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Autore: Anna Santarello

Berdan Öztürk: “Coloro che tacciono sugli attacchi chimici contro i curdi sono complici dei crimini della Turchia”

Uiki onlus – 31 ottobre 2021 

Il co-presidente del Congresso della souikionlus31 10 21cietà democratica(DTK), Berdan Öztürk, ha dichiarato all’incontro “Tempo per la libertà” a Viranşehir che lo stato turco sta usando armi chimiche.

Il Congresso della società democratica (DTK) e il Partito delle regioni democratiche (DBP) hanno tenuto un incontro pubblico nel distretto di Viranşehir della provincia di Urfa come parte della campagna “Tempo per la libertà”. Il co-presidente del DTK Berdan Öztürk, la co-presidente del DBP Saliha Aydeniz, i deputati del Partito democratico dei popoli (HDP) di Urfa, le esponenti del Consiglio delle Madri della Pace di Urfa e numerose altre persone hanno partecipato all’incontro presso la sede di HDP Viranşehir.

Intervenendo all’evento, il co-presidente DTK Öztürk ha sottolineato che il sistema statale turco si basa sullo “sterminare i curdi. Una politica basata su questo principio è attualmente perseguita non solo qui, ma anche nelle quattro parti del Kurdistan. Un altro fatto è che i curdi non hanno mai accettato politiche anticurde. Abbiamo pagato un prezzo enorme. Tuttavia, non abbiamo mai accettato la prigionia e abbiamo sempre lottato per la libertà.

“Turchi e altri popoli convivono nel paese, ma uno dei popoli più antichi sono i curdi. Non abbiamo mai favorito la discriminazione di nessuna popolazione. Abbiamo sempre difeso una vita comune. Abbiamo sempre sostenuto le differenze nella fede e nella cultura. Tuttavia sono state perseguite politiche secolari per spezzare la volontà del popolo curdo nelle quattro parti del Kurdistan”.

Non vogliono che siano promosse le idee di Ocalan

Berdan Öztürk ha sottolineato che il recente mandato militare per mantenere le truppe in Siria e Iraq approvato dal parlamento turco è la prova di 100 anni di negazione e distruzione dei curdi. Ha sottolineato che l’isolamento del leader del PKK Abdullah Öcalan è stato aggravato dal 5 aprile 2015, aggiungendo: “Vogliono mettere a tacere la sua voce. Non vogliono che le idee di Öcalan, che offrono una vita alternativa, vengano promosse in Turchia e in Medio Oriente”. “Abbiamo anche visto le amministrazioni di Demirel, Çiller e Yılmaz, ma nessuno ha perpetrato persecuzioni tanto quanto il governo al potere dell’AKP-MHP. La persecuzione continua e il parlamento ha approvato il mandato militare per la continuazione di questa persecuzione”, ha affermato Berdan Öztürk.

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Kabul, l’Isis-K evidenzia l’insicurezza talebana

Dal Blog di Enrico Campofreda, 2 novembre 2021 Campofreda 2 11 21

Come loro, più di loro. L’Isis Khorasan insegue da quattro anni il primato della destabilizzazione dell’Afghanistan a colpi di esplosioni e vittime civili.

Cercava di colpire il governo Ghani con attentati più eclatanti e spregiudicati dei talebani. Mentre quest’ultimi indirizzavano camion-bomba e azioni armate prevalentemente contro obiettivi politici (centri dell’Intelligence, caserme dell’esercito, militari) falciando spesso anche i poveri cittadini capitati nel luogo sbagliato, i jihadisti del Khorasan mirano direttamente a quest’ultimi. Li sterminano nelle moschee sciite, nelle scuole, negli ospedali, nelle strutture per neonati. L’hanno fatto fino ad agosto scorso.

Continuano a farlo nell’Emirato, con più gusto perché ora lo scontro coi turbanti non è indiretto. È rivolto a quest’ultimi, sebbene finora non ne abbiano sparso il sangue. Le vite troncate continuano a essere quelle della gente per via, però gli obiettivi si avvicinano agli uomini di Akhundzada.

Oggi l’Isis-K ha eliminato diciannove persone. Non l’ha rivendicato, ma a tutti appare chiara la sua matrice. Il numero delle vittime, come sempre, potrà aumentare se il cuore di qualcuno dei quarantatré feriti cesserà di battere. Sono state registrate due esplosioni in successione nella capitale. In pieno centro, all’entrata dell’ospedale militare Mohammad Daud Khan, appena fuori dalla zona delle ambasciate, quella statunitense dista a mala pena cinquecento metri. L’area è stata per un ventennio una città proibita, blindatissima ai più, ipercontrollata con un triplo filtro di check-point.

