“Fateci mangiare”. “Dateci i nostri soldi congelati” dicono i cartelli dei cittadini di Kabul, quelli che non vogliono né possono fuggire. Desiderosi di vivere nella propria terra, da cinquant’anni stuprata da soggetti politici – interni e internazionali – che hanno inanellato disastri, lasciandosi alle spalle scie di sangue e un vuoto di futuro. Gli ultimi sono gli occidentali, di cui anche la nazione italiana ha fatto parte, dileguatisi nell’agosto scorso, passando il testimone agli ex nemici talebani diventati statisti.
In Kurdistan, uno dei luoghi del mondo dove la guerra e il dramma umanitario sono più intensi, lo stato turco continua nei suoi tentativi di genocidio, negazione e assimilazione. Lo stato turco, sotto il governo Erdogan, legittima ogni tipo di violenza di stato in nome della “lotta al terrorismo” in Turchia/Bakur, in Siria/Rojava e in Iraq/Bashur.
«Nonostante le evidenze mostrino che l’Europa non è sotto invasione, la politica europea continua a essere ostile verso i rifugiati». Le parole di Yagoub Kibeida dell’Unione nazionale italiana per rifugiati ed esuli (Unire) sintetizzano i numeri raccolti nel report sul diritto d’asilo nel 2021 della fondazione Migrantes, intitolato Gli ostacoli verso un noi sempre più grande.
Nella città di frontiera di Zaranj, al confine dell’Afghanistan con l’Iran, i giovani si spingono l’un l’altro mentre si stipano nei camioncini che partono a intervalli regolari per essere contrabbandati attraverso il confine. La tratta di esseri umani è uno dei pochi settori dell’economia afghana che è fiorente. Un altro è la droga. Circa 950 km a est di Zaranj, su un remoto e freddo passo di montagna, uomini con gli zaini seguono lo stretto sentiero fino al valico di frontiera di Tabai, prima di iniziare la loro discesa nelle “aree tribali” del Pakistan.
Venticinque giornalisti afgani hanno la bocca chiusa per protestare contro i problemi economici, le minacce alla sicurezza e le restrizioni dei talebani. Hanno scioperato in un angolo in una stanza a Kabul.
Abdul Nasser Hemmat, uno dei giornalisti, ha affermato che le porte dei media a Kabul e nelle province dell’Afghanistan sono chiuse da tre mesi ai giornalisti.
Frieda Afary ha fatto questa intervista tramite Internet con una rappresentante dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA).
Qual è la situazione attuale delle donne in Afghanistan sia nelle città che nelle aree rurali? Ci sono rapporti secondo cui alcuni genitori stanno vendendo le loro bambine per pagare il cibo. Quanto è comune questo e cosa succede alle bambine che vengono vendute?
Partecipando, nella settimana appena conclusa, ad alcune iniziative pubbliche in presenza e online (con le scuole di Treviso e un’assemblea a Verbania per la giornata dei diritti umani, presentazione di un libro sulle donne afghane a Roma) alcuni temi sono emersi nel trattare la tragica attualità afghana. Il filo conduttore che ha fatto riflettere studenti, attivisti, cittadini sulla condizione femminile nella travagliata terra dell’Hindu Kush e dei profughi che da lì fuggono a causa del rinnovato Emirato talebano, non può esimerci dal ricordare tre tratti del ventennio segnato dalle missioni Enduring Freedom, Isaf, Resolute Support.
A seguito degli eventi del 2011, un governo guidato dal PYD (Partito dell’Unione democratica) controlla le aree del nord-est della Siria, le terre abitate da curdi, arabi e siriaci. Sono state create nuove istituzioni e da allora è stato in parte attuato un nuovo sistema giuridico. Il pluralismo linguistico e religioso è cruciale per l’ideologia del PYD, contribuendo a un sistema istituzionale organizzato secondo il principio di una rappresentanza approssimativamente uguale delle varie comunità negli organi esecutivi e legislativi. Inoltre, dal 2014 il Kongra Star (il movimento delle donne) legato al PYD ha sviluppato una riforma radicale della legge sllo status personale, volta a perseguire un altro pilastro ideologico del PYD, cioè l’uguaglianza di genere. La nuova legge è stata seguita da modifiche pertinenti al codice penale siriano nel 2016. Questo contributo mira ad analizzare alcune implicazioni di tali riforme, sostenendo che esse contraddicono consapevolmente, in una certa misura, la prassi del pluralismo giuridico. Lo stato siriano mantiene un sistema giuridico / giudiziario pluralistico per almeno alcune delle comunità religiose siriane per quanto riguarda lo status personale. L’impulso sulla parità di genere da parte del PYD e di Kongra Star si è rivelato pregiudizievole per la comprensione dell’autonomia giuridica, per quanto riguarda il diritto di famiglia. Questo apparente paradosso può comportare conseguenze storiche e politiche.
