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Autore: Anna Santarello

La drammatica situazione degli attivisti per i diritti umani esclusa dal dibattito sull’Afghanistan

gfbv.it
Bolzano, Göttingen, 4 agosto 2010

L’Associazione per i Popoli Minaccaiti (APM) critica fortemente le gravi lacune presenti nei dibattiti sull’Afghanistan seguiti alla pubblicazione dei diari di guerra americani da parte di WikiLeaks (25 luglio) e alla Conferenza di Kabul del 20 luglio. Il dibattito internazionale ignora completamente il coraggioso impegno degli attivisti per i diritti umani afghani a favore della democratizzazione del paese e del rispetto dei diritti umani. Affinché l’Afghanistan possa trasformarsi veramente in uno stato di diritto, la comunità internazionale dovrebbe finalmente smettere di allearsi con i vari signori della guerra operanti nel paese e dare invece sostegno e forza agli attivisti per i diritti umani afghani che attualmente lavorano in condizioni drammatiche rischiando quotidianamente la propria vita.

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Dichiarazione del SAAJS nell’anniversario del terzo anno della sua fondazione

Cari compatrioti,
il SAAJS (Social Association of Afghan Justice Seekers) tre anni fa ha iniziato la sua attività. La nostra organizzazione vuole che sia fatta giustizia e che vengano perseguiti tutti coloro che hanno violato i diritti umani e commesso crimini negli ultimi trent’anni.
Sono passati 9 anni da quando il governo Karzai e i suoi sotenitori stranieri si sono insediati nel paese (44 paesi con i loro 140.000 soldati), ma a causa della mafia e dei criminali presenti nel governo il tasso di insicurezza, povertà, disoccupazione, ingiustizia, corruzione, uccisione di civili, violazione dei diritti umani aumenta di giorno in giorno.
Il governo non fa altro che ratificare leggi crudeli e ingiuste. La legge sull’impunità, passata nel 2007 dal parlamento e misteriosamente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, è un invito aperto a continuare a perpetrare crimini mpunemente.
Guardando i nomi dei candidati delle cosiddette elezioni parlamentari, gestite da una mafia che in paese così povero sta spendendo somme gigantesche, risulta chiaro che questi criminali stanno facendo il possibile per aggiudicarsi tutti i seggi, senza eccezioni.

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Gli afghani protestano contro le uccisioni di civili, la presenza americana e i bombardamenti della NATO

“Non vogliamo né gli americani né i talebani” dice. “Vogliamo un governo che ci protegga”

KABUL – Gli afghani hanno marciato per le vie di Kabul Domenica mattina, gridando slogan anti-Americani, denunciando i bombardamenti Nato e la presenza degli americani in Afghanistan.
Sventolando bandiere che descrivono gli americani come “protettori della mafia in Afghanistan”, mostrando foto di bambini feriti, la pacifica manifestazione di quattrocento persone si é snodata tra le vie del centro, controllata dalla polizia afghana.
I dimostranti, organizzato dal Partito della Solidarietà dell’Afghanistan (HAMBASTAGI Party), hanno dichiarato di essere furiosi non solo per le uccisioni di civili da parte della Nato durante le operazioni militari a Helmand, ma anche per il mortale incidente automobilistico che ha coinvolto un SUV guidato dalla Dyn Corporation (contractors americani) durante il quale sono stati uccisi quattro afghani.

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La resistenza impersonificata (Resistance personified)

da The News  24/7/2010
di Farooq Sulehria

Malali Joya è la resistenza impersonificata. È la voce maggiormente critica sia nei confronti dell’occupazione statunitense dell’Afghanistan, sia dei warlord al potere. Allo stesso modo parla con disprezzo dei Talebani: “la loro violenza non è resistenza”. Malgrado ciò Malalai Joya difficilmente conquista le prime pagine dei media Pakistani che spesso glorificano l’insensata violenza dei Talebani. Ma lei è un nome familiare in Afghanistan e una figura conosciuta internazionalmente. Pochi anni fa era chiamata dalla BBC “la più famosa donna Afghana”. Nello scorso Aprile la rivista Time la inseriva nella classifica delle 100 persone più influenti al mondo.

Il Time aveva però chiesto ad Ayaan Hirsi Ali, la scrittrice Somalo-Olandese, ben nota per le sue opinioni islamofobiche, di fare la proclamazione. Hirsi Ali, che ora vive negli Stati Uniti, ha distorto l’immagine di Joya dichiarando nella sua ambigua proclamazione: “Spero che quando [Joya] verrà, le forze NATO e USA nel suo Paese saranno considerate sue alleate. Lei dovrebbe usare la sua notorietà, la sua provata sagacia e la sua resilienza affinché le truppe si schierino dalla sua parte invece che fuori dal Paese”.

