

Gli Stati Uniti hanno negato il visto a Malalai Joya, acclamata attivista per i diritti delle donne ed ex membro del parlamento afghano. Malalai Joya, annoverata dalla rivista Time fra i 100 personaggi più influenti al mondo dell’anno 2010, ha in programma un tour di tre settimane negli USA per promuovere l’edizione aggiornata del suo libro “Una donna tra i signori della guerra” – titolo inglese – pubblicata da Scribner, casa editrice di Simon & Schuster (in Italiano: “Finché avrò voce” – Piemme Edizioni).

L’editore di Joya Alexis Gargagliano afferma: “Abbiamo avuto il privilegio di pubblicare gli scritti di Malalai Joya e il suo precedente tour promozionale del 2009 è stato molto apprezzato. Il diritto degli autori di viaggiare e promuovere il loro lavoro è fondamentale per la libertà d’espressione e lo scambio di idee ed opinioni”. La storia di Joya è stata tradotta in almeno dodici lingue e negli ultimi due anni ha viaggiato in molti paesi fra cui Australia, Regno Unito, Canada, Norvegia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Olanda per far conoscere il suo libro.

Alcuni colleghi di Joya riportano che l’ambasciata statunitense le ha rifiutato il visto perché “disoccupata” e “clandestina”. A soli 27 anni, Joya è stata la donna più giovane eletta nel parlamento afghano nel 2005. Le sue dure critiche verso i signori della guerra e i fondamentalisti afghani le hanno causato almeno cinque tentativi di assassinio. “Il motivo per cui Joya vive clandestinamente è perché deve costantemente affrontare minacce di morte per aver avuto il coraggio di alzare la sua voce in difesa dei diritti delle donne. È vergognoso che il governo degli Stati Uniti le impedisca l’ingesso”, ha dichiarato Sonali Kolhatkar della Missione delle Donne Afghane (Afghan Women’s Mission), un’organizzazione statunitense che ha ospitato Joya in passato ed è promotrice del tour previsto per quest’anno.

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Le basi militari degli Stati Uniti: una catena di schiavitù per l’Afghanistan

dal sito di Hambastagi

Nonostante i continui bombardamenti e i massacri perpetrati dalle forze militari statunitensi e dai Talebani e nonostante il numero sempre più elevato di vittime civili in tutto l’Afghanistan, il governo “fantoccio” afghano e alcuni intellettuali di matrice occidentale affermano che le basi militari degli USA sono una conquista enorme nonché la vera causa di prosperità per il paese.

La presenza del governo USA in Afghanistan, il cui crudele passato è risaputo, non solo non ha migliorato le condizioni del paese, ma ha incrementato corruzione, povertà, assassinii, coltivazione di oppio, traffico di droga, sostegno a criminali, continui tentativi di corrompere giovani afghani di talento con salari elevatissimi e borse di studio. Inoltre, alcuni membri della CIA sono diventati portavoce del presidente e di vari ministri. Questo e altro ha dovuto affrontare il paese nell’ultima decade.

Coloro che traggono vantaggio dalla presenza del governo USA e si schierano con gli invasori, non saranno mai in grado di staccarsi da questo circolo vizioso e rimarranno al servizio degli Stati Uniti e dei paesi a loro alleati per proteggere loro stessi, la loro famiglia e la loro leggendaria ricchezza, accumulata attraverso traffici di droga e cariche governative.

