Il ministro degli Esteri della Turchia, Mevlut Cavusoglu, ha ospitato ad Ankara, giovedì 14 ottobre, una delegazione di alto livello dei talebani afghani. Si è trattato dei primi colloqui di questo tipo da quando il gruppo ha preso il potere a Kabul, il 15 agosto.
L’incontro, che ha interessato soprattutto Cavusoglu e Amir Khan Muttaqi, ministro degli Esteri dei talebani, è arrivato dopo che questi ultimi hanno tenuto colloqui, iniziati il 9 ottobre a Doha, in Qatar, con gli Stati Uniti e i rappresentanti dell’UE e di dieci nazioni europee.
Cavusoglu, parlando a margine dell’incontro nella capitale turca, ha dichiarato di aver discusso con la controparte della questione dei voli in partenza dall’aeroporto di Kabul. I talebani avevano chiesto l’aiuto di Ankara nella gestione della struttura.
Le autorità negano agli afghani il diritto di richiedere asilo.
(New York) – Le autorità turche stanno sommariamente respingendo i richiedenti asilo afghani che attraversano il paese dall’Iran all’Iran, in violazione del diritto internazionale, ha affermato oggi Human Rights Watch.
Sei afgani, cinque dei quali sono stati respinti, hanno detto a Human Rights Watch che l’esercito turco ha picchiato loro e i loro compagni di viaggio – alcuni fino al punto di rompersi le ossa – e li ha espulsi collettivamente in gruppi da 50 a 300 persone mentre cercavano di attraversare il confine per cercare sicurezza in Turchia. Alcune famiglie sono state separate nel processo.
“Le autorità turche stanno negando agli afghani che cercano di fuggire in sicurezza il diritto di chiedere asilo”, ha affermato Belkis Wille, ricercatore senior in crisi e conflitti presso Human Rights Watch. “Anche i soldati turchi maltrattano brutalmente gli afghani mentre li respingono illegalmente”.
Il 16 ottobre 2021 la cancelliera Angela Merkel visiterà la Turchia per incontrare il presidente Recep Tayyip Erdoğan. La Merkel dovrebbe spingere il governo turco a porre fine alle sue espulsioni sommarie di afgani; indagare sulle accuse di espulsioni collettive, respingimenti alla frontiera e negazione del diritto di chiedere asilo; e rimediare a tali casi.
Un esercito di invisibili che ora i talebani, coloro che sui proventi del papavero da oppio hanno costruito ingenti fortune, non tollerano più.
Un vero e proprio calvario illustrato in un reportage e che rischia di andare avanti ancora per molto: sono immagini scioccanti e difficili da digerire.
Picchiati, arrestati e rinchiusi per 45 giorni nei centri di disintossicazione del Paese. È il trattamento riservato dai talebani ai tossicodipendenti di Kabul.
La minaccia della fame, la sanità al collasso e l’oppressione dei talebani. «La situazione è disastrosa. Si sta preparando una tempesta perfetta», ha detto Ylva Johansonn, Commissaria europea agli Affari interni
C’è una partita in corso sull’Afghanistan e forse sarebbe il caso di parlarne prima che ci scoppi in faccia un’altra volta e ancora ci fingiamo stupiti come se non ce l’aspettassimo. Dall’inizio della crisi afgana sarebbero 22mila i cittadini evacuati in 24 Paesi Ue ad agosto del 2021 ma rimangono i 3 milioni di sfollati fino all’anno scorso e qualcosa come circa 700mila sfollati interni di cui tener conto.
