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Autore: CisdaETS

L’Afghanistan fuori dal mondo

Enrico Campofreda dal suo Blog 3 agosto 2025

Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid. Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama – istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 – forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti.

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army – come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times – da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini. Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani.

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo.Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.

 

 

I talebani avvertono i negozianti di Kandahar di non vendere alle donne senza velo.

amu.tv Ahmad Azizi 5 agosto 2025

Le autorità talebane di Kandahar hanno avvertito i commercianti che potrebbero essere incarcerati se vendessero prodotti a donne che non indossano l’hijab approvato dai talebani, secondo quanto riferito ad Amu da fonti locali.

L’ordine, pronunciato verbalmente la scorsa settimana da funzionari del Ministero talebano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, si applica in particolare ai commercianti dei mercati moderni del quartiere di Aino Mina. Ai commercianti è stato ordinato di rifiutare completamente il servizio alle donne o di vendere solo a coloro che indossano ciò che i talebani ritengono un abbigliamento appropriato.

Diversi commercianti hanno affermato che la restrizione ha danneggiato le loro attività, poiché molte clienti ora evitano i mercati per paura di molestie o punizioni. “Le donne non osano più venire a fare shopping”, ha detto un negoziante. “Il mercato ha perso la sua vivacità”.

La direttiva fa parte di una più ampia serie di restrizioni imposte dal Ministero a Kandahar, che includono il divieto di accesso delle donne a ristoranti e luoghi di svago, l’obbligo di un tutore maschile nei luoghi di lavoro, il divieto di lavare i panni nei canali cittadini, l’obbligo di indossare l’hijab in tutti gli ambienti di lavoro, la chiusura di mercati e fabbriche riservati alle donne, il divieto di attivismo civile da parte delle donne e restrizioni per le donne che lavorano nei media locali. L’istruzione femminile rimane sospesa in tutto il Paese.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente condannato le crescenti limitazioni imposte dai Talebani ai diritti delle donne, definendole sistematiche e abusive. I Talebani non hanno risposto alle richieste di commento sulle ultime restrizioni.

Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal»

dinamopress.it Carla Gagliardini 1 agosto 2025

Il 3 agosto, nell’anniversario del genocidio, le donne ezide, che nel frattempo si sono organizzate politicamente e militarmente contro ulteriori aggressioni e per contrastare il patriarcato, inviano un appello al mondo per il riconoscimento del genocidio

Il 3 agosto prossimo la comunità ezida ricorderà il genocidio del 2014, quando nel distretto di Shengal (Iraq), proprio in quella data, i miliziani dello Stato Islamico (Deash) fecero irruzione nelle abitazioni e nelle vite delle e degli ezidi seminando violenza e terrore. Le avvisaglie di quanto stava per accadere c’erano e il genocidio si sarebbe potuto impedire, ma qualcosa si mosse alle spalle di questo popolo, condannandolo a un massacro. Uomini, ragazzi e donne anziane furono uccisi dai jihadisti dello Stato Islamico mentre le donne più giovani insieme ai bambini e alle bambine furono rapite.

Ancora oggi, le fosse comuni continuano a restituire i resti delle uccisioni di massa. Le donne e i bambini scappati dalla prigionia invece hanno raccontato storie raccapriccianti: donne, ragazze e bambine violentate in continuazione e vendute come schiave; bambini obbligati a convertirsi all’islam e a imbracciare le armi per uccidere tutti gli infedeli, a cominciare delle e dagli ezidi, ossia dai membri della loro stessa comunità. Un genocidio in piena regola che le e gli ezidi definiscono anche come “genocidio culturale”. Lo Stato Islamico, infatti, con la sua brutalità ha mirato a cancellare il culto ezida, che venera Melek Ta’us, ossia l’Angelo Pavone, che nell’islam rappresenta Iblis, cioé il Diavolo. Ma questo popolo è tutt’altro che adoratore del Diavolo, al punto da non riconoscere l’esistenza di Satana, nella convinzione che la fonte del male si trovi solo nei cuori umani.

Lo Stato Islamico però non si è diretto verso questo popolo con l’intento di sterminarlo per ragioni esclusivamente religiose, poiché l’attacco che ha sferrato era dettato anche da necessità più strategiche.

