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Autore: CisdaETS

La Commissione Europea deve fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca nel Nord e nell‘Est della Siria

retekurdistan.it   14 febbraio 2025

 

EUROPEAN WATER MOVEMENT

Lettera aperta dell’European Water Movement ad Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, a Jessika Roswall, Commissario europeo per l’ambiente, la resilienza idrica e un’economia circolare e competitiva, e a Dubravka Šuica, Commissario Europeo per il Mediterraneo

L‘European Water Movement (EWM) e i suoi membri, assieme all’European Ecology Movement for Kurdistan (Tev-Eko), chiedono con urgenza alla Commissione Europea di porre fine al suo colpevole silenzio a fronte del dramma umanitario ed ecologico attualmente in corso nel Nord e nell’Est della Siria prodotto dall’aggressione militare turca diretta contro la popolazione civile a prevalenza curda e contro la diga di Tişrin sul fiume Eufrate.

La Turchia usa da anni l’acqua come arma contro i curdi turchi, siriani ed iracheni

Oltre ad usare l’acqua come arma contro i curdi e i loro alleati in Siria, la Turchia sta anche conducendo una guerra con l’acqua, non dichiarata ufficialmente, in bacini transfrontalieri (Eufrate, Tigri), per imporre la propria egemonia politica sui paesi coinvolti della Siria e dell‘Iraq.

Gli ambientalisti Tev-Eko, molti dei quali sono membri della diaspora curda in Europa, hanno documentato queste pratiche di lunga data da parte della Turchia (vedi la dichiarazione di Tev-Eko).

Nel corso dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (UE), il governo turco ha sostenuto di aver adattato la propria politica sull’acqua a quella della UE. La politica UE sull’acqua include una gestione concordata dei bacini idrici, una solidarietà tra i territori a monte e a valle, una equa distribuzione dell’acqua fra i suoi diversi utilizzi, la protezione degli ambienti acquatici, ecc. Ma la Turchia non adotta affatto questa politica sull’acqua, piuttosto fa il contrario. L’EWM è pertanto sorpreso dal fatto che la Commissione Europea non abbia mai fatto alcun commento nei confronti della Turchia, neanche dopo il bombardamento della diga di Tişrin. La diga di Tişrin assicura l‘acqua per la fornitura di acqua potabile, per l’irrigazione agricola e per la produzione elettrica, tutti fattori essenziali per la vita di centinaia di migliaia di persone. Come spiega Tev-Eko, la sua distruzione causerebbe incalcolabili conseguenze sociali ed ambientali, minacciando le vite delle future generazioni e degli ecosistemi in una vasta area a valle.

La politica migratoria della UE è contraria ai diritti umani e inefficace nello sradicare il terrorismo islamico in Europa

Fin dal 2016 l’Unione Europea ha finanziato la Turchia affinché impedisse ai siriani in fuga dal regime di Hafez Al Assad di trovare rifugio in Europa. In cambio la UE ha chiuso gli occhi sui crimini di guerra contro i curdi nel Kurdistan Turco, dove nel 2016 diverse città, tra cui Cizre, Sirnak e Nusaybin, sono state distrutte e mezzo milione di persone sono state sfollate e dove, a partire dal passaggio sotto il controllo turco nel 2018, sono state perpetrate le atrocità da parte delle milizie islamiste del Syrian National Army (SNA) sulla popolazione, impossibilitata a fuggire dalla regione di Afrin, a prevalenza di popolazione curda. Come si è visto, ciò non ha impedito gli attacchi islamisti in Europa.

La stessa situazione, anche peggiore, può verificarsi di nuovo con l’attacco dell’esercito turco con I propri alleati della SNA contro la regione dell’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria. La conquista da parte dell’esercito turco e dei propri alleati della SNA di questa regione governata da un regime democratico porterà alla morte di migliaia di civili, alla cacciata di centinaia di migliaia di persone e alla liberazione dei prigionieri di Daesh (Stato Islamico), molti dei quali in possesso di passaporto europeo.