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Intervista ad Alberto Cairo

Kabul – marzo 2011

mailAlberto Cairo racconta sorridendo che il giorno più brutto della settimana è stato quando uno dei nuovi impiegati informatici gli ha dato settant’anni. Lui ne ha 58, di cui 20 passati a Kabul per seguire, per incarico del Comitato della Croce Rossa Internazionale, il programma ortopedico nato nel 1988 per aiutare le vittime delle mine. Ora è un centro con quasi 340 impiegati tutti disabili (viene definita la discriminazione positiva), ex assistiti, produce in loco le protesi ed ha tagliato da poco il traguardo dei 100.000 pazienti registrati. Trapela dal viso di Cairo in effetti un po’ di stanchezza, ma il dinamismo è quello noto, così pure l’ironia con cui cerca di alleggerire il quadro a tinte foschissime dell’Afghanistan attuale. “Vedo un paese sfiduciato, che non crede più nel governo, corrotto fino al midollo, e tantomeno nell’Occidente, che dopo dieci anni è ancora in guerra e non ha certo portato affrancamento dalla povertà e tantomeno democrazia. Poi la violenza dei gruppi armati sta conoscendo il suo periodo di maggior recrudescenza e sono i civili a farne le spese”.
Quindi concorda con le forti affermazioni di Reto a fine 2010, secondo cui la situazione nel paese può essere definita la peggiore degli ultimi trent’anni e che per gli aiuti umanitari è ormai impossibile raggiungere alcuni distretti?
“ Purtroppo è così: se un’organizzazione si avvale delle forze armate allora può arrivare in un dato posto, arriva con i soldati e se ne va con i soldati, ma non viene comunque vista bene dalla maggior parte della gente delle campagne, che percepisce l’aiuto in ogni caso come qualcosa che ti viene portato con le armi e senza che si crei un reale legame, una continuità, con le persone.  Chi, come noi o come Emergency, tiene le distanze da questo, non riesce più nemmeno ad avvicinarsi ai villaggi. Anche nel Nord del Paese, prima relativamente tranquillo, la proliferazione e la frammentazione dei gruppi armati ci impedisce di arrivare. Far visite o sostenere programmi è troppo pericoloso, non ci sono più garanzie: fino a qualche tempo fa si sapeva almeno con chi si doveva andare a parlare per farsi accettare: i due o tre commanders che gestivano il potere nella zona, oggi non si riesce più a fare nemmeno quello perché questi figuri cambiano di continuo e non si sa più chi è che cosa. Purtroppo ci sono zone, a sud di Kabul, dove avevamo pazienti che stavano seguendo un programma, in cui non andiamo più”.

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La sinistra afgana contro l’occupazione

Peacereporter – 9 marzo

Intervista al portavoce del partito laico e progressista Hambastagi (Solidarietà), che domenica ha portato in piazza a Kabul centinaia di persone per manifestare contro Usa e Nato.

45680 300x198Domenica si è svolta nel centro di Kabul una grande manifestazione (video) in risposta al massacro di nove bambini, avvenuto il 1° marzo in un raid aereo Usa nella provincia di Kunar. Centinaia di manifestanti hanno sfilato al grido di “Fuori gli americani! Fuori i talebani!” con cartelli e manifesti che mostravano i volti insanguinati di civili feriti e uccisa negli attacchi Nato.

A organizzare la protesta sono stati gli attivisti di Hambastagi (Solidarietà), partito politico afgano di sinistra, laico e progressista fondato da esponenti ex-maoisti nel 2004 ma in rapida ascesa di popolarità, soprattutto tra le donne (tra le sue sostenitrici figurano Malalai Joya e Habiba Sorabi).
Il volantino distribuito da Hambastagi durante il corteo è un durissimo atto d’accusa contro l’occupazione straniera e contro la volontà americana di stabilire basi permanenti in Afghanistan:
È sempre più evidente che il ritiro delle forze Nato entro il 2014 rappresenta una bugia – si afferma – perché ogni singolo afgano sa benissimo che gli Stati Uniti hanno piani di permanenza a lungo termine nel nostro territorio. Il governo fantoccio di Karzai cerca di convincere le masse che la presenza delle forze straniere sia necessaria giustificando così gli accordi per nuove basi permanenti, ma in pratica legittimando la colonizzazione del paese. Le 737 basi militari Usa in 130 paesi del mondo – prosegue il testo del partito afgano della Solidarietà – non hanno portato prosperità o felicità da nessuna parte, incluso l’Afghanistan. Per noi quella statunitense si sta rivelando un’occupazione peggiore, più atroce, di quella dell’Unione Sovietica”.

456731 214x300Said Mahmoud (foto) è il giovane portavoce di Hambastagi.

Il principi fondamentali del vostro partito sono libertà, giustizia sociale e sviluppo economico: un programma non da poco nel disgregato panorama politico del paese…
“Sembra un’utopia, ma dobbiamo credere nella possibilità di un cambiamento. Noi puntiamo al coinvolgimento delle persone in manifestazioni come quella odierna per far capire che in Afghanistan la resistenza pacifica non è scomparsa. Oggi sono presenti molti familiari delle vittime degli attacchi da parte delle truppe Nato e dei Talebani che non colpiscono obiettivi militari, ma la povera gente, i bambini. La gente è stanca, non ne può più”.