Nel 2014 aveva già occupato parti della Siria e dell’Iraq e il distretto di Shengal, all’epoca sotto il controllo militare dei peshmerga del KDP (Partito Democratico del Kurdistan), partito alla guida del governo del Kurdistan iracheno, era il tassello mancante per comporre il puzzle della costruzione del Califfato. L’integrazione del distretto ai territori già conquistati significava creare una continuità territoriale che permetteva di raggiungere in tempi brevi le due più grandi città del Califfato, la capitale Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq, cancellando in questo modo anche i confini disegnati dalle potenze coloniali.

Tra Daesh e il KDP era stato raggiunto un accordo con il quale il primo aveva garantito di non ostacolare l’avanzata del secondo nella ricca regione petrolifera di Kirkuk, in quel momento nelle mani del governo centrale di Baghdad, in cambio del lasciapassare su Shengal. Come la storia ci racconta, l’accordo siglato è stato rispettato da entrambe le parti e la forza devastatrice dello Stato Islamico ha travolto la comunità ezida.

La paura però che la storia non venga trascritta fedelmente e che la memoria possa perdersi con il trascorrere del tempo ha spinto le sopravvissute e i sopravvissuti ezidi a impegnarsi perché questo non avvenga. Ma sono soprattutto le sopravvissute a essersi caricate sulle spalle questo lavoro e lo fanno anche attraverso le proprie organizzazioni delle donne.

Le donne della comunità ezida che si riconoscono nell’Amministrazione Autonoma di Shengal, forma di autogoverno basata sui principi del confederalismo democratico espressi dal leader curdo del PKK, Abdhulla Öcalan, hanno costituito due organizzazioni femminili, il TAJE nel 2016 e l’Êzîdî Woman Support League nel 2019 (tre delle sette fondatrici di quest’ultima erano state rapite da Daesh), che operano nella società civile per supportare le ezide liberate dalla schiavitù imposta dallo Stato Islamico e per rintracciare quelle ancora nelle sue mani e liberarle, per tramandare le tradizioni ezide alle nuove generazioni e garantire loro un’istruzione adeguata ma anche per parlare del genocidio e comprenderne le cause e i suoi effetti. Le donne sono certe che la loro comunità dovrà affrontare nuove sfide insidiose e vogliono farla trovare preparata affinché sia scongiurata la sua estinzione.

Il lavoro sociale e politico che portano avanti disegna il nuovo ruolo che hanno nella contemporanea società ezida, che continua a fare i conti con il lascito del genocidio.

In questa società la donna ezida è una figura indispensabile e copre tutti gli spazi politici rivestiti anche dagli uomini, con la messa in pratica della doppia carica (co-presidente, co-sindaco/a, ecc.) all’interno delle amministrazioni e delle organizzazioni della società civile. L’istruzione delle bambine e delle ragazze, sacrificata per molto tempo, oggi è al centro dello sforzo collettivo della comunità che guarda a loro con occhi diversi, investendo sulla loro formazione perché possano partecipare con gli strumenti della cultura alla elaborazione e realizzazione del confederalismo democratico. Sulla scia di questo paradigma politico, le donne ezide dovranno lottare duramente contro ogni forma di patriarcato per costruire una società democratica, libera e in armonia con l’ambiente.

Ma non solo. Le donne ezide non si devono limitare alla partecipazione politica e sociale ma sono chiamate a difendere la propria comunità, la propria terra e la propria cultura attraverso la resistenza armata. Infatti, mentre lo Stato Islamico faceva razzia nei villaggi e nelle città ezide conquistate, circa 350mila ezidi cercavano di mettersi in salvo scappando sulla Montagna di Shengal per evitare la condanna jihadista. Questo lungo fiume di persone affaticate e disperate era stato protetto dal HPG, l’ala armata del PKK, che era prontamente intervenuto in soccorso, nell’attesa che le cancellerie del mondo decidessero se e come aiutare quella popolazione in pericolo.

Al HPG ben presto si erano aggiunte le YPG, le unità di resistenza curde del Rojava, ma la stessa comunità ezida non era restata inerte. Tra coloro che si erano uniti alla battaglia per riconquistare la propria terra c’erano anche le donne, le quali nella primavera del 2015 avevano dato vita alle YJŞ, ossia le unità di resistenza delle donne ezide.

Le YJŞ insieme alle YBŞ, le unità di resistenza degli uomini ezidi, hanno il compito di difendere il territorio di Shengal e l’Amministrazione Autonoma.