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Afghanistan, l’inferno delle donne: ogni anno 2300 suicidi

di Cristiana Cella
l’Unità 3 Agosto

Un burka di fiamme. È la scelta finale per 2300 donne afghane, ogni anno, tra i 15 e i 40 anni. I casi di suicidio, come «risorsa estrema di fronte a violenze subite» continuano a crescere. Lo ha detto, a Kabul, Faizullah Kakar, consigliere per le questioni della Salute del presidente Hamid Karzai. Chi non arriva in ospedale è fuori dal conto. Secondo i medici, per il 70% delle donne ricoverate è troppo tardi.
Per Jamila no, è sopravvissuta. Nella famiglia del marito la picchiano tutti. Sopporta, per anni. Ma quel giorno la paura le chiude il respiro. Deve confessare la sua colpa: ha perso 20 afghani al bazar. Aspetta, qualche secondo, interminabile, di ferro. Il primo colpo arriva dal suocero e le fa perdere i sensi. Poi seguono gli altri. Sembra che provino soddisfazione. La notte non può dormire per il dolore. La solitudine fa ancora più male. Tutto è, di colpo, intollerabile. Come può Dio volere una cosa simile? È lei la colpevole, non può essere che così. Di non essere una brava moglie, una brava madre, o forse solo di essere una donna. Basta. Sa cosa fare adesso. Nella prigione-cucina c’è tutto quello che serve. È facile, come un gesto quotidiano. Il kerosene lo maneggia ogni giorno. È un attimo versarselo addosso. Il rumore del fiammifero. I pensieri per il figlio, per come poteva essere la vita. È tardi. Corre gridando, per la stanza, con il fuoco addosso.

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Afghanistan, la guerra delle donne Zarmina sogna giustizia

di Cristiana Cella
L’Unità 2 Agosto

Zarmina è ancora bella, una bellezza resistente, come le montagne, solenne. Vestita di raso bianco. La protesi della sua gamba destra è appoggiata al bracciolo, accanto a lei. I suoi ricordi sereni confinati lontano. Un buon marito, cinque figli e una casa grande, vivono tutti insieme con i genitori e i fratelli, ad Afshar, il quartiere hazara di Kabul. Con le vicine, hazara, pashtun, tagike, sono sorelle.

Arrivano notizie tristi, la guerra dei russi devasta il Paese, ma Kabul rimane fuori dai combattimenti. Il marito lavora sodo e non le manca niente. È il 1993 quando la sua vita va in pezzi. L’inferno è cominciato un anno prima, quando i mujaheddin, vittoriosi sui russi, carichi di armi, hanno iniziato a spararsi tra loro per la conquista del potere. I quartieri della città sono come Stati nemici in guerra. Le linee dei fronti si spostano. Difficile orizzontarsi. La ferocia e la follia incomprensibile di pochi sono padrone della città. L’odio etnico è la legge. Uscire per lavorare, per procurarsi acqua e cibo è un rischio mortale. È il padre a farsene carico. Tocca a lui, dice, ha già vissuto molto. Ma, un giorno, non rientra dalla missione, sparisce. Impossibile andarlo a cercare. I razzi piovono ovunque, senza sosta. Hekmatyar, uno dei più potenti jihadi, ne spara 1000 in un solo giorno. Il respiro è corto, strappato, dove cadrà il prossimo? Il sollievo, breve, solo lo stupore di essere vivi. La città brucia e esplode. L’abitudine al terrore cambia i volti, le voci. L’imperativo, sopravvivere. Nient’altro. La famiglia è asserragliata dietro le finestre chiuse, quando tocca a loro.

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Afghanistan, la guerra delle donne. Fuggono per andare a scuola

di Cristiana Cella
l’Unità 31 luglio

Farida fa l’insegnante. Ha circa 40 anni, il viso generosamente truccato, con molta cura, un piccolo foulard sulla chioma corvina. Rimane vedova quando i talebani sono al potere. I 4 figli sono piccoli e non ha più niente, tranne il suo tesoro, un diploma. Lascia la provincia e si trasferisce a Kabul. Va dritta al ministero della Cultura e Informazione. «Sono una donna istruita. Devo mantenere i miei figli, dovete darmi un lavoro e un salario».

La sua audacia è premiata, il lavoro arriva. Sarà insegnante di religione islamica nelle carceri femminili di Kabul. Per due anni. Quando perde il lavoro, insegna nelle scuole clandestine per ragazze, come le sue attuali colleghe. Le carcerate sono le sue prime allieve, dagli 11 ai 18 anni. Non le ha dimenticate. Maryam, ad esempio. Viene data in sposa a due diversi cugini dal padre e dalla madre e la questione finisce in una guerra tra famiglie. La ragazza scappa di casa e finisce in prigione. Ma la legge vuole che, in questi casi, si debba trovare un terzo marito. Il secondino è disponibile, un brav’uomo. Adesso Maryam sta bene, ha molti figli. Non tutte le storie finiscono bene. Sahar è di Herat. I genitori muoiono in un bombardamento. Va a vivere con un cugino che la violenta regolarmente. Quando rimane incinta gli chiede di sposarla e lui invece la caccia di casa.