Mentre il G20 a trazione Mario Draghi cerca nelle Nazioni Unite un anello per tenere aperto il canale con l’Afghanistan talebano, vuol trattare col suo governo senza riconoscerlo, elargendo una mancetta da un miliardo di euro di provenienza Ue, il ministro degli Esteri di Kabul – che coi rappresentanti europei e americani s’è incontrato a Doha – decuplica l’importo. Amir Khan Muttaqi ha riproposto l’azzeramento delle sanzioni che da due mesi bloccano 9.5 miliardi di dollari. Solo liberando quella cifra il Paese, soffocato da mancanza di liquidità, inizierebbe a respirare. Il nodo scorsoio è posto direttamente alla gola dei dipendenti dell’amministrazione statale, rimasti senza stipendio, ma senza denaro liquido nessuno spende e l’intera malandata economia nazionale resta asfittica, in primo luogo nelle città e specie per gli approvvigionamenti di prima necessità, naan compreso. Così più realistica che pietistica appare la dichiarazione del turbante con funzione di rapporti esterni quando afferma che indebolire l’attuale governo afghano non è strategicamente utile a nessuno, soprattutto per far fronte alle due emergenze indissolubilmente legate alla strozzatura economica: sicurezza interna e flussi migratori. La prima rientra nella grande richiesta statunitense ai taliban sin dalla firma dell’accordo qatarino: impedire il radicamento in loco di radicalismi fondamentalisti, oggi targati non più Qaeda bensì Isis. Una presenza che gli studenti coranici si sono serbati in seno e che facendo leva su spaccature e dissidenze è diventata una coriacea concorrenza jihadista in terra afghana. Accanto alla geostrategia militare la questione mette in fibrillazione anche la geostrategia finanziaria, quella cui guardano gli investitori d’ogni risma che sotto i precedenti governi filoccidentali facevano affari, principalmente coi prodotti del sottosuolo. Nel settore i cinesi sono in prima fila, e per questioni diverse ma speculari un territorio tenuto sotto controllo – oggi dai coranici, vista la dissoluzione dell’esercito sostenuto dalla Nato – fa oggettivamente comodo alle potenze globali.
Talebanistan. Il «tradimento» Usa e la brutalità del nuovo regime di Kabul, il coraggio delle donne e la solidarietà. Un articolo di Malalai Joya, simbolo di resistenza e di lotta per i diritti. Con un appello alle forze progressiste del mondo intero per salvare l’Afghanistan
Trascorsi vent’anni dall’inizio dell’invasione e della guerra lanciati dagli Usa, il popolo del mio paese, che soffre da molto tempo, è di nuovo al punto di partenza. Dopo aver speso migliaia di miliardi di dollari e aver provocato centinaia di migliaia di morti e sfollati, la bandiera talebana torna a sventolare sull’Afghanistan.
Come più giovane donna eletta al Parlamento dell’Afghanistan nel 2005, la mia esperienza riflette il fallimento della guerra degli Stati Uniti e della Nato – una politica che ha usato i diritti delle donne come pretesto per l’occupazione, ma è riuscita solo a rafforzare le forze più corrotte della nostra società.
Sono sopravvissuta a diversi attentati perché ho denunciato e condannato la presenza di signori della guerra e di criminali nel governo afghano insediato dall’occupazione statunitense. Poi sono stata estromessa dal Parlamento e costretta a vivere in clandestinità.
L’ascesa, e ora il ritorno, dei taleban e di coloro che condividono l’ideologia di questi estremisti come l’Isis, al-Qaeda e decine di altre organizzazioni terroristiche in Afghanistan, è il risultato di decenni di intervento straniero e di corruzione che ha trasformato la speranza di vita e di un futuro relativamente luminoso in un terribile incubo per gli afghani indifesi. Per vent’anni ho dato voce alla lotta del mio popolo per la libertà, l’indipendenza, la prosperità e la giustizia sociale, e sono sempre stata al fianco della protesta contro i fondamentalisti jihadisti-talebani e dei loro padroni stranieri assetati di sangue. Per più di quattro decenni, questi fondamentalisti sono stati mercenari e creature delle organizzazioni infernali della Cia, Mossad, MI6, Wawak/Savak e Isi, che hanno ucciso il nostro popolo indifeso e innocente e hanno costretto la gente a lasciare le loro case.
Pace in movimento. Il drammatico frangente attuale impone di riportare al vertice dell’agenda politica l’obiettivo di uscita dalla Nato
Le considerazioni di Tommaso di Francesco meritano a mio avviso una riflessione di fondo sulle priorità del pacifismo italiano dopo il disastro della guerra in Afghanistan. Una prima considerazione è che il disastro in Afghanistan non è stato solo degli Stati Uniti, ma della Nato, e noi eravamo lì per conto della Nato, abbiamo ucciso e siamo stati uccisi per conto della Nato. Alleanza che – vale ricordarlo – era durante la Guerra Fredda un’alleanza (con tutte le riserve) difensiva, ma dopo la dissoluzione dell’Urss si è trasformata in alleanza apertamente aggressiva, che proietta interessi «fuori area» di paesi che dominano l’Alleanza (non certo nostri in Afghanistan).