Daesh non poteva immaginare che con il suo progetto genocida avrebbe contribuito a liberare intelligenze, energie e forze che appartengono alle donne ezide. Proprio loro che, nel disegno che aveva in mente lo Stato Islamico, avrebbero dovuto rappresentare il simbolo, insieme ai bambini ezidi trasformati in soldati, del disfacimento della cultura e della società ezida attraverso l’umiliazione della conversione forzata all’islam e degli stupri, hanno saputo interrogarsi davanti alla tragedia e a dare risposte concrete. No, Daesh non poteva immaginare che la risposta al suo progetto genocida sarebbe stato l’inizio di un cammino che porta alla liberazione della donna dalle grinfie del patriarcato.

Nonostante ci sia una legge irachena, la Yazidi (Female) Survivors’ Law entrata in vigore nel 2021, che riconosce il genocidio degli ezidi e di altre minoranze da parte di Daesh e il 3 agosto venga indicata come data di commemorazione nazionale, a 11 anni dal genocidio la comunità ezida non si sente ancora fuori pericolo perché vive sotto la pressione degli interessi che il governo centrale di Baghdad e il KDP hanno sull’area, ma è soprattutto la Turchia che la preoccupa, con i ripetuti attacchi effettuati con i droni che prendono di mira i membri dell’Amministrazione Autonoma uccidendoli in quanto reputati affiliati del PKK.

Questa situazione pericolosa genera instabilità, aggravata anche dalla carenza di molti servizi e infrastrutture, diretta conseguenza della distruzione provocata da Daesh, e scoraggia il rientro delle tante famiglie ezide che ancora vivono nei campi profughi del Kurdistan iracheno.

Con l’avvicinarsi del 3 agosto, il TAJE ha scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e a 14 Paesi, tra cui l’Italia, per chiedere che il genocidio venga riconosciuto. In Italia la richiesta per il riconoscimento pende davanti al Governo già da cinque mesi, ossia da quando la deputata Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo, su domanda dell’Associazione Verso il Kurdistan odv, l’ha formalizzata nella seduta parlamentare del 21 febbraio.

Il Governo italiano non si è ancora espresso è il TAJE lo esorta a farlo. Il testo che segue è la lettera inviata dal TAJE:

«Sono trascorsi undici anni dal 74° genocidio, ma le ferite non sono ancora guarite e la tragedia non è ancora stata superata. Circa 2.900 ezidi, per lo più donne e bambini, sono ancora tenuti prigionieri dai mercenari dell’IS. Il destino di centinaia di loro rimane sconosciuto. Decine di fosse comuni sono ancora in attesa di riesumazione e continuano a essere scoperte nuove fosse comuni.

In 11 anni, 14 paesi hanno riconosciuto l’attentato del 3 agosto come genocidio. Come Movimento per la Libertà delle Donne Ezide, abbiamo preparato un dossier completo sul genocidio del 3 agosto 2014. Vi presentiamo un dossier contenente documenti e informazioni che dimostrano che ciò che il popolo ezida di Shengal ha subito è stato un genocidio. Vi esortiamo ad adempiere al vostro dovere e alla vostra responsabilità umanitaria e a riconoscere ufficialmente il massacro come genocidio.

Come donne ezide, ci siamo organizzate nel 2015 con il nome di Consiglio delle Donne Ezide per impedire il massacro delle donne e della nostra comunità in seguito al genocidio del 2014. Abbiamo fondato la nostra organizzazione in risposta al genocidio che ha colpito le donne ezide e la comunità ezida. Abbiamo ampliato i nostri sforzi per dare potere alle donne e consentire loro di proteggersi da attacchi e genocidi. Nel 2016, abbiamo fondato il Movimento per la Libertà delle Donne Ezide” (TAJÊ) attraverso un congresso da noi organizzato. Come donne ezide di Shengal, continuiamo il nostro lavoro».

L’immagine di copertina è di Carla Gagliardini

 

 

Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan

pressenza.com Redazione Italia 30 luglio 2025

Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese.

Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte.

I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi.

Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme.

Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“.

Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada.

Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran.

Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“.

L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021.

Fonte CS di

Fondazione Porte Aperte ETS

 

Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza

Controinformazione CISDA, 30 LUGLIO 2025

Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei talebani ha comportato.

In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poichè a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. 

In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate prevalentemente da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it.

Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”?

In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti.

Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne.

Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà.

Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.

Le interferenze talebane nella distribuzione degli aiuti umanitari

Siyar Sirat, Amu TV, 26 luglio 2025

Mentre l”agenzia delle Nazioni Unite afferma in un nuovo rapporto che l’interferenza dei talebani sta gravemente minando le operazioni umanitarie in Afghanistan, il rappresentante diplomatico dei Talebani chiede al direttore del WFP (Programma alimentare mondiale) di passare dagli aiuti di emergenza ai progetti di sviluppo a lungo termine. Evidentemente per poterli gestire direttamente come governo estromettendo finalmente le ONG…

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) in un nuovo rapporto ha dichiarato che l’ambiente operativo per le agenzie umanitarie è diventato “gravemente limitato” in Afghanistan a causa delle crescenti interferenze e violenze da parte dei talebani.

Secondo l’OCHA, a giugno gli episodi di violenza e di interferenza che hanno colpito il lavoro umanitario sono aumentati del 13% rispetto a maggio e del 35% rispetto allo stesso periodo del 2023. Questi dati evidenziano il deterioramento del clima per le operazioni di aiuto nel Paese, come descritto dall’agenzia.

Il rapporto documenta tre casi di violenza contro il personale, i beni e le strutture umanitarie nel solo mese di giugno. Tra questi, due operatori umanitari sono stati arrestati dalle forze talebane mentre facilitavano una riunione per le operatrici umanitarie.

Nel periodo gennaio-giugno 2025, un totale di 100 operatori umanitari, di cui 31 donne, sono stati arrestati dalle autorità talebane, come riportato nel rapporto. Molti di questi incidenti erano legati alle attività del Ministero talebano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

“Questi arresti e queste minacce continuano a rappresentare un serio rischio per l’incolumità, la sicurezza e il benessere psicologico del personale umanitario”, si legge nel rapporto, che ha anche rilevato 13 incidenti esplicitamente legati al genere che hanno colpito in modo sproporzionato le donne che lavorano nelle operazioni umanitarie.

L’OCHA ha inoltre riferito di sette incidenti che hanno comportato restrizioni alla libertà di movimento, la maggior parte dei quali si è verificata ai posti di blocco talebani, e che hanno portato alla cancellazione o al ritardo delle missioni programmate.

Oltre all’interferenza umana, l’OCHA ha citato le condizioni ambientali, come le forti piogge, che hanno contribuito a ridurre l’accesso e causare ritardi operativi nelle regioni colpite.

L’agenzia ha dichiarato che le interferenze talebane hanno rappresentato un ostacolo significativo alla fornitura di aiuti umanitari per tutto il mese scorso. Tra le sfide segnalate, ci sono i ritardi o le complicazioni nella firma dei memorandum d’intesa, le interferenze nella selezione dei beneficiari e nel reclutamento del personale, le richieste di elenchi del personale e di dati sensibili, la tassazione dell’assistenza in denaro, l’applicazione di codici di abbigliamento e le restrizioni alla partecipazione delle donne al lavoro umanitario e all’accesso delle beneficiarie agli aiuti.

Secondo il rapporto, l’87% di tutti gli incidenti legati all’accesso registrati a giugno è stato causato dai talebani.

L’OCHA ha avvertito che queste interferenze stanno compromettendo gravemente la capacità delle organizzazioni umanitarie di raggiungere le persone bisognose, in particolare le donne e le popolazioni vulnerabili.

Una schiava vestita da moglie

Avizha Khorshid, 8AM Media, 23 luglio 2025

L’amaro racconto di Mina sul matrimonio forzato e gli abusi dei talebani

Diverse donne e ragazze denunciano che, con le restrizioni imposte dai talebani e l’eliminazione dalla struttura governativa delle istituzioni di supporto alle donne, la violenza domestica contro di loro ha raggiunto livelli senza precedenti. Anche la violenza contro le donne all’interno delle famiglie dei combattenti talebani è stata ripetutamente documentata. Questo rapporto si concentra sulle condizioni di vita di una donna, sposata con la costrizione a un talebano per 400.000 afghani e successivamente sottoposta a gravi abusi fisici, fino alla perdita di conoscenza, che racconta una storia amara e dolorosa, affermando di essere trattata come una schiava sessuale.

