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Autore: Anna Santarello

Contro l’occupazione Usa e contro i talebani: la resistenza delle donne afgane

MicroMega – Sonali Kolhatkar – 27 Agosto 2021

rawaSecondo l’associazione di donne afghane Rawa, l’occupazione statunitense ha reso l’Afghanistan un Paese più corrotto, più insicuro e più pericoloso. E il ritorno dei talebani era assolutamente prevedibile. Loro però non si arrendono e continuano la loro lotta per la libertà e i diritti delle donne.

La Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), è una delle più antiche associazioni di femministe afgane, che dal 1977 lotta per i diritti delle donne e la democrazia in Afghanistan. Sonali Kolhatkar dell’associazione statunitense Afghan Women’s Mission è riuscita a contattarle e a porre loro alcune domande dopo la presa del potere dei talebani. L’intervista è stata pubblicata sul sito di Rawa il 20 agosto scorso, per cui è precedente agli attentati del 26 agosto a Kabul.

Sonali Kolhatkar: Per anni Rawa ha preso posizione contro l’occupazione americana e ora che gli americani si stanno ritirando, i talebani sono tornati. Il presidente Biden avrebbe potuto realizzare il ritiro in modo tale da lasciare l’Afghanistan in una situazione più sicura di quella in cui invece si trova adesso? Avrebbe potuto fare di più per evitare che i talebani fossero in grado di prendere il sopravvento così rapidamente?

Rawa: Negli ultimi 20 anni una delle nostre richieste è sempre stata la fine dell’occupazione Usa/Nato, meglio se contestualmente portando via i loro fondamentalisti islamici e tecnocrati e lasciando che il nostro popolo potesse decidere del proprio destino. Questa occupazione ha portato solo spargimento di sangue, distruzione e caos. Hanno trasformato il nostro Paese in un luogo più corrotto, più insicuro, dominato dalla mafia della droga e pericoloso soprattutto per le donne. Un risultato prevedibile fin dall’inizio. L’11 ottobre 2001, quindi nei primi giorni dell’occupazione, avevamo dichiarato: “La continuazione degli attacchi statunitensi e l’aumento del numero di vittime civili innocenti non solo fornisce una scusa ai talebani, ma provocherà anche il rafforzamento delle forze fondamentaliste nella regione e nel resto del mondo”.

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Il disastro afghano degli Usa è peggio del Vietnam

Daniel Bessner, Derek Davison – Jacobin Italia – 24 agosto 2021

Ad aver guadagnato da vent’anni di guerra e spargimento di sangue in Afghanistan sono state le imprese private di contractor militari e i trafficanti di eroina. Le stesse analogie con la «caduta di Saigon» non rendono l’idea del collasso statunitense

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Che cosa sta accadendo in Afghanistan? Poche settimane dopo che gli Stati uniti hanno cominciato a ritirare le truppe, i talebani hanno preso la capitale Kabul proclamando il loro nuovo governo. Il presidente sostenuto dagli Stati uniti ha abbandonato il paese. Nei circoli elitari hanno cominciato immediatamente a circolare preoccupanti analogie con la «caduta di Saigon» del 1975. Per cercare di ricostruire il senso di questi avvenimenti Daniel Bessner e Derek Davison — conduttori di American Prestige, un nuovo podcast di sinistra sulla politica estera statunitense — hanno dedicato all’Afghanistan una puntata del loro programma. Quella che segue è una versione rivista e condensata del loro dialogo. 

DB: Perché l’Afghanistan è caduto?

DD: La risposta più breve è che l’esercito e il governo afghani erano un castello di carta. Lo sapevamo. Il funzionario addetto a supervisionare il processo di ricostruzione in Afghanistan lo diceva da anni. Due anni fa il Washington Post pubblicò gli «Afghanistan papers», una scandalosa tranche di documenti che sostanzialmente dicono che tutto quello che gli Stati uniti avevano affermato sulla competenza dell’esercito afgano e sull’andamento della guerra era falso. Il risultato è che i talebani, in un paio di settimane, si sono presi l’intero paese. Il presidente dell’Afghanistan ha abbandonato il paese, a quanto pare per evitare altri spargimenti di sangue (o almeno per evitare che fosse sparso il suo sangue). Adesso la situazione è quella di una sorta di limbo, perché non si è ancora insediato il nuovo governo, ma probabilmente sarà molto simile all’ultimo governo talebano. Secondo alcune indiscrezioni Maulavi Abdul Hakim, capo-negoziatore dei talebani, sarà nominato presidente del nuovo governo talebano. 