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NADIA ANJUMAN, POETA AFGANA UCCISA PERCHÉ DONNA

La Bottega del Barbieri – 3 novembre 2021 – di Santa Spanò

Nadia AnjumanIl 4 novembre 2005, ad Herat nel centro occidentale dell’Afghanistan, Nadia Anjuman, poetessa, è morta massacrata di botte dal marito: aveva appena 24 anni e da 6 mesi era diventata madre di una bambina.

Una breve premessa è necessaria, è necessario ricordare che il territorio afghano si è guadagnato il soprannome di “tomba degli imperi”, direi di aggiungere anche “tomba delle donne”, dopo una parentesi durata vent’anni, i talebani hanno riconquistato l’Afghanistan (da qui si capisce il soprannome). Con il ritiro dei vari organismi internazionali i diritti civili a fatica conquistati, soprattutto dalle donne, con tutta probabilità diventeranno fumo. Per le donne lo sport in pubblico è già vietato, le scuole per le donne, separate dagli uomini, diventeranno una sorta di seminari religiosi e comunque studi o non studi, le donne non le cariche pubbliche se le potranno scordare, frustate a chi indossa abiti occidentali, le donne saranno costrette a indossare il burqa, sarà vietato uscire di casa senza il marito o un mahram (parente), sono ripresi i rapimenti di donne ridotte a schiave sessuali, future mogli promesse a chi si arruola, fustigazioni pubbliche, lapidazione, amputazione di arti e mani ed esecuzioni sommarie (da qui si capisce anche il soprannome che ho suggerito io).

Il titolo “Ritorno al futuro” – ricorderete sicuramente questa pellicola degli anni ’80 con Michael J. Fox e Christopher Lloyd – è una sintesi perfetta di quanto accaduto, la sensazione è proprio questa, come se tutti questi anni fossero trascorsi invano mentre i talebani viaggiavano indisturbati nel tempo per far in modo che in questo territorio martoriato, oggi ribattezzato Emirato islamico dell’Afghanistan, tutto tornasse al periodo 1996-2001.

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La vera storia della foto delle ragazze afgane in minigonna

3 novembre 2021 – Internazionale

Dopo l’11 settembre la foto di tre ragazze in minigonna per le strade di Kabul negli anni settanta è diventata un simbolo della modernità occidentale persa dall’Afghanistan. È stata mostrata anche all’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump per convincerlo a non ritirare l’esercito dal paese: con la sconfitta dei taliban, il paese avrebbe recuperato una condizione che gli era già appartenuta.

Ma non è così. “L’immagine in questione va contestualizzata”, spiega nel video la sua autrice, Laurence Brun. “Cinquant’anni fa era un’eccezione incontrare persone vestite in quel modo. Per questo l’ho scattata. È vero, le città andavano verso il progresso. Ma nelle campagne resistevano le tradizioni, compreso il velo”.

Il video di Le Monde racconta la storia del tentativo di far uscire il paese dall’arretratezza e di concedere pari diritti e dignità alle donne, condotto a partire dalla fine degli anni cinquanta, fino alla guerra civile del 1978.

Video

Il G20 si scorda dell’Afghanistan

Come già sostenevamo da tempo l’Afghanistan sta uscendo dall’agenda mondiale e la sua popolazione è lasciata in balia di decisioni spesso tardive che disattendono le aspettative e le speranze di tante persone

Lettera22,  31 ottobre 2021, di Emanuele Giordana  G20

Il mondo nel suo complesso, nonostante l’ennesimo allarme Onu su una catastrofe imminente – sembra voler dimenticare rapidamente quella parentesi durata vent’anni e costata – solo a noi – circa 9miliardi per il 95% devoluti alla spesa militare. Europa e Stati Uniti, gli attori della ventennale avventura, si muovono del resto in ordine sparso

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IHD: 9 persone hanno perso la vita in carcere in 3 mesi

Rete Kurdistan – 31 ottobre

ihd carceri ankaraLa Commissione carceri della sezione di Ankara di IHD ha annunciato il rapporto trimestrale sulle violazioni dei diritti nelle carceri della regione dell’Anatolia centrale. Nel rapporto, che ha richiamato l’attenzione sulle pratiche di tortura in corso nelle carceri, è stato osservato che nove persone hanno perso la vita in carcere negli ultimi tre mesi.