L’attuale Amministrazione autonoma del nord-est siriano (AANES) è il risultato della rivoluzione confederale nella guerra civile siriana. Si è sviluppata inizialmente nelle aree curde della Siria (Rojava), sostenendo la liberazione nazionale del popolo curdo e promuovendo un parallelo processo di riforma.
Campagna dell’Iniziativa Internazionale: Giustizia per i Curdi . APPELLO URGENTE PER LA CANCELLAZIONE DEL PKK DALL’ELENCO DELLE ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE DELL’UE.
Nell’interesse della pace, della democrazia e dei diritti umani, chiediamo al Consiglio dell’Unione europea di rimuovere il PKK dall’elenco delle organizzazioni terroristiche vietate.
Una soluzione pacifica alla questione curda è un prerequisito per una sana democrazia e per la stabilità in Turchia e nel più ampio Medio Oriente. La Turchia e la sua vasta comunità curda potranno raggiungere quella soluzione pacifica solo attraverso i negoziati. Tali negoziati devono coinvolgere tutte le parti, compreso il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La designazione del PKK come organizzazione terroristica, tuttavia, è un ostacolo sulla via della pace.
Ci sono motivi pratici schiaccianti per cancellare il PKK dalla lista, e ci sono anche motivi legali. Il PKK è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 2002 su richiesta della Turchia, membro della NATO. La Corte suprema dell’UE, la Corte di giustizia del Lussemburgo, ha stabilito nel 2018 che il PKK è stato ingiustamente incluso nella lista dei terroristi dell’UE tra il 2014 e il 2017. Oltre a errori procedurali, la sentenza fa riferimento anche all’appello alla pace di Abdullah Öcalan nel 2013. Quando la validità della designazione di terrorismo è stata testata nei tribunali belgi, nel 2020 è stato accertato che il PKK non dovrebbe essere considerato legalmente un’organizzazione terroristica perché è parte di un conflitto armato non internazionale, il che lo rende soggetto alle leggi della guerra e non penale.
Inoltre, la nuova situazione del PKK in Medio Oriente non è stata presa in considerazione nell’elenco: né il temporaneo processo di pace e negoziato tra il PKK/curdi e il governo turco nel 2013-2015 né il nuovo ruolo dei curdi in del Medio Oriente, ad esempio nella lotta contro il cosiddetto Stato Islamico (ISIS). Dopo che lo Stato Islamico (ISIS) ha proclamato il suo “califfato” nell’estate del 2014 e ha iniziato a invadere vaste aree di territorio in Iraq e Siria, lo Stato turco gli ha fornito assistenza, soprattutto nell’attacco alle aree curde, mentre il PKK ha svolto un ruolo decisivo nella sconfitta dell’ISIS e di altri mercenari. L’ascesa dello Stato Islamico e di altri mercenari ha cambiato le priorità in Medio Oriente. La lotta del PKK con l’ISIS ha giovato agli sforzi antiterrorismo in Iraq e Siria. Il PKK ha contribuito a difendere e liberare aree come Makhmour, Sinjar e Kirkuk in Iraq, nonché Kobani e altre aree nel nord della Siria. Nell’agosto 2014, il PKK è stato determinante nella creazione di un corridoio umanitario per salvare decine di migliaia di yazidi intrappolati dall’ISIS sul monte Sinjar.
Nella storia dei curdi, nessun movimento è riuscito a mobilitare milioni di curdi per il loro diritto all’autodeterminazione come ha fatto il PKK. Si può affermare con certezza che il PKK è il movimento di massa più forte tra i curdi in Medio Oriente e nella diaspora. È anche il PKK che promuove e sostiene la libertà delle donne come dinamica strategica della democrazia sociale in Medio Oriente.
Non bastavano i talebani, adesso il Paese sta morendo di fame per la siccità. Sono 18 milioni le persone che non possono mangiare tutti i giorni e a fine anno saranno 22 milioni
Governare l’Afghanistan vuol dire far piovere. In Afghanistan la terra per la siccità è diventata dura come la pietra e a poco serve lavorarla. Manca l’acqua per irrigarla ma anche quella da bere. Il resto viene da sé. I pascoli sono bruciati, le greggi sono alla fame e con loro milioni di afghani. Si stima che 18 milioni di afghani non riescano a mangiare tutti i giorni e che alla fine dell’anno il numero possa arrivare a 22 milioni. Ma qui si parla soltanto dei talebani e di quello che avviene nelle città.
Non c’è solo il caos politico in Afghanistan, c’è un Paese che sta morendo. La gente scappa dalle campagne sperando di trovare nelle città qualche cosa di cui nutrirsi: i profughi interni sono milioni. Non fuggono dai talebani, ma dalla fame. In un servizio di Euronews, viene intervistato Haji Khair Mohammad, un pastore nomade della provincia di Kandahar. Indica i suoi animali e dice che manca il cibo anche per loro: «Per questo sono magrissimi e non danno latte». Molti alla fine muoiono.