La Commissione Europea deve agire in conformità ai valori dell’Unione Europea

La Commissione Europea, la cui Presidente ha di recente riaffermato solennemente i valori sostenuti dall’Unione Europea, ha il dovere di metterli in pratica in qualunque momento. Attualmente questi valori europei sono apertamente violati dalla Turchia nel Nord e nell’Est della Siria, e, in un futuro non troppo lontano, ciò porterà drammatiche conseguenze anche negli Stati Membri della UE. Chiediamo pertanto con urgenza alla Commissione Europea di fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca in Siria.

European water movment

In Afghanistan: è apartheid di genere contro le donne

laredazione.net  

Per aiutare le donne afghane CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane ha lanciato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”.

Senza volto. Senza voce. Senza volto e senza voce sono le donne afghane. Costrette a stare segregate nelle loro case con finestre oscurate, in Afghanistan è in atto un apartheid di genere. Con apartheid di genere si intende un sistema istituzionalizzato di dominazione e oppressione, che relega in modo sistematico le donne a una condizione di inferiorità e privazione dei diritti fondamentali. Le donne afghane sono seppellite vive tra le mura domestiche e lasciate sole nel divieto di lavorare, istruirsi e condurre una vita, sia privata che sociale, dignitosa e umana.

Con il ritorno dei talebani in Afghanistan, nell’Agosto del 2021, le donne, neanche troppo progressivamente, sono state private dei loro diritti fondamentali; obbligate a subire una costante repressione, la loro esistenza si è ridotta quasi alla funzione del respiro e della procreazione.

Le donne afghane e i diritti negati

I divieti che i talebani hanno inflitto alle donne sono moltissimi: non possono cantare e far sentire la loro voce, devono indossare il burqa, non possono frequentare luoghi pubblici, non possono guidare, non possono lavorare, non possono viaggiare da sole oltre la distanza di 72 chilometri e per questo devono essere accompagnate da un mahram (membro della famiglia di sesso maschile). I recenti decreti hanno invece stabilito il divieto di iscriversi e frequentare gli studi negli istituti medici, mentre quello introdotto nel Dicembre 2024 proibisce alle donne di farsi vedere all’interno delle loro case: nelle nuove costruzioni verranno quindi vietate le finestre che si affacciano su strade pubbliche e in quelle vecchie le finestre saranno oscurate.

Anche la condizione delle bambine è preoccupante: dopo i 12 anni è infatti vietato loro qualsiasi forma di istruzione. Esattamente come le loro madri sono costrette in casa, perché se uscissero da sole rischierebbero di essere rapite dai talebani per darle in sposa ai loro uomini. L’Afghanistan è uno di quei paesi in cui i matrimoni precoci (la famigerata pratica delle spose bambine) e forzati sono legittimati. Matrimoni che spesso, ma non solo, coinvolge le famiglie povere che vendono una delle loro figlie per sostenere materialmente gli altri componenti della famiglia; ovviamente queste pratiche hanno delle forti ripercussioni psicologiche sulle giovani afghane. Un reportage della BBC di Giugno 2023 (ripreso anche dal dossier di Cisda I diritti negati delle donne afghane pubblicato nel settembre 2023), parla di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: «Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza», sono le parole di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che il talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

Afghan Witness a proposito di questo tema ha rilevato che: «Ci sono stati almeno 195 casi di suicidio in Afghanistan dall’aprile 2022. I casi di suicidio in Afghanistan sembrano aumentare ogni anno, probabilmente a causa dell’escalation della crisi economica, della disoccupazione, della violenza domestica, dei matrimoni forzati, dei disturbi mentali, restrizioni dei talebani, violenze e violazioni dei diritti umani ad essa connesse». Dati, questi, che però appaiono sommari proprio per la forte censura presente nel Paese, è molto probabile quindi che i casi di suicidio siano molti di più e registrati come incidenti o morti naturali.

A peggiorare la condizione delle donne e delle ragazze afghane è anche il fatto che all’interno del contesto famigliare non è raro che subiscano violenza proprio da parte di quei mariti che sono state obbligate a sposare: una violenza domestica che nella società afghana – misogina, conservatrice e patriarcale – è giustificata e tollerata. La situazione non cambia di molto nel caso in cui una donna sposata subisca molestie o violenza sessuale da parte di un uomo che non sia suo marito: anche in questo caso la colpa ricadrà sulla donna, in quanto è la donna che detiene “l’onore familiare”, d’altronde l’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, interpretata dai talebani nella sua forma più rigida.