La Commissione per le carceri della sezione di Ankara dell’Associazione per i diritti umani (IHD) ha annunciato in una conferenza stampa il rapporto trimestrale sulle violazioni dei diritti nelle carceri della regione dell’Anatolia centrale, che copre i mesi di luglio, agosto e settembre, Il rapporto è stato letto per conto della commissione da Nuray Çevirmen, membro del Comitato esecutivo centrale di IHD.

Mentre si è affermato nel rapporto che erano sono state registrate 35 segnalazioni, si è ricordato che gli scioperi della fame alternati a tempo indeterminato nelle carceri che chiedevano la fine dell’isolamento a Imralı si sono conclusi il 12 settembre, nel 290° giorno.

Secondo le statistiche delle Istituzioni Penali pubblicate dalla Direzione Generale delle Carceri e degli Istituti di Detenzione, nel rapporto si afferma che ci sono un totale di 292.074 detenuti e detenute negli istituti penitenziari; si afferma che le violazioni dei diritti nelle 18 carceri nella regione dell’Anatolia centrale sono state segnalate anche nelle carceri chiuse di tipo F di Van e Şanlıurfa e nelle carceri fuori della regione dell’Anatolia centrale.

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L’Afghanistan, la CIA, e la droga

Rodrigo Andrea Rivas – Pressenza – 28 ottobre

Soldati statunitensi piantagione di papaveriSecondo Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, “l’Afghanistan smetterà di coltivare oppio”.

Ma, poiché nel 2021 l’oppio afghano rifornisce l’83% del mercato mondiale e nel solo 2020 ha generato circa 1,6 miliardi di dollari, mi sembra difficile che i talebani ci rinuncino.

Quindi, la dichiarazione serve ad altro. Mi vengono in mente tre ragioni:

a) ricattare le nazioni colpite dalla sostanza, aggiungendo ai loro profitti da oppio ed eroina nuovi finanziamenti esterni arrivati come “contributo alla coltivazione di riso”.

b) presentarsi meglio sulla scena internazionale. Garantiscono pure il rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze etniche “nel contesto dell’Islam”. Infatti, il 20 ottobre 2021 è stata decapitata una pallavolista perché giocava senza coprirsi la testa.

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Afghanistan due mesi dopo

Stefano Gallieni, Transform Italia, 27 ottobre

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Due mesi dopo l’ingresso a Kabul dei miliziani taliban è utile non spegnere i riflettori e provare a capire cosa sta succedendo nel Paese che ha, ricordiamo, un tasso di povertà fra i maggiori del pianeta. Le notizie che giungono sono inquietanti e terribili. La decantata pace armata non è mai giunta e si susseguono, come durante l’occupazione Nato, gli attentati, le violenze, le razzie. Il governo è instabile e non riesce a prendere alcun provvedimento, l’Isis K (dall’iniziale della provincia di Khorasan), ramo afghano dello Stato Islamico, continua a compiere attentati soprattutto in moschee in mano ai taliban ma le cancellerie ne agitano la consistenza come un mostro che potrebbe tornare a colpire in Europa o USA.

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Un altro regalo a Erdogan

Murat Cinar, Pressenza, 26 ottobre

ErdoganLo scorso fine settimana è passato con una impressionante crisi politica tra Ankara e alcuni paesi stranieri. 10 ambasciatori presenti in Turchia hanno firmato una breve lettera in cui chiedevano l’immediata scarcerazione di Osman Kavala, il filantropo turco in carcere da quattro anni e accusato, tra le altre cose, di essere uno dei finanziatori della rivolta popolare del 2013, Gezi, in collaborazione con le fondazioni appartenenti al filantropo ungherese Soros. Gli ambasciatori firmatari sono dei seguenti paesi; USA, Germania, Francia, Nuova Zelanda, Danimarca, Finlandia, Olanda, Svezia, Canada e Norvegia.

In poche ore le reazioni dei media main stream, controllati da cinque aziende edili che operano principalmente nel campo dell’energia e lavorano come mezzi di propaganda di Ankara, sono state di un solo tipo; “vogliono intervenire nei nostri affari interni”. Mentre nel Paese veniva diffusa di nuovo la paranoia del “tutti ce l’hanno con noi”, arrivavano le prime reazioni anche dal mondo istituzionale.