Mina in passato era un’insegnante. Racconta che adesso i suoi sogni e la sua passione per l’insegnamento si sono spenti, e passa ore a fissare il muro, incapace di ricordare l’ultima volta che si è alzata in piedi. A volte si perde così tanto nei suoi pensieri da non sentire il pianto del suo bambino e la sua mente è sottoposta a una pressione così intensa che il suo cervello fatica a elaborarla.

Un tempo una donna sana, istruita e piena di speranza, ora è sull’orlo del collasso psicologico. I suoi occhi versano lacrime involontarie e la sua mente è sopraffatta dalla paura, dalla rabbia e da un pesante silenzio.

Il prezzo della sposa

Mina è nata in un piccolo villaggio nella provincia di Maidan Wardak, dove ha assaporato l’amarezza della solitudine fin dai suoi primi istanti di vita. Donna alta, con i capelli neri, la pelle color grano e gli occhi grandi, il suo aspetto emana una bellezza silenziosa. Il suo nome è legato all’affetto, eppure il suo destino è costellato di sofferenza e vulnerabilità.

Perse il padre prima di nascere, vittima di conflitti etnici. Sua madre, suo unico rifugio e speranza, morì poco dopo la sua nascita. Il destino affidò Mina allo zio e a sua moglie, che la consideravano non un essere umano, ma un mezzo per guadagnare denaro. Senza il suo consenso, la diedero in sposa a un membro dei talebani, ricevendo 400.000 afghani come prezzo della sposa.

Mina racconta che da quel giorno la sua vita divenne una schiavitù nella casa del marito, dove non riceveva né amore né rispetto. Sentiva ripetere più volte: “Ti abbiamo comprato per 400.000; non sei costata poco”.

Vivendo sotto il peso degli abusi domestici, Mina racconta che non le era nemmeno permesso mangiare con gli altri, doveva aspettare che tutti fossero sazi, sperando che rimanesse qualcosa per lei e, senza permesso, non poteva mangiare niente. “Anche se c’era molta frutta, dovevo aspettare che fosse infestata da mosche o vermi e che nessun altro la volesse: solo allora era il mio turno”. Quando parlava, veniva messa a tacere con insulti e violenza.

Sono passati tre anni dal matrimonio forzato di Mina. Ora ha un figlio di due anni ed è all’ottavo mese di gravidanza. Qualche giorno fa, quando il suo bambino aveva fame, gli ha dato un pezzetto di pane. Questo semplice gesto ha provocato l’ira della suocera, che ha preteso che il figlio, appena rientrato dal servizio, “insegnasse alla moglie a stare al suo posto” e le facesse capire di non agire mai senza permesso. Mina conferma che il marito l’ha picchiata così violentemente da farle perdere conoscenza. Il feto nel suo grembo è rimasto immobile per ore.

Il sospetto per la donna istruita

Donna istruita che un tempo aveva studiato scienze religiose e insegnato alle ragazze del suo villaggio, la sua conoscenza e la sua consapevolezza erano viste come una minaccia dalla famiglia del marito. La famiglia, non solo analfabeta ma profondamente radicata in credenze superstiziose e tradizioni umilianti, guardava con sospetto alla sua istruzione.

Mina sottolinea di aver studiato i principi islamici e di cercare sempre di reagire ai comportamenti ingiusti con calma e ragionevolezza, ma suo marito analfabeta si sente spesso inferiore e sminuito dalle sue parole. Perciò, per affermare il suo dominio maschile, si oppone anche alle sue osservazioni più semplici e a volte la picchia senza sosta e senza alcuna giustificazione, solo per affermare il suo controllo.

Discriminazione, povertà, umiliazione, violenza e solitudine hanno intessuto la vita di questa donna. I medici dicono che, a causa di numerose lesioni fisiche alla parte bassa della schiena, non riesce più a controllare la vescica. Però il suo vero dolore non risiede solo nel corpo, ma anche nello spirito ferito, che non è stato curato per anni, una ferita inflitta dalla crudeltà del suo destino. Eppure, Mina lotta con tutte le sue forze per la figlia di due anni e per il nascituro che porta in grembo, affrontando le difficoltà e le ingiustizie della vita, senza che la sua voce venga ascoltata da nessuno.