Stati uniti. I colloqui a Doha. Il Dipartimento di Stato: «Non è un riconoscimento del regime»
Il Dipartimento di Stato ha annunciato il primo incontro fra una delegazione Usa ed i talebani, a Doha, in Qatar.
Il portavoce del Dipartimento ha specificato che l’incontro si terrà questo fine settimana e non significa un riconoscimento degli Stati uniti al regime talebano, ma «poiché l’Afghanistan deve affrontare la prospettiva di una grave contrazione economica e di una possibile crisi umanitaria faremo pressione su i talebani per consentire alle agenzie umanitarie di accedere liberamente alle aree di bisogno. Continuiamo a dire chiaramente che tutta la legittimità deve essere guadagnata attraverso le azioni dei talebani; faremo pressione anche affinché rispettino i diritti di tutti gli afgani, comprese donne e ragazze, e formino un governo inclusivo».
La delegazione Usa è composta da uomini dell’intelligence, di Usaid, e del Dipartimento di Stato e chiede garanzie per la liberazione di Mark Frerichs, un cittadino statunitense rapito, e di far proseguire il flusso di stranieri, americani e non, che vogliono lasciare l’Afghanistan.
L’arena del sangue è ancora una volta una moschea Sciita. A Kunduz. I brandelli di ottanta corpi, il manto rosso che tutto avvolge come un’Āshūrā che onora il martirio di al-Husain, non stanno mimando una commemorazione. E’ tutto tragicamente vero. Per l’ennesima volta, sotto la regìa dell’Isis Khorasan che solo una settimana fa aveva colpito nella capitale un’altra moschea (Eid Gah). Carneficine che si susseguono, come nel 2018 quando sul sangue degli afghani jihadisti dell’Isil e taliban si disputavano l’egemonia del territorio.
Ora che da due mesi i turbanti di Akhundzada, Baradar, Yaqoob, Haqqani hanno formato il governo provvisorio del secondo Emirato, i fanatici del Califfato continuano a martellare con kamikaze e autobombe la quotidianità afghana, per ammonire tutti che non saranno i nuovi padroni a garantire ordine ed esistenza sicure. Per nessuno. Chi è giunto dopo la terrificante esplosione nel luogo di culto ha avuto lo sguardo scioccato dal carnaio. Giovani e vecchi allungati in un lago di sangue, corpi frantumati che urlavano dal dolore domandando aiuto. E cadaveri sfranti, più o meno riconoscibili.
Kabul, 19 agosto 2021 – la bandiera afghana è un segno di protesta contro i Talebani al potere
Dopo un anno e mezzo di trattative con i Talebani, l’esercito degli Stati Uniti e le truppe alleate lasciano l’Afghanistan. L’ultimo volo degli americani è salutato in Occidente da commenti ironici sull’avventura di 20 anni di guerra finita in una fuga precipitosa e in un indecoroso fallimento. I più importanti Paesi musulmani tacciono. Imran Kan, primo ministro del Paese che più ha sostenuto la guerra delle bande islamiste, afferma che «gli insorti hanno spezzato le catene della schiavitù». Ha ragione? L’indipendenza nazionale, quella che i Talebani hanno sempre affermato di perseguire e che ora hanno effettivamente conseguito, non è la stessa cosa della liberazione dalla schiavitù, ma è esattamente ciò contro cui USA e alleati hanno combattuto per due decenni. Della schiavitù imposta ad una intera popolazione è importato e importa poco, anche se la campagna mediatica delle “democrazie” nel mondo si è affannata a testimoniare compassionevole solidarietà alle donne afghane colpite dalla più brutale oppressione “di genere”.
Quello che importa è che un Paese ricco di risorse naturali e punto di intersezione di vie di transito delle merci e degli affari sia “stabilizzato”, cioè che vi sia qualcuno che comanda con il quale trattare l’apertura alla competizione tra multinazionali. L’uscita di scena (almeno apparente) degli Stati Uniti contribuisce a sconvolgere la rete di alleanze che hanno tenuto in equilibrio i rapporti tra le grandi potenze e lascia spazio al conflitto tra Paesi musulmani che rischia di coinvolgere l’Occidente.