Il Consiglio Superiore dei Giudici e Procuratori, nel suo breve comunicato diceva così: “È una dichiarazione che supera i limiti della critica nei confronti del sistema giuridico turco. I nostri giudici sono indipendenti come lo prevede anche l’articolo 138 della Costituzione. Nessuno può dare ordini ai nostri giudici e procuratori. Nessun intervento dall’esterno, lanciato con l’intento d’intervenire nei processi giudiziari, può essere tollerato”. Nel giro di poche ore è arrivato un commento netto e chiaro anche dal capo dello Stato, il Presidente della Repubblica che ha detto: “Kavala è il rappresentante di Soros. Questi dieci ambasciatori si permettono di rivolgersi al Ministro degli Esteri chiedendo la scarcerazione di Kavala. Pensano che la Turchia sia un paese governato da un tribù. Voi non potere dare ordini al Ministro degli Esteri. Ho chiesto al Ministro di definire questi dieci ambasciatori come persone non gradite. Questi devono comprendere e rispettare la Turchia altrimenti possono lasciare il nostro paese”. Anche se nelle ore successive sia il Ministero degli Esteri sia gli ambasciatori coinvolti avevano specificato che non era stata presa o comunicata nessuna decisione ufficiale ormai si trattava di una crisi diplomatica gigantesca e ancora una volta il Presidente della Repubblica era salito sul palco per fare il suo spettacolo.

Durante i suoi 20 anni di governo, Recep Tayyip Erdogan è riuscito a decifrare e analizzare bene l’Europa: ha capito che l’Unione di oggi non è più in grado di prendere una decisione comune, la maggior parte dei paesi che la compongono sono incapaci di difendere i propri valori e che la loro più grande preoccupazione è ormai prevenire l’afflusso di rifugiati. Un’unione composta dai partiti politici che non hanno un vero, sostenibile e condiviso programma per trovare una soluzione alla crisi economica e sanitaria. Un’unione composta da quei partiti politici che se non inseriscono nel loro programma “la lotta contro l’immigrazione irregolare” non possono cantare gli inni della vittoria nelle tornate elettorali. Un’unione che si è legata la Turchia sempre di più nel suo ombelico e un’unione che ormai fa basare la sua economia sulla vendita delle armi verso i paesi in pieno conflitto; un punto su cui la dipendenza da Ankara è decisamente molto forte. Ovviamente la stessa analisi è fattibile anche per Washington che oltre a fare i conti con un leader pazzo in casa sua, ha dovuto fare delle manovre obbligatorie e rischiose in Siria, Libia e Afghanistan. Quelle manovre molto criticate e che per la maggior parte hanno lasciato i territori ad una serie di paesi non alleati della NATO.

Dunque Erdogan, in questi anni, si è reso conto che il capitale occidentale si preoccupa solo dei suoi interessi e profitti, non della democrazia, dei diritti umani o della laicità dello Stato. Le decisioni della Cedu oppure della sua Grande Camera sono ormai delle piccole e deboli sollecitazioni che restano nell’ombra di tutti quegli accordi commerciali e militari firmati tra i leader europei ed Erdogan, anche se da alcuni era stato definito come un “dittatore”.

La Turchia ormai non è parte integrante della famiglia europea, ma è la guardia di frontiera del continente europeo con il suo bacino di consumatori. Pertanto è evidente che l’intenzione dell’Europa è “un’Unione senza Turchia” mentre quella di Erdogan, con il passare del tempo, è diventata “una Turchia senza Europa”. Almeno in questo caso gli interessi coincidono!

Il 25 ottobre, il Presidente della Repubblica ha incontrato, in modo imprevisto, il suo alleato, il segretario generale del Partito del Movimento Nazionalista, Devlet Bahçeli e poche ore dopo ha partecipato alla riunione ordinaria del Consiglio dei Ministri. Già un giorno prima, ossia il 24 di ottobre, l’agenzia stampa internazionale Reuters aveva iniziato a parlare di un’eventuale “correzione dei toni” per gestire la crisi diplomatica in atto. Insomma non era troppo tardi per nulla. Infatti, nelle prime ore del pomeriggio del 25, è partita una serie di tweet lanciati dagli account ufficiali dalle ambasciate che hanno firmato quella famosa lettera. Un messaggio breve e non del tutto chiaro,con l’ambasciata statunitense a fare da capofila: “In risposta alle questioni riguardanti la dichiarazione del 18 ottobre, gli Stati Uniti notano il mantenimento della conformità con l’articolo 41 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche”.

