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Autore: Anna Santarello

Il silenzio di una nazione e la sua identità culturale

Musica e musicisti nella vita e nella cultura dell’Afghanistan al tempo dei talebani. Un approfondimento.

Fabrizio Foschini – AAN – 16 novembre 2021

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Il divieto non ufficiale della musica è una delle numerose battute d’arresto politiche e sociali che l’Afghanistan ha subito dalla caduta della Repubblica in mano ai Talebani il 15 agosto 2021. Eppure, nonostante l’ampia copertura dei media internazionali e le iniziative a sostegno dei musicisti, la musica non è stata all’ordine del giorno ai tavoli diplomatici, dove si deliberano gli standard di governance e gli impegni di aiuto.

Mentre alcuni potrebbero considerare il bando della musica da parte dei talebani come un tentativo di genocidio culturale, sembra improbabile che la musica sarà una priorità tra le questioni che la comunità internazionale sta cercando di salvaguardare. Prima della conquista dei talebani, la necessità di difendere il patrimonio culturale dell’Afghanistan avrebbe ricevuto più attenzione. Tuttavia, dato che i diritti e le libertà più elementari delle persone sono attualmente minacciati, tali preoccupazioni non sono più una priorità.

A marzo, sembrava che la musica sarebbe diventata l’ultima vittima della guerra quando il governo di Ashraf Ghani aveva vietato alle ragazze di età superiore ai 12 anni di cantare in pubblico in un apparente tentativo di rafforzare i colloqui di pace a Doha. All’epoca, i gruppi della società civile sollevarono preoccupazioni sul fatto che il governo fosse pronto a sacrificare alcune libertà civili per accogliere i gruppi fondamentalisti. A quel tempo, centinaia di donne e ragazze afghane protestarono contro il divieto – le loro voci riassunte nell’hashtag “#IamMySong” su Twitter. Questa mobilitazione locale e le preoccupazioni internazionali sollevate portarono alla revoca della sentenza del presidente Ghani.

Appena sei mesi dopo, le prospettive di un’opposizione significativa al divieto quasi totale dei talebani sulla musica sembrano deboli. Ma quali sono le radici del divieto talebano sulla musica e le sue conseguenze sia ora che in futuro?

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L’Afghanistan affronta la carestia

Come ONU, Banca mondiale e Stati Uniti dovrebbero adeguare le sanzioni e le politiche economiche, secondo il parere di Human Rights Watch

Human Rights Watch – 11 novembre 2021

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I paesi donatori, le Nazioni Unite e le istituzioni finanziarie internazionali dovrebbero affrontare con urgenza il collasso dell’economia afghana e il crollo del suo sistema bancario per prevenire la carestia diffusa, ha affermato oggi Human Rights Watch.

Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha emesso diversi avvertimenti sul peggioramento dell’insicurezza alimentare e sul rischio di morti per fame su larga scala in tutto l’Afghanistan nei prossimi mesi. I media hanno riferito che le famiglie prive di denaro e cibo stanno vendendo i loro beni e cercano di fuggire dal Paese via terra. Gli afghani impoveriti che hanno di fronte la malnutrizione hanno descritto tentativi disperati di acquistare o procurarsi cibo e la morte di persone impossibilitate a partire.

“L’economia e i servizi sociali dell’Afghanistan stanno crollando, con gli afghani in tutto il paese che già soffrono di malnutrizione acuta”, ha affermato John Sifton, direttore per la difesa dell’Asia presso Human Rights Watch. “L’aiuto umanitario è fondamentale, ma data la crisi, i governi, le Nazioni Unite e le istituzioni finanziarie internazionali devono adeguare urgentemente le restrizioni e le sanzioni esistenti che interessano l’economia e il settore bancario del Paese”.