 

La disumanizzazione dei rifugiati afghani in Iran

Nahid Fattahi, Zan Times, 24 luglio 2025

Il mondo deve smettere di guardare altrove

Avevo cinque anni quando sono arrivata in Iran come rifugiata in fuga da una guerra che non capivo. Era il 1985. La mia famiglia, come milioni di altre, era scappata dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Abbiamo attraversato i confini non per cercare una vita migliore, ma solo per restare vivi.

Non eravamo trattati alla pari, ma con umanità. Non avevamo gli stessi diritti, ma avevamo dignità. Questo contava. Quando si scappa dalle bombe, la sopravvivenza viene prima dell’appartenenza.

Ricordo il profumo del pane sangak prima dell’alba e il suono della pala del fornaio che raschiava le pareti del forno. Ricordo di aver copiato versi di Hafez e Saadi sui miei quaderni, anche quando non ne comprendevo appieno il significato. Ricordo i vicini che avevano tutte le ragioni per vederci come estranei, ma che ci hanno accolto lo stesso.

Iran, casa mia

Tra i cinque e i tredici anni, l’Iran è stato la mia casa. Mi ha dato ciò che la guerra mi aveva rubato: continuità, ritmo e rifugio. Non l’ho mai dimenticato.

Ora sono costretta a farlo.

Quello che sta accadendo oggi ai rifugiati afghani in Iran è il collasso dei diritti umani.

I bambini vengono trascinati via dalle loro case e scaricati in frontiere che non hanno mai attraversato. Le persone vengono ammassate in centri di detenzione senza un regolare processo, senza accuse e senza motivo. Secondo l’OIM, il numero totale di persone deportate nel 2025 ha superato il milione.

Molti di loro sono nati e cresciuti in Iran. Non hanno mai messo piede in Afghanistan. Non stanno tornando in una patria. Vengono esiliati in un territorio sconosciuto, spesso senza cibo, denaro o documenti.

Alcuni vengono picchiati. Alcuni scompaiono. Alcuni non tornano affatto.

Il messaggio è chiaro: non siete fatti per restare. E se vi abbiamo permesso di restare, è stato un favore. Ora quel favore è finito.

Questa violenza non è esplosa da un giorno all’altro. È stata prevista dal sistema fin dall’inizio.

Oggi, più di cinque milioni di afghani vivono in Iran, molti dei quali senza documenti, apolidi e invisibili. La maggior parte di loro è lì dagli anni Ottanta. Hanno raccolto colture iraniane, costruito strade iraniane, trasportato rifiuti iraniani, assistito anziani iraniani e servito in case iraniane. Hanno pagato le tasse. Hanno rispettato le regole. Ma non sono mai stati invitati a far parte della storia nazionale iraniana.

Gli è stato permesso di esistere. Ma non di farne parte.

Non è mai stata una svista. È stata una strategia. Puoi vivere qui, ma non sarai mai “di qui”. Potete lavorare, ma non chiedete protezione. Potete sopravvivere, ma non aspettatevi dignità.

Invisibilità forzata usata come arma

Ora, quella politica decennale di invisibilità forzata è diventata un’arma.

Human Rights Watch ha documentato modelli di abuso che sembrano un copione dell’orrore: detenzioni arbitrarie, estorsioni da parte delle autorità, pestaggi, separazioni familiari ed espulsioni nel cuore della notte in zone di confine remote e pericolose. Amnesty International riferisce che i deportati vengono spesso scaricati in aree afflitte dalla violenza, senza risorse o supporto.

La caduta libera dell’economia iraniana fa da sfondo. Decenni di sanzioni hanno strangolato il Paese. L’inflazione è salita alle stelle. La repressione si è intensificata. Quando i regimi autoritari si trovano di fronte a un collasso interno, fanno quello che fanno sempre: trovano capri espiatori.

Gli afghani non hanno diritti legali, né diritto di voto, né sostegno diplomatico. Sono i bersagli perfetti.

Come psicoterapeuta, ho lavorato con persone la cui vita è stata sconvolta dall’esilio. L’esilio non è solo una ferita. È una condizione cronica. Divora le profondità di una persona.

Il tempo si distorce. Il futuro si dissolve.

Il corpo è in costante stato di allerta. I bambini cresciuti in questo stato non conoscono sicurezza, ma solo vigilanza. Gli adulti perdono la capacità di immaginare una vita che vada oltre la sopravvivenza. Diventa difficile sognare. Diventa difficile riposare. Diventa difficile sentirsi un essere umano completo.