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Centinaia le famiglie italiane pronte ad accogliere i profughi afghani

«Siamo stati inondati di richieste da parte delle famiglie italiane che si sono dette disponibili ad ospitare in casa i profughi afghani, in pochi giorni ne abbiamo ricevute più di trecento»

Anna Spena – Vita – 26 agosto 2021

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«Siamo stati inondati di richieste da parte delle famiglie italiane che si sono dette disponibili ad ospitare in casa i profughi afghani, in pochi giorni ne abbiamo ricevute più di trecento», racconta Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome Italia, organizzazione indipendente che promuove la mobilitazione dei cittadini per favorire l’inclusione sociale dei migranti arrivati in Italia. «L’accoglienza diffusa è un modello che funziona, è praticabile e può crescere velocemente»

Stando ai dati riportati sul sito del Ministero della difesa, aggiornati al 25 agosto, sono 4400 i cittadini afghani evacuati dal Paese con l’operazione Aquila Omnia iniziata lo scorso giugno, i ponti aerei si sono intensificati negli ultimi dieci giorni dopo la presa di Kabul da parte dei talebani. Cosa succede una volta arrivati in Italia? «Il sistema di accoglienza tradizionale non è ancora organizzato con procedure precise», spiega Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome Italia, organizzazione indipendente che promuove la mobilitazione dei cittadini per favorire l’inclusione sociale di rifugiati, rifugiate e di giovani migranti arrivati in Italia come minori soli non accompagnati.

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Disfatte e bugie dell’amico americano

La fine tragica della “bolla” afghana. Bilancio umano e morale: per il New York Times gli afghani in pericolo sarebbero 300 mila, evacuati circa 70mila. Gli americani circa 10mila, 4mila già usciti dal Paese

Alberto Negri – il Manifesto – 26 agosto 2021

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Come ha dimostrato l’inutile G-7 di martedì 24 agosto, agli Usa degli alleati importa poco e niente, e ancora meno degli afghani, altrimenti avrebbero pensato prima a evacuarli e a tenere in piedi le loro forze armate. Si era capito il 2 luglio scorso, quando abbandonarono di notte la grande base di Bagram staccando luce e acqua senza avvertire l’esercito afghano. Un messaggio chiaro: avevano deciso di lasciare l’Afghanistan al buio e all’oscurantismo dei talebani.

Questi erano nella sostanza gli accordi di Doha voluti da Trump: un exit deal senza condizioni e senza strategia.

La vicenda afghana è una storia di disfatte e di bugie, molte avallate dai politici e dai media occidentali. La scadenza del 31 agosto non l’hanno decisa i talebani: in un primo momento Biden aveva indicato quella dell’11 settembre, ventennale degli attacchi del 2001, per dare un significato simbolico al ritiro, poi, sentendosi sicuro di sé, ha anticipato al 31 agosto. La Casa Bianca ha agito in maniera pessima di fronte al crollo delle forze locali, iniziato da almeno un paio di mesi. Il capo della Cia e quello dello Stato Maggiore avevano già avvertito che il governo Ghani stava disgregandosi.

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Si offre un dialogo che ha il sapore amaro della resa

Non si può dimenticare che i taleban (versione originale) erano stati formati, finanziati e portati al potere da Stati uniti, Pakistan e Arabia saudita. Sembra quasi che alla base del dialogo ci sia la concezione che, in fondo, i taleban e il terrorismo islamico, sono solo una reazione all’occupazione e alle guerre occidentali.

Giuliana Sgrena – il Manifesto – 24 agosto 2021

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La parola magica è dialogo. Per salvare gli afghani o per lavare la coscienza di chi ha occupato per vent’anni il paese e ora fugge lasciando la situazione che aveva trovato al suo arrivo: l’emirato dei taleban. C’è chi sostiene che bisogna trattare con il nemico, quindi i taleban. In questo caso gli Usa sono in pole position per aver negoziato (che cosa non è del tutto chiaro, c’erano e ci sono clausole rimaste segrete) con il nuovo capo di Kabul, il mullah Abdul Ghani Baradar a Doha.