Situazione attuale dell’Afghanistan

L’Afghanistan è un paese estremamente carente non solo dal punto di vista dei diritti umani, ma anche dal lato economico: non c’è lavoro e c’è povertà; gli uomini infatti (gli unici che possono lavorare) sono costretti a emigrare nei paesi vicini o nelle aree urbane lasciando così le donne da sole e impossibilitate a muoversi. Oltre questo aspetto però si aggiungono pure calamità naturali frequenti, come inondazioni e siccità che rendono l’Afghanistan un territorio critico. Nonostante questo, tuttavia, resistono in maniera coraggiosa associazioni di donne laiche e femministe, come ad esempio Rawa, organizzazione sociopolitica indipendente che dal 1977 si occupa della tutela dei diritti delle donne afghane. Meena Keshwar Kamal, la sua fondatrice, fu uccisa nel febbraio del 1987 da agenti del Khad (il braccio afgano del Kgb) durante l’occupazione sovietica, tuttavia la sua lotta per le donne si è cristallizzata e continua tutt’ora tra le donne afghane, sebbene con modalità diverse.

CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane, è un’associazione che collabora con Rawa. Le donne del Cisda sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Le loro finalità si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia e all’estero. Per sostenere queste finalità, il Cisda promuove la raccolta fondi a sostegno di progetti in Afghanistan come scuole segrete per bambine, ragazze e donne, corsi di cucito per aiutare l’autonomia lavorativa femminile, unità mobile sanitaria, coltivazione di zafferano da parte di una cooperativa femminile e tanti altri. A proposito vale la pena descrivere le scuole segrete: piccoli gruppi di ragazze che si riuniscono in un’abitazione privata (spesso quella di un’insegnante) per studiare e imparare quelle materie che a scuola erano loro vietate, tipo le scienze, la matematica e l’inglese. Per evitare di essere scoperte in queste case sono presenti molti libri religiosi da tenere a portata di mano in caso i talebani dovessero fare irruzione nell’abitazione e controllare cosa stanno facendo le donne; a quel punto le ragazze fingeranno di essere in un gruppo di preghiera. Molto problematico appare il tema della sanità. A causa dell’impossibilità per le donne a viaggiare, e quindi di curarsi o semplicemente per farsi dei controlli, è stata creata un’unità sanitaria mobile che si reca nei villaggi per offrire assistenza alle donne e alle ragazze. Va precisato che l’unità mobile funziona per le visite e conferimento di medicinali. Le donne che dovranno operarsi ma non possono viaggiare saranno private del diritto alla salute.

La campagna del Cisda: Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere

Prosegue la Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere del Cisda avviata il 10 Dicembre 2024 in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani. Chiedo alla Presidente del Cisda, Graziella Mascheroni, di parlarmi di questa campagna.

Graziella Mascheroni: la campagna si pone ambiziosi, ma fondamentali obiettivi:

Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e della sua sistematica applicazione in Afghanistan.
Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano –
Sostegno alle forze afghane anti-fondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti – Contestualmente è importante che alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica.
Cisda tramite questa campagna propone:

Sottoscrivere la Petizione “STOP FONDAMENTALISMI-STOP APARTHEID DI GENERE” collegandoti al sito del Cisda.
Far approvare nei vari Consigli comunali la mozione
Sostenere a tutti i livelli istituzionali la Campagna
I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e anti-fondamentaliste anche in Afghanistan.

Il regime fondamentalista dei talebani è responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne come traduzione pratica della legge divina (sharia).

L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, è stato un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre che hanno provocato migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate – il brodo di coltura del terrorismo e del fondamentalismo.

 

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

altraeconomia.it 17 febbraio 2025

Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Dialogo con Ankara, le linee rosse curde per il disarmo

 

Il Manifesto, 16 febbraio 2025, di Tiziano Saccucci