In seguito alla presa del potere dell’Afghanistan da parte dei talebani nell’agosto 2021, milioni di dollari di mancato guadagno, aumento dei prezzi, crisi di liquidità e carenza di denaro hanno privato gran parte della popolazione dell’accesso a cibo, acqua, riparo e assistenza sanitaria, ha affermato Human Rights Watch.

Una donna che vive nell’Afghanistan centrale ha detto a Human Rights Watch che pochi nella sua comunità hanno soldi o cibo: “Gli insegnanti non sono stati pagati negli ultimi tre mesi… La gente è davvero disperata. Quando non hai cibo nel piatto, non puoi pensare ad altro. Nessuno ha soldi per comprare carburante, per riscaldare la casa quando nevica o per comprare cibo”.

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La cinica strategia che affama l’Afghanistan

La giusta rabbia nei confronti degli Usa per la ventennale strumentale occupazione dell’Afghanistan e la sfiducia nella sincerità degli obiettivi dichiarati e nella loro volontà di aiuto nei confronti del popolo afghano  non devono farci dimenticare che il governo talebano non è solo feroce e reazionario nei confronti del suo popolo ma è illegittimo in quanto non è stato democraticamente eletto ma imposto con la forza.

I soldi congelati nelle banche Usa e internazionali, così indispensabili per impedire al popolo di morire di fame e di freddo, non sono proprietà del governo talebano ma del popolo afghano, quindi ad esso devono essere restituiti.

Le/i attiviste/i con cui siamo in contatto chiedono chiaramente e insistentemente a tutti i governi del mondo di non riconoscere lo stato talebano e di non sostenerlo economicamente attraverso aiuti economici diretti che dovrebbero essere destinati alla popolazione perché:

– come avvenuto in passato, tutto il denaro che passa per le mani dei talebani finirebbe nel sostegno dell’esercito e dell’apparato talebano e niente arriverebbe al popolo

– togliere le difficoltà di gestione ed economiche al governo talebano significherebbe rafforzare il loro regime, permettendogli così di concentrarsi sull’attuazione della sharia e la repressione del popolo, cosa che per ora è limitata dalle divisioni interne e dalle difficoltà nel mantenere il potere

Gli indispensabili urgenti aiuti alla popolazione devono invece passare attraverso le agenzie dell’Onu, che sono ancora presenti in Afghanistan, e le associazioni democratiche che ancora lavorano, con grande coraggio e difficoltà, sul territorio.

Gwynne Dyer – Internazionale – 16 novembre 2021

165620 sdLa prima neve cadrà su Kabul da un giorno all’altro, e il tasso di mortalità comincerà a crescere. A morire saranno soprattutto i bambini, ma non sarà il freddo a ucciderli. Quello, al massimo, si limiterà a completare l’opera iniziata mesi o anni fa dalla malnutrizione. All’origine dell’imminente tragedia c’è un altro tipo di congelamento.

La maggior parte delle carestie è il risultato diretto, ea volte deliberato, di una guerra, come l’attuale blocco del Tigrai da parte dei regimi di Etiopia ed Eritrea o il blocco dello Yemen da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati regionali e occidentali. In Afghanistan, invece, è stata la fine di una guerra a provocare la fame.

Durante gli ultimi due anni dell’occupazione statunitense il paese è stato colpito dalla siccità, quindi i più poveri erano già vulnerabili prima degli eventi della scorsa estate (sono sempre i poveri a soffrire la fame quando il cibo scarseggia ei prezzi salgono). Ma ad aver peggiorato questa situazione è stato il caos dal ritiro dei soldati americani ad agosto.

Mentre sugli schermi degli americani scorrevano le immagini caotiche e cresceva il senso di umiliazione, l’amministrazione Biden ha messo in chiaro un aspetto cruciale. “Qualsiasi risorsa che il governo afgano possieda nelle banche statunitensi non sarà messa a disposizione dei taliban”, ha dichiarato un funzionario il 15 agosto. A quel punto la carestia è diventata inevitabile.