Tuttavia i sostenitori del dialogo dicono con chi (taleban) ma non su che cosa trattare: per il rispetto dei diritti umani, per i diritti delle donne, per lasciare le frontiere aperte a chi vuole fuggire, per formare un governo «inclusivo» (ma per quello stanno già trattando l’ex-presidente Hamid Karzai e il vicepresidente tagiko Abdullah Abdullah), per accaparrarsi delle risorse minerarie? E chi dovrebbe trattare con i taleban?La comunità internazionale (ammesso che qualcuno possa trattare per tutti), l’Onu, l’Unione europea, gli ex-occupanti, i paesi vicini?

Non si può dimenticare che i taleban (versione originale) erano stati formati, finanziati e portati al potere da Stati uniti, Pakistan e Arabia saudita. Il Pakistan sembra il principale artefice della nuova vittoria lampo, gli interessi in ballo sono evidenti. Senza dimenticare che Russia e Cina stanno già trattando e da una posizione di forza perché non hanno evacuato le proprie ambasciate, e che comunque la trattativa presuppone in qualche modo il riconoscimento dell’emirato.

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L’illusione tutta occidentale che le donne afghane finora stessero bene

Anche nel ventennio statunitense, la legge per l’eliminazione della violenza sulle donne «non veniva applicata, se non nel 5% dei casi, e il rischio di rappresaglia era altissimo» – La giornalista Cristiana Cella: «I talebani sono pronti a tutto pur di ottenere il riconoscimento internazionale, diranno qualsiasi cosa, ma non bisogna creder loro, non sono cambiati»

Giacomo Butti – Corriere del Ticino – 25 agosto 2021

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«Non ci saranno discriminazioni: proteggeremo i diritti delle donne. Garantiremo la sicurezza dei cittadini. Lasceremo lavorare i giornalisti. Non attenteremo alla vita di chi ha collaborato con il Governo precedente». Sono solo alcune delle promesse fatte dai talebani nei giorni seguenti la conquista di Kabul. Parole dolci, concilianti, che sembrano aver fatto presa sui Paesi occidentali. Forse ancora frastornati dalla rapidità con la quale lo stendardo bianco è tornato a sventolare nel Paese, sono in molti a non escludere a priori un dialogo con gli «studenti coranici».

Ma tra le belle dichiarazioni e la realtà dei fatti, v’è un mare di violenza: lo testimoniano i racconti che filtrano da una nazione, l’Afghanistan, resa folle dalla paura instillata dai talebani. Un terrore che spinge a sfidare ogni logica pur di mettere più chilometri possibili tra sé e i fondamentalisti, anche assaltando aerei in partenza.

Percorrendo la storia recente dell’Afghanistan con Cristiana Cella, giornalista italiana attiva nell’onlus CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), abbiamo cercato di districare la matassa di buoni propositi e cruda realtà.

Un po’ di storia: tra URSS, USA e fondamentalismo islamico

Cristiana Cella l’Afghanistan lo «respira» da più di 40 anni: nel 1980, infatti, la giornalista mise piede per la prima volta nel Paese asiatico (allora sotto l’occupazione sovietica) e da quel momento non ha più smesso di seguire da vicino le sorti dei suoi cittadini. È in quell’anno che Cristiana, originaria di Milano, entrò in contatto con la resistenza rappresentata dai mujaheddin laici, che combattevano contemporaneamente l’influenza dell’URSS e dei fondamentalisti. Con loro visse in prima persona, sulle montagne afghane, la storia di un popolo martoriato da decenni di conflitti interni ed esterni. «La vita non è mai stata facile per le donne afghane», ci racconta Cella. «Ma a quei tempi potevano ancora studiare e lavorare, non erano costrette a portare il velo. Era un mondo diverso».