 

Come mai Hambastagi non si è presentato all’ultima consultazione elettorale?
“Finché durerà l’occupazione, finché al governo ci saranno i signori della guerra, finché non si avranno garanzie di voto trasparente, senza brogli e forzature, non ci presenteremo alle elezioni. E’ una scelta precisa. Molti degli eletti in parlamento sono signori della guerra o soggetti legati ai loro clan, criminali dediti ai traffici di eroina, armi, persone. Mancano esponenti della parte democratica del paese, non ci sono rappresentanti di quella società che può rispondere a richieste dei diritti individuali e collettivi delle persone perché a causa dei brogli a molti di loro è stata impedita l’elezione”.

Voi potete contare su circa 30mila aderenti in tutto il paese: come avviene il tesseramento, come potete convincere le persone, che vengono nelle stesso tempo allettate dalle proposte dei Talebani che offrono lavoro e denaro in cambio del reclutamento?
“Noi non possiamo e non vogliamo certo offrire denaro agli iscritti, semmai offriamo corsi di alfabetizzazione e di diritti umani, specie nelle province più remote, accettiamo in cambio quello che viene, offerte in denaro, un uovo, anche niente. Abbiamo alcuni sponsor, anche stranieri, il nostro obiettivo sarebbe quello di creare una specie di network di organismi democratici nel mondo”.

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L’orgoglio rosa di Kabul

L’8 marzo delle donne afghane in lotta per i loro diritti.
lettera 43 – 8 marzo

DSCN4292Marzo è ancora mese di gelo in Afghanistan: le scuole sono chiuse per la pausa invernale, le strade sono un fiume di fango impercorribile, la neve imbianca la corolla di montagne intorno alla capitale, ma cade copiosa anche in città.
Ciò non ha impedito alla macchina organizzativa delle celebrazioni per la giornata internazionale della donna di mettersi in moto: da un mese l’Opawc (Organization Promoting Afghan Women Capabilities), Ong che si occupa di formazione delle donne, ha attivato tutti i suoi canali per coinvolgere il più alto numero di persone in un evento che non vuole essere solo celebrativo, ma un vero e proprio giorno di resistenza femminile contro ogni forma di oppressione (guarda la photogallery della manifestazione delle donne afghane).
«L’8 marzo non è un tè tra amiche»

Latifa, attivista dell’Opawc, Ong in difesa delle donne afghane (M.N).

«Il governo ha sempre festeggiato l’8 marzo come se fosse un tè da bere in compagnia e poi ognuno a casa propria», ha spiegato con una similitudine efficace a Lettera43.it la direttrice di Opawc, Latifa Ahmady, 29 anni, una laurea in Letteratura inglese, due figli, un passato da profuga in Pakistan come milioni di afghani, durante l’occupazione sovietica, «cioè promettendo in questa giornata grandi concessioni alle donne alle donne: diritti, uguaglianza, parità di accesso all’istruzione, alla sanità, per poi rimangiarsi tutto a partire dal giorno successivo».
«In questo modo la festa della donna aveva perso il suo significato», ha continuato, «invece noi, e prima di noi Rawa, a partire dal 2002, l’abbiamo trasformata nella festa dell’orgoglio femminile e del rispetto che pretendiamo quotidianamente nei confronti della donna in famiglia e in ogni ambito della vita sociale».

L’ASSOCIAZIONE FANTASMA. Rawa sta per Revolutionary Association of Women of Afghanistan, un’ associazione laica e democratica di donne afghane, fondata nel 1977 da Meena, poi assassinata l’anno successivo, che ha ceduto il testimone dell’organizzazione della manifestazione a Opawc nel 2009 a causa degli atti di violenza subiti da parte dei fondamentalisti. Le sue attiviste, per lo più molto giovani, operano ora nell’ombra a favore delle donne in tutto il Paese, ma sono costrette a una vita nell’anonimato, a cambiare continuamente luogo di residenza, a celare completamente il loro volto negli incontri pubblici.
Nel 2010, 80 donne si sono date fuoco.