Il fatto che il governo americano e le istituzioni dominate dagli Stati Uniti, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, hanno finito di inviare aiuti all’Afghanistan dopo la conquista del potere da parte dei taliban è comprensibile. La fine degli aiuti ha rappresentato un grande problema per il nuovo regime – perché i finanziamenti dall’estero coprivano i tre quarti della spesa pubblica – ma di sicuro non è stata una sorpresa.

Diverso è il caso del congelamento di tutto il denaro afgano depositato nelle banche americane e occidentali (9,5 miliardi di dollari soltanto negli Stati Uniti). Si tratta soprattutto di aiuti che il precedente regime non aveva ancora speso, o che aveva fatto sparire. È comunque denaro afgano e appartiene al nuovo governo del paese, ovvero ai taliban.

Questo è il congelamento che avrà le conseguenze più disastrose. L’economia interna afgana è sostanzialmente collassata, ma in quei conti congelati c’è denaro a sufficienza per importare prodotti alimentari e permettere ai 40 milioni di afgani di superare l’inverno senza che ci siano troppe vittime per la fame. Ma allora perché il governo di Washington non sblocca questo denaro?

I cinici suggeriscono che gli Stati Uniti non perdonano mai i paesi e i governi che hanno osato sfidarli (e batterli). L’esempio perfetto è Cuba, dove l’embargo commerciale dura da sessant’anni. Ma il cinismo è maligno. Dovremmo accettare la giustificazione dei paesi che trattengono il denaro afgano per come ci viene offerta.

Biden evita di parlare della vicenda, ma il mese scorso il portavoce del dipartimento di stato Ned Price ha dichiarato che i fondi fanno parte della strategia del “bastone e la carota” che gli Stati Uniti utilizzano per influenzare il comportamento dei taliban.

Un altro funzionario dell’amministrazione ha sottolineato che “sbloccare le riserve di denaro non garantisce che i taliban le utilizzeranno per risolvere i problemi dell’Afghanistan”. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha spiegato che “non possiamo firmare un assegno in bianco alle autorità taliban. Dobbiamo fare in modo che il paese non torni a essere un narco-stato e un paradiso per i terroristi”.

Chi credono di essere queste persone? Il denaro appartiene all’Afghanistan, e alcuni afgani stanno già morendo di fame. Che diritto hanno queste persone di trattenere il denaro fino a quando il paese non dimostrerà di non essere “un rifugio per i terroristi”? Come possono i taliban dimostrare che non lo diventeranno? Quanto tempo ci vorrà? Fino al primo milione di morti di fame? Fino al secondo?

Probabilmente ci sono persone al dipartimento di stato (e sicuramente all’interno dei servizi americani) abbastanza convinte che i taliban non siano mai stati coinvolti in alcun attacco portato su suolo statunitense.

Washington ha sostenuto per vent’anni che i taliban conoscessero i piani di Osama bin Laden per gli attacchi dell’11 settembre, ma non è mai stata portata alcuna prova a sostegno di questa tesi, che tra l’altro non ha molto senso. Bin Laden, infatti, non ha preparato l’attacco su suolo afgano, e informare i taliban in anticipo avrebbe messo in pericolo la riuscita del piano.

Questa narrativa ha servito gli scopi degli Stati Uniti in passato e continua a farlo anche oggi, soltanto che l’obiettivo attuale è semplicemente quello di punire i taliban per aver vinto la guerra. È un comportamento ignobile, ma le grandi potenze agiscono spesso come bambini vendicativi, soprattutto quando non ne pagano le conseguenze.

“Il denaro appartiene alla nazione afgana. Consegnateci i nostri soldi”, ha dichiarato la settimana scorsa il portavoce del ministero delle finanze Ahmad Wali Haqmal. “Congelare questi fondi non è etico e va contro tutte le leggi e i valori internazionali”. Ma il denaro resterà bloccato. E presto sull’Afghanistan calerà l’inverno.