Questa è la violenza silenziosa della cancellazione sponsorizzata dallo Stato. Non uccide solo i corpi, ma disintegra le anime.

La comunità internazionale non fa nulla

La comunità internazionale assiste a questa situazione senza fare quasi nulla. L’UNHCR ha rilasciato dichiarazioni che sembrano modelli di comunicati stampa. I governi occidentali danno cenni di preoccupazione, ma non offrono alcuna azione. Non ci sono vertici di emergenza, né ulteriori sanzioni legate alle violazioni dei diritti umani, né grida morali.

Perché? Perché i rifugiati afghani non sono vittime convenienti. Non si adattano alle ordinate narrazioni di eroismo o vittimismo che l’Occidente trova convincenti. Non sono vestiti con i giusti traumi. Non muoiono nei modi giusti. Sono troppo poveri, troppo marroni, troppo silenziosi, troppo numerosi.

È così che funziona la cancellazione. Non solo attraverso la violenza, ma anche attraverso il silenzio, il distogliere lo sguardo e l’oblio.

Alla diaspora afghana: se avete una voce, usatela. Se avete uno status, usatelo. Se avete sicurezza, non accaparratevela. Questa non è la lotta di qualcun altro. È la nostra.

Agli alleati iraniani: Molti di voi hanno rischiato tutto per sfidare la brutalità del vostro governo. Avete difeso i diritti delle donne, la libertà di parola e i prigionieri politici. Ora difendete le famiglie afghane che spazzavano le vostre strade, sedevano nelle vostre aule, lavoravano nei vostri cantieri. Facevano parte della vostra società, anche se il vostro governo non li ha mai riconosciuti.

Alla comunità mondiale dei diritti umani: Smettetela di fingere che sia complicato. Non lo è. È violenza contro gli apolidi. È la disumanizzazione di chi è già invisibile. È un fallimento morale al rallentatore.

Una volta l’Iran ha dato rifugio alla mia famiglia e per questo sarò sempre grata. Ma la gratitudine non è un ordine di bavaglio.

Ciò che sta accadendo ora richiede indignazione. Richiede un intervento. Richiede di fare onestamente i conti con l’ipocrisia della politica globale sui rifugiati e con la nostra incapacità di ritenere i governi responsabili quando le vittime sono povere, straniere e scomode.

I rifugiati afghani non sono fantasmi. Non sono macerie. Non sono usa e getta.

Sono esseri umani. E meritano di essere visti.

Nahid Fattahi, LMFT, è psicoterapeuta e docente aggiunto presso il Pacific Oaks College. Il suo lavoro si concentra sulla cura della salute mentale olistica e culturalmente sensibile. È stata pubblicata in riviste come The San Francisco Chronicle, The Daily Beast, Ms Magazine, US News e Psychology Today.

Poete afghane: la disobbedienza è una lotta

Somaia Ramish, Il Manifesto, 26 luglio 2025

Al Ju Buk Festival, nel borgo di Scanno, la poesia delle donne in Afghanistan, voci di resistenza, di lotta, di bellezza

La poesia delle donne in Afghanistan ha una lunga storia e si contraddistingue in momenti politici e sociali molto diversi: non solo espressione artistica di bellezza ma forma di lotta e disobbedienza che sfida una società dalla radicata tradizione patriarcale.

Rabi’a Balkhi (856) considerata la madre della poesia persiana, è una delle pochissime intellettuali a essere conosciuta con il suo vero nome, ancora oggi simbolo di libertà. La sua storia rappresenta la sfida contro l’oppressione e un continuo, duro, promemoria del prezzo che le donne afghane sono costrette a pagare per la loro libertà di parola e di scelta. Non potendo più scrivere liberamente verga i suoi versi col suo stesso sangue. Qui scrive: L’amore è un oceano con uno spazio così sconfinato/ Che nessun saggio vi nuota senza esserne ingoiato/ Un vero amante dovrebbe essere fedele fino alla fine/ E affrontare le correnti più respingenti.

Quando vedi le cose ripugnanti, immaginale pulite/ mangia il veleno, ma assaggia il dolce zucchero!