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Appello urgente per Shengal

Appello urgente al Presidente del Consiglio, on. Mario Draghi, al Ministro degli Esteri, on. Luigi Di Maio, alla Commissione esteri di Camera e Senato

Associazione Verso il Kurdistan – ReteKurdistan Italia – 26 agosto 2021

Shengal

L’attacco aereo turco avvenuto il 17 agosto contro un ospedale a Shengal (Iraq nord occidentale, governatorato di Ninawa) ha provocato la morte di otto persone e ne ha ferite altre quattro. L’ospedale serviva contemporaneamente popolazioni di diverse etnie e fedi religiose, yazide, arabe, cristiane. In questo ospedale, venivano curate madri, bambini, uomini e donne di Shengal. È stato bombardato non una, ma quattro volte. Le persone della zona circostante hanno rischiato la vita per recuperare i feriti e i caduti sotto le macerie. L’obiettivo dell’attacco erano i malati, i medici, il personale infermieristico, i combattenti delle YBS (unità di protezione del popolo) responsabili della sicurezza dell’ospedale, non ultimo le stesse strutture sanitarie ed ospedaliere rimaste miracolosamente in piedi dopo gli attacchi dell’Isis del 2014. Si è trattato di un vero e proprio crimine contro l’umanità passato sotto un incredibile e assordante silenzio.

Il giorno prima, la Turchia aveva bombardato il centro di Shengal poco prima della visita del primo ministro iracheno, Mustafa al Kadhimi, che avrebbe incontrato rappresentanti dell’amministrazione autonoma yazida. Nell’attacco, sono stati uccisi il comandante delle YBS, Said Hesen, suo fratello e un altro combattente YBS, mentre tre civili sono rimasti feriti. Si è trattato di un chiaro avvertimento all’Iraq, da parte di Erdogan, affinchè venga lasciata mano libera su questa regione strategica.

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WikiLeaks e i segreti della guerra in Afghanistan

È sempre necessario ricordare!

Stefania Maurizi – Micromega, 26 agosto 2021

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Negli “Afghan War Logs” rivelati dall’organizzazione di Julian Assange uno squarcio di verità senza precedenti sul conflitto afgano. Un estratto dal libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” di Stefania Maurizi, da oggi in libreria per Chiarelettere.

[…] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […]
Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. «Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan» scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks «ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf.»

Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. Gli argomenti propagandistici da usare con i cittadini francesi erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese».

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Aeroporto Karzai, l’attentato arriva

Questa è l’odierna Kabul: il teatro d’un dramma sedimentato in decenni, con le incognite viste nell’ultimo biennio, fra chi ancora nel sangue si lava le mani volendo dimenticare il passato e le responsabilità, chi cerca un potere che resta instabile e gli irriducibili del jihad tutt’altro che sconfitto.

Enrico Campofreda, dal suo blog, 26 agosto 2021

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Che quella folla ammassata, esausta, picchiata dai taliban, selezionata dai militari statunitensi, aiutata secondo l’appartenenza, illusa da chi non può condurla altrove potesse diventare carne da macello lo si diceva da giorni. Le Intelligence, quella americana su tutte, lo ripetevano. E si tirava in ballo anche chi potesse essere l’esecutore dell’attacco, l’Isil del Khorasan, che per due anni aveva guerreggiato indirettamente coi talebani ortodossi, vogliosi di accordi e di potere. Guerreggiato per il controllo dei luoghi, col desiderio di mostrare la propria capacità armata, seminando morte fra la gente.

Studentesse, neonati, donne, etnìa hazara coloro che più d’altri sono stati colpiti per impaurire, mostrare come la terra afghana e la sua gente dovessero continuare a soffrire senza vedere pacificazione alcuna. Neppure quella affannosa sotto l’occhio degli studenti coranici, negli ultimi tempi diventati diplomatici. Nell’odierno pomeriggio l’Abbey Gate e il circondario presso il Baron Hotel sono stati teatro di due esplosioni mortali: tredici i morti, oltre sessanta i feriti.

Per ora. Perché tragicamente, come in altre occasioni, le vittime possono aumentare. E diventano dopo due ore oltre sessanta con duecento feriti. I medici dell’ospedale di Emergency della capitale, lavorano per salvare vite.

Carneficina compiuta tramite due kamikaze che nella calca presente da giorni per la fuga diffusa, sperata, irrealizzabile si sono potuti inserire e “immolare” portandosi dietro l’anima  anche di bambini – non è la prima volta – e diffondere un’angoscia ancor più profonda.

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