(Traduzione di Andrea Sparacino)


Libertà per Ocalan. La lotta dei curdi sbarca a Napoli

“Cancellare il PKK dalla dalla lista dei gruppi terroristici, concedere a Ocalan la cittadinanza onoraria in tutte le città d’Italia e d’Europa”

Chiara Cruciati, MiM, 13 novembre 2021

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Ad accoglierli hanno trovato centinaia di persone, sul molo Pisacane del porto di Napoli. Un po’ di pioggia, bandiere curde e quelle rosse di Rifondazione Comunista e una canzone, Bella ciao, intonata mentre scendevano la scaletta della barca, addosso una maglietta nera con il volto del leader del Pkk, Abdullah Ocalan. A mezzogiorno sono sbarcati in Italia i 40 partecipanti alla carovana per la libertà, intellettuali, politici, artisti curdi e di svariati paesi del mondo, partiti da Atene l’8 novembre.
Un’iniziativa che a Napoli è stata coordinata da Rete Kurdistan Meridione e che cade a 23 anni dall’arrivo di Ocalan in Italia. Partì dalla Grecia, come la carovana, in cerca di asilo politico in terra italiana. Pochi mesi dopo sarebbe stato catturato a Nairobi, con quella che è stata definita «un’operazione di pirateria internazionale», dai servizi segreti turchi, principio della lunga prigionia che ancora oggi lo costringe nell’isola-prigione di Imrali.

È a Ocalan che era rivolta l’iniziativa della carovana. A lui e alla quotidianità affrontata nei quattro angoli del Kurdistan dal progetto di confederalismo democratico sorto dalla sua teorizzazione, sotto attacco della Turchia ormai da anni. Sotto diverse forme: l’occupazione militare-jihadista del cantone curdo-siriano di Afrin e dell’est del Rojava, la campagna di attacchi con i droni contro il campo profughi di Makhmour e la regione di Shengal, in Iraq, e infine i bombardamenti continui contro le montagne di Qandil, rifugio della leadership politica del Pkk e della sua resistenza armata.

Di questo parla al manifesto Yuksek Koc, co-presidente del Congresso popolare dei curdi in Europa, a bordo con ex deputati e deputate dell’Hdp, oggi in esilio: «Il nostro obiettivo è attirare l’attenzione sui crimini che la Turchia compie in Kurdistan. Una guerra sporca che si serve di ogni mezzo e tecnologia con il sostegno di Usa e Russia. Lo Stato turco pensa di uscire dalla propria crisi, di ricostruire la propria grandezza, distruggendo la nostra esperienza, anche usando armi chimiche, proibite, contro i villaggi e i civili».
«Chiediamo di cancellare il Pkk dalla lista dei gruppi terroristici, per togliere alla Turchia ogni copertura politica. Chiediamo a tutte le città d’Italia e d’Europa di concedere a Ocalan la cittadinanza onoraria, come ha fatto Napoli».

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“L’Afghanistan è una ferita aperta”

Intervista alla cineasta Shahrbanoo Sadat, che coi suoi film racconta la gente comune del suo paese e sfida le convenzioni della società tradizionale