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Afghanistan, la battaglia di Roshan sposa a dieci anni nella casa dell’orrore

di Cristiana Cella 
l’Unità 30 luglio

La cerimonia è sbrigativa, gli sguardi pesanti, più dei vestiti ricamati. Sono le nozze di Roshan. Ha 10 anni. Wasir, il marito, ne ha 30 di più. È suo cognato. Solo sei mesi prima, aveva sposato Amina, la sorella maggiore, come seconda moglie. Ma la ragazza non è stato un buon affare, è scappata di casa. Nessuno l’ha più vista. Wasir, offeso, pretende Roshan come riparazione. Il padre non può rifiutare. Il torto va riparato e l’uomo ha i mezzi per essere convincente. È potente nel villaggio, poco a sud di Kabul. Roshan dovrà essere una sposa migliore della sorella. Nella nuova famiglia, deve trovare il suo posto in fretta, non c’è tempo per lo sgomento. Non è un buon posto, questo lo capisce subito. I muri alti della casa chiudono lo spazio. Le toccano i lavori più pesanti: prendere la legna, l`acqua, fare le pulizie, Wasir, la notte.

I muri della famiglia sono ancora più soffocanti. A loro piace umiliarla, per quell’ombra di vergogna che si porta addosso per la fuga della sorella. Impara ad obbedire. La salvezza è nel fare tutto come vogliono loro, nei minimi particolari. Ma la routine a volte si inceppa. Basta poco. È mattina, il tandur, il forno, è acceso. Un buco profondo di argilla con il fuoco dentro, un vulcano addomesticato. Oggi tocca a Roshan fare il pane. Ha aiutato la mamma, sa come fare. La pasta, spianata, si lancia contro le pareti roventi, dove si attacca, per cuocere. Ha le lacrime agli occhi, per il fumo, per la paura di sbagliare. È inesperta e le tremano le mani.

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Ragazze adolescenti frustate perché fuggivano da matrimoni forzati

Da SAWA Australia

Estratto da The New York Times

Teenage girls flogged for running away from forced marriage

Disguised in boys’ clothes, two girls aged 13 and 14 had been fleeing for two days along rutted roads and over mountain passes into Herat Province to escape their illegal, forced marriages to much older men. A police officer spotted them as girls, ignored their pleas and sent them back to their remote village in Ghor Province. There they were publicly and viciously flogged for daring to run away from their husbands.

Their tormentors, who videotaped the abuse, were not the Taliban, but local mullahs and the former warlord, now a pro-government figure who largely rules the district where the girls live. Sympathizers of the victims smuggled out two video recordings of the floggings to the Afghanistan Independent Human Rights Commission, which released them on Saturday after unsuccessfully lobbying for government action.

According to a Unicef study, from 2000 to 2008, the brides in 43 percent of Afghan marriages were under 18. Although the Afghan Constitution forbids the marriage of girls under the age of 16, tribal customs often condone marriage once puberty is reached, or even earlier. Flogging is also illegal.

Forced into a so-called marriage exchange, where each girl was given to an elderly man in the other’s family, the girls later complained that their husbands beat them when they tried to resist consummating the unions. Dressed as boys, they escaped.

Although Herat has shelters for battered and runaway women and girls, the police instead contacted the former warlord, Fazil Ahad Khan, whom Human Rights Commission workers describe as the self-appointed commander and morals enforcer in his district in Ghor Province, and returned the girls to his custody. The girls were sentenced to 40 lashes each and flogged on Jan. 12.

In the video, the mullah, under Mr. Khan’s approving eye, administers the punishment with a leather strap, which he appears to wield with as much force as possible, striking each girl in turn on her legs and buttocks with a loud crack each time. Their heavy red winter chadors are pulled over their heads so only their skirts protect them from the blows.

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Afghanistan – Mortalità materna – sondaggio a cura di WHO – World Health Organization

Da WUNRN

  • Il rapporto della mortalità materna è di 1.800 su 100.000 parti (sondaggio di WHO, UNICEF, UNFPA e Banca Mondiale).
  • Il rischio di morti per parto è di 1 su 8 (sondaggio di WHO, UNICEF, UNFPA e Banca Mondiale).
  • Mortalità infantile: 129 su 1.000 nascite (Sondaggio Salute Afghanistan – 2006).
  • Come in tutte le situazioni di conflitto, il peso della crisi grava particolarmente su donne e bambini (es. accesso a servizi sanitari di base, strutture sanitarie per la maternità etc.).
  • Le donne, e in particolare le donne incinte e i loro neonati, sono spesso trascurate o difficili da raggiungere.
  • La gravidanza e la nascita non aspettano che il periodo di crisi finisca.
  • Afghanistan: Paese prioritario per WHO – World Health Organization.