Ovviamente non è così difficile immaginare che in Turchia i media della fognatura, compreso il canale televisivo statale, TRT, abbiano interpretato tutto come un “passo indietro”. Infatti nel lungo articolo pubblicato sul sito web del TRT, la redazione ha deciso di usare proprio questo, come titolo. Sono esattamente le stesse parole che nella prima serata del 25 ottobre, il Presidente della Repubblica ha usato mentre parlava in diretta televisiva. Quindi lo spettacolo è stato messo in scena perfettamente e Ankara ha incassato ancora per un’altra volta un ottimo “successo”, a costo zero. La partita vinta è stata presentata anche dai media main stream, a tutto il popolo, anche con queste parole; “Gli ambasciatori hanno specificato che non vogliono intervenire nei nostri affari interni”. Insomma esattamente quello che aveva detto e chiesto Erdogan, e non solo lui: lo aveva chiesto anche il Consiglio Superiore dei Giudici e Procuratori, quel famoso ente ormai totalmente al servizio di Ankara e riempito da militanti di diverse comunità religiose che reclutano elettori e denaro per il partito al governo. Magari i tweet degli ambasciatori, ufficialmente, non chiedevano scusa oppure non dicevano che avrebbero ritirato la loro richiesta ma Ankara ha saputo ben approfittare dell’incidente.

In questi ultimi venti anni possiamo parlare di almeno venti casi analoghi in cui l’amico/nemico Bruxelles o Washington mostra il suo bastone ma comunque nutre il coniglio dandogli anche un po’ di carota. Ogni volta che si alza il bastone, Erdogan riesce ad approfittare dell’ipocrisia dei leader occidentali utilizzando una serie di meccanismi per ricattarli e nella maggior parte dei casi incassando successo. E dopo, “in casa” si fa grande festa con Erdogan che passa alla storia come quel “leader che ha messo in ginocchio gli occidentali, tanto non ci vogliono nell’unione perché siamo musulmani”. Questa retorica (in parte anche vera), molto diffusa anche nel Medio Oriente e nel Nord Africa, è fortemente sostenuta da tutti i membri appartenenti alla sua coalizione ma soprattutto da quell’enorme macchinario mediatico che monopolizza l’informazione e disinforma i cittadini ogni giorno. Il processo di Osman Kavala, quello di Selahattin Demirtas, il caso di Grup Yorum e anche l’esperienza del Parco Gezi sono solo alcuni risultati di questa grande collaborazione; il mondo politico insieme al mondo dell’imprenditoria che abbraccia quello dei media che collabora e manipola il sistema giuridico. Per questo Demirtas e Grup Yorum sono dei “terroristi”, Kavala è un “infiltrato degli stranieri” e i manifestanti di Gezi sono dei “traditori della patria”. Quando non lo dicono soltanto due giornali ma quando la magistratura condanna all’ergastolo le persone con delle prove inesistenti la situazione va fuori controllo. Insomma la divisione dei poteri è un vecchio ricordo in Turchia e ormai sono anni che non è più uno Stato di diritto.

Ma la domanda che sorge, per me, è la seguente: “L’occidente non ha ancora capito come funziona il gioco oppure gli conviene non lasciare il tavolo?”. E’ ormai evidente che la politica estera dell’Unione europea e Washington, verso Ankara, è una politica ipocrita, opportunista e anche incapace. Il Presidente della Repubblica di Turchia lo sa molto bene e ha costruito, in collaborazione con una serie di leader occidentali, il suo percorso di “successo” su questo binario, in questi ultimi venti anni.

Forse i paesi occidentali ormai devono fare una scelta; o togliere il disturbo, perché quasi ogni mossa loro crea dei danni irreperibili e fa incassare successo a Erdogan, oppure devono veramente prendere degli atti decisivi, coraggiosi e coerenti smettendo di esprimersi ipocritamente e soltanto “preoccupati”. Perché la Turchia di oggi; depressa, povera e isolata non ha più bisogno dei voyeur preoccupati ma dei veri amici.

La situazione degli sfollati afghani nei campi profughi interni

Dalla pagina Facebook di Hambastaghi (Partito afghano della solidarietà)

Sono all’incirca due mesi che stanno lì in quelle condizioni, non hanno niente da mangiare, tre bambini sono morti a causa di fame freddo e malattie.
“Il responsabile dei rifugiati ci ha tagliato tutti gli aiuti internazionali promettendo di riportarci nelle nostre province” Ma gli sfollati sono ancora qui da più di un mese e nessuno è venuto in loro aiuto, alcuni per sfamare i propri figli vanno a mendicare.
“Dall’arrivo degli americani, non c’è stato altro risultato che spargimento di sangue, vittime, povertà e miseria, la morte è meglio di questa situazione”