Chiara Zanini, Shahrbanoo Sadat -, Jacobin Italia – 10 ottobre 2021

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 Shahrbanoo Sadat è una regista, sceneggiatrice, produttrice e regista afghana nata nel 1991 in Iran. Ha iniziato a formarsi nel cinema con Ateliers Varan, un workshop organizzato da cineasti francesi in più paesi, attivo dal 2006 anche a Kabul e che oggi offre gratuitamente on line il primo cortometraggio di Sadat, A Smile For Life, la cui protagonista è Ghezal, una ragazza di vent’anni alta 70 centimetri. Con il primo cortometraggio di finzione, Yeke Varune (Vice Versa One, 2010), Sadat inizia a frequentare con successo i festival europei, venendo selezionata alla Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes e poi al festival di Locarno. Anche in questo secondo caso la protagonista è una giovane. Nel 2013 dirige Not At Home, in cui fonde cinema documentario e finzione, nel quale gli ospiti di un centro per richiedenti asilo in Germania hanno recitato come comparse. Nello stesso anno fonda una propria casa di produzione a Kabul, la Wolf Pictures, con la quale co-produrrà il suo primo lungometraggio di finzione, Wolf and Sheep (2016), anch’esso presentato alla Quinzaine a Cannes, sviluppato grazie alla residenza per registi del festival di Cannes per la quale era stata selezionata nel 2010. All’epoca aveva vent’anni e rimane la regista più giovane mai scelta. Wolf and Sheep fa parte, come il successivo The Orphanage, di una pentalogia (cinque lungometraggi) basata sul diario personale di 800 pagine dell’attore e scrittore Anwar Hashimi. I protagonisti di questi due film, girati in gran parte in Tajikistan, sono bambine e bambini. Il film cui sta lavorando attualmente, Kabul jan, è invece una commedia romantica che sfida le convenzioni della società afghana raccontando la storia d’amore tra una giovane operatrice e un giornalista che ha il doppio della sua età ed è sposato.

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Dall’Afghanistan una orchestra di sole donne

Un appuntamento da parte delle musiciste dell’Orchestra Olimpia di Pesaro per le loro sorelle afgane dell’orchestra Zohra per l’8 marzo 2023 un’idea, un’utopia concreta, che non deve non può morire

Il Manifesto – 14 novembre 2021 – di Guido Barbieri  

orchesta ZhoraE adesso? Adesso che Zohra non c’è più, dissolta, volata via, dispersa ai quattro angoli del mondo, che cosa possiamo fare? O anche, semplicemente, che cosa possiamo pensare? Questo nome-prisma, dai mille significati (alba, fiore, aurora, bellezza, Venere, dea della musica), dice poco o nulla, forse, dalle nostre parti. E invece nasconde una delle esperienze più «radicali» della storia recente. Della storia dell’Afghanistan, ma a ben pensarci della storia del mondo. Zohra è innanzitutto un’orchestra, nata a Kabul nel 2015.

Un’orchestra diversa da tutte le altre, però: perché i trenta musicisti che l’hanno fatta nascere, sono in realtà musiciste: donne, ragazze, giovanissime: tutte tra i tredici e i vent’anni. L’idea di un’orchestra femminile, che anche nel cosiddetto Occidente non ha mai avuto una gran fortuna, è stata per la verità di un uomo: Ahmad Sarmast, musicologo, attivista per i diritti umani, che nel 2010 ha fondato a Kabul l’Istituto Nazionale Musicale Afgano (ANIM, in sigla): una scuola che fino a pochi a pochi mesi ospitava, e metteva sulla strada della musica, 350 allievi: ragazzi e ragazze di strada, orfani e orfane, adolescenti senza distinzione di sesso, religione e censo. Ed è proprio dall’albero dell’Istituto che è spuntato, sei anni fa, il ramo fiorito di Zohra.

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AFGHANISTAN. MSF, ‘SISTEMA SANITARIO SUL PUNTO DI ROTTURA’

Notiziegeopolitiche.net  – Maurizio Debanne* – 10 novembre 2021

Malnutrizione in forte crescita a Herat

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Il sistema sanitario afgano, da anni fragile e afflitto da grandi lacune, è a rischio collasso, mentre i bisogni della popolazione restano enormi. Ad Herat, Medici Senza Frontiere (MSF) sta assistendo a un preoccupante aumento dei casi di malnutrizione, cresciuti del 40 per cento tra maggio e settembre rispetto allo stesso periodo del 2020. Il picco di malnutrizione nel 2021 ha superato i livelli abituali sia in termini di intensità che di durata, e a settembre si è registrato un ulteriore aumento invece della solita diminuzione dei casi.