Nonostante le diseguaglianze sociali e l’oscurantismo culturale, costrette spesso a scrivere sotto falso nome – makhfie (Makhfi Badakhshi) è uno pseudonimo che significa «colei che è nascosta» – le donne afghane non si arrendono e continuano a utilizzare le proprie penne come strumento per opporsi alla discriminazione. La poesia è per loro consapevolezza, è femminismo, diffonde l’opinione delle donne su società, religione, cultura, politica. Divulgano i loro pensieri, nonostante le grandi sofferenze inflitte a chi non segue le oppressive regole patriarcali, mostrano di essere padrone del proprio destino.
Bahar Saeed (1956) simbolo della donna che scrive poesie erotiche, è una delle poete che ha rotto maggiormente i tabù, contro ogni norma sociale tradizionale, cantando la libertà del corpo da ogni costrizione. Versi che si oppongono all’esclusione delle donne afghane da ogni forma della vita sociale e politica. Una ribelle la cui poesia rifiuta la sottomissione e l’obbedienza.

Nadia Anjuman (1980-2005) che ha scritto Le mie ali sono chiuse e non posso volare, è stata assassinata nel 2005. Ad Herat, nel 1995, quando il regime talebano vieta per la prima volta l’istruzione femminile, frequenta un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle Sewing School, sotto la guida del professor Muhammad Ali Rayhab. Finito il regime si iscrive all’Università, e si laurea in Lettere nel 2002, pubblica una pregevole raccolta di poesia (Gul-e-dodi, Fiore di fumo), si sposa con un suo collega di università, laureato anche lui in Letteratura. Il marito la uccide poco dopo la nascita del loro primo figlio, perché ha osato declamare le sue poesie in pubblico. Aveva solo 25 anni. In Light Blue Memories, scritto settimane dopo la caduta dei Talebani nel 2001, si rivolge alle vittime del silenzio forzato e si chiede cosa succede quando si perde la propria voce. In nome di quale patriarcato siano ridotte a tacere.

A voi, ragazze isolate del secolo/ condottiere silenziose, sconosciute alla gente/ voi, sulle cui labbra è morto il sorriso/voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due/ cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti/ se tra i ricordi vedete il sorriso/ditelo:/
Non avete più voglia di aprire le labbra/ma magari tra le nostre lacrime e urla/ ogni tanto facevate apparire/ la parola meno limpida.
Sono imprigionata in questo angolo/ Piena di malinconia e di dispiacere/ Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

Maral Taheri (1980) è tra le più importanti e originali poetesse contemporanee. Ha passato la sua vita in esilio in Iran, dove si è occupata dei diritti delle donne. Dopo la caduta di Kabul e l’inizio del movimento «Zan, Zendeghì, Azadì» (Donna, Vita, Libertà) ha lasciato l’Iran e ora è rifugiata in Francia. Per molto tempo si è rifiutata di pubblicare per non sottostare alla censura in Iran e in Afghanistan. Collega l’amore, la sessualità, la guerra e l’esilio forzato con riferimento ai testi teologici dell’Islam. Oppone il suo rifiuto delle regole che sottomettono la donna e il suo corpo con un linguaggio diretto, e critico contro regole tradizionali e prestabilite.

Scrive: Non preoccuparti amore mio/ mio amore muto/ so bene come tradirmi/ è un’eredità culturale che viene dal mio paese/ sotterranea e originale/ come Dio!
Traditore ben vestito/ Compagno dei ladri e amico del gruppo/carovana/ E naturalmente non ci siamo inginocchiate/ Non è necessario essere sempre spontanea e leale/ Felice e semplice e timorata di Dio/ Abituarsi al dolore che ci ha raggiunto dal cielo/ Che altro può succedere?
Ciao, caro terzo mondo/ Amami/ Mentre spezzo semi di girasole per te nel cinema/ E bacia le mie labbra/ Fino a che mamma dà il permesso di farlo, pensa alle cicche di sigarette in camera mia/ Allahu Akbar/ Dio è 34 volte un grande idolo/ Con i seguaci attaccati alla statua russa…

In una società dove nascere femmina è di per sé un tabù, essere donna rappresenta una sfida…la disobbedienza è una lotta. Le poete, represse dalle famiglie e dalla società, torturate per aver scritto versi, continuano a lanciare la loro sfida contro le diseguaglianze, alle nuove generazioni, in una lotta millenaria che ispira e a dà speranza di cambiamento a tutte le donne del mondo.

Traduzione di Giorgia Pietropaoli

 

 

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

CISDA, Appello, 15 luglio 2025

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.