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L’8 marzo a Kabul

Peacereporter 8 marzo

45552Per le donne afgane non è una festa, ma l’occasione per lottare contro la loro condizione, ancora drammatica dopo dieci anni di occupazione
Nella sede di Opawc (Organizatione per la promozione delle capacità delle fonne afgane) a Kabul fervono i preparativi per la Giornata internazionale della donna. Si fanno le ultime telefonate, partono le ultime mail per l’evento di oggi pomeriggio, la grande manifestazione che si terrà nella grande sala conferenze dell’Hotel Hamsafar, nel centro della capitale.
Opawc è una Ong che si occupa di progetti di formazione per le donne, soprattutto nel settore dell’artigianato e dell’alfabetizzazione. Fu creata da Malalai Joya (la coraggiosa ragazza che a soli 25 anni, nel 2003, prese la parola al parlamento afgano e osò denunciare i signori della guerra e la schiavitù delle donne) inizialmente in Pakistan, a favore delle donne afgane nei campi profughi, ed ora è attiva in tutto l’Afghanistan. Da due anni si occupa dell’organizzazione della festa dell’8 marzo, non certo come mero momento celebrativo, ma come un vero e proprio giorno di resistenza femminile contro ogni forma di oppressione.

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«Una giornata di resistenza»

Il Giornale di Vicenza – 7 marzo

271095 369555 300x2248 MARZO. Anche una vicentina nella delegazione del Cisda, Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane. L’87% delle donne ha subìto violenza. L’associazione valuterà  anche i progetti già avviati su scuole, orfanatrofi e centri culturali.

L’8 marzo per le donne afghane è molto più di un giorno celebrativo, è un giorno di resistenza femminile contro ogni forma di oppressione. In Afghanistan, secondo l’ultimo report di Human Right Watch, l’87% delle donne lamenta di avere subito violenza, metà delle quali violenza sessuale; il 60% dei matrimoni è forzato e il 57% avviene con ragazze al di sotto dei 16 anni.
L’autoimmolazione è uno dei metodi più usati dalle donne per sfuggire alla violenza e alla brutalità della loro vita: nello scorso anno, nel solo ospedale di Herat, sono arrivate 80 donne che avevano tentato il suicidio dandosi fuoco.
Dal 2002 l’associazione Rawa (Revolutionary Association of Women of Afghanistan), la più antica organizzazione di donne in Afghanistan, fondata nel 1977 da Meena, poi assassinata nel 1978, ha iniziato a celebrare la Giornata Internazionale della Donna riuscendo a portare in piazza a Kabul centinaia di persone denunciando la totale negazione dei diritti delle donne e indicando la via della liberazione.

L’escalation di violenze da parte dei fondamentalisti nei confronti delle attiviste, impose a Rawa di cancellare la celebrazione nel 2009, ma a partire dallo scorso anno il testimone è stato preso da un altro gruppo di donne coraggiose, l’Opawc, che si occupa di formazione professionale e alfabetizzazione, sempre al femminile.
Nel 2010 all’evento pubblico dell’8 marzo presero parte 1.600 persone provenienti da ogni settore sociale e professionale della capitale e anche molte rappresentanti di organizzazioni internazionali. Accettando l’invito dell’Opawc, il Cisda (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane) prenderà parte, con una piccola delegazione composta da giornalisti, sindacalisti e attivisti dei diritti umani alla celebrazione della Giornata Internazionale della donna martedì prossimo a Kabul .
«Il vostro sostegno ci dà la forza e l’energia per continuare a lottare contro tutte le difficoltà, gli abusi e le violenze contro le donne nella nostra società – ha scritto Latifa, la direttrice di Opawc, ringraziando per aver accettato l’invito – e la nostra voce comune deve alzarsi per denunciare gli abusi ovunque avvengano, siano essi commessi in Europa come in Iran, in Palestina, in Kurdistan, in Sudan, Nepal o India».
Lo scopo della missione organizzata dal Cisda sarà anche quello di verificare lo stato di alcuni progetti avviati in questi anni in collaborazione con associazioni democratiche afghane: la Commissione sulla verità e giustizia, progetto finanziato dalla Commissione Europea, che si propone di formare localmente un gruppo di indagine con lo scopo di raccogliere testimonianze sui massacri perpetrati dal ’92 al ’96 dai signori della guerra; il progetto Mae sul centro culturale a Kabul, nel quale sono organizzati corsi di alfabetizzazione (non dimentichiamo che la disparità di genere tocca anche l’ambito educativo: la maggioranza delle bambine non frequenta ancora le scuole primarie, poche arrivano all’istruzione secondaria e pochissime proseguono gli studi), di inglese, di informatica e dove sta nascendo una fornita biblioteca; infine gli orfanatrofi, otto, sparsi nel paese, che sono delle case famiglia con una coppia di genitori che ospitano gli orfani per un totale di 600 tra ragazzi e ragazze.
Milena Nebbia