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Afghanistan, studentesse di nuovo in classe ad Herat

Pressenza.com Gabriella Scafuri – 12 novembre 2021

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Dalla presa al potere dei talebani avvenuta lo scorso 15 agosto, la comunità internazionale ha fatto pressioni affinché venissero garantiti i diritti fondamentali alle donne.

Non è la prima volta, infatti, che i talebani limitano in modo significativo la libertà femminile, con misure restrittive ascrivibili al loro primo regime nel Paese, dal ’96 al 2001.

Di lì, in seguito alla caduta del regime, le donne afghane avevano ripreso a frequentare la scuola e i luoghi di lavoro, fino a quando le loro vite sono state nuovamente stravolte dall’arrivo degli integralisti islamici.

L’istruzione, si sa, è l’arma più potente e non stupisce che i talebani abbiano imposto tali divieti.

Sebbene finora si siano verificate gravi violazioni in merito agli accordi internazionali, e non ci siano stati comunicati ufficiali da parte dei talebani, qualcosa si sta muovendo: nella regione occidentale, ad Herat, la terza città più grande dell’Afghanistan, molte scuole hanno riaperto.

Lo riferisce TOLOnews, il principale canale di notizie afgano, su twitter, postando la foto di una classe femminile e citando informazioni rilasciate da un’associazione locale di docenti. Il Consiglio degli insegnanti di Herat, infatti, in coordinamento con il Dipartimento dell’Istruzione, ha stabilito il provvedimento che interessa oltre 5000 giovani, dal settimo al dodicesimo anno di corso. Inoltre, secondo le stime dell’associazione locale, la decisione intende permettere il rientro in classe di 300mila ragazze, tenendo conto che una cospicua parte della popolazione scolastica – registrata dalle autorità – è composta proprio da loro.

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Kabul, un altro tassello dell’abbandono italiano

Remocontro.it – 11 novembre 2021

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Sull’orlo di una catastrofe alimentare e umanitaria a tutti gli effetti. Un rapporto delle Nazioni Unite denuncia che il 98% della popolazione è sulla soglia di povertà. I più colpiti tra oltre 23 milioni di civili saranno i bambini. Da quando i talebani sono tornati al potere, gli aiuti sono stati dimezzati, i fondi internazionali che sostenevano la fragile economia del paese sono stati bloccati.

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“Troika Plus” in Pakistan: USA, Cina e Russia discutono di Afghanistan

sicurezzainternazionale.luiss.it – 11 novembre 2021

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L’11 novembre, Islamabad ha ospitato una conferenza del gruppo definito “Troika Plus”, in cui i rappresentanti di Stati Uniti, Russia e Cina hanno discusso della situazione in Afghanistan. 

Il giorno precedente, il 10 novembre, una delegazione dell’Emirato Islamico talebano, guidata dal ministro degli Esteri ad interim, Amir Khan Muttaqi, si era recata ad Islamabad, per discutere dei rapporti bilaterali tra Pakistan e Afghanistan, con un focus sul commercio. In tale contesto, il portavoce del Ministero degli Esteri afghano aveva annunciato che Muttaqi avrebbe seguito gli sviluppi dell’incontro tra gli inviati speciali di Russia, Stati Uniti e Cina ad Islamabad. Tuttavia, la delegazione talebana non ha preso parte alla conferenza della Troika Plus.

In occasione dell’incontro dell’11 novembre in Pakistan, il ministro degli Esteri di Islamabad, Shah Mahmood Qureshi, ha ribadito la preoccupazione per la crisi economica afghana, sottolineando che questa rischia di causare instabilità nell’intera regione. “Tutti noi abbiamo preoccupazioni comuni relative all’Afghanistan e abbiamo anche un interesse condiviso nella pace e stabilità del Paese”, ha affermato. Qureshi ha quindi suggerito che l’incontro della Troika, insieme all’impegno del governo afghano, avrebbe spianato la strada ad uno “sviluppo economico sostenibile” che possa garantire la sicurezza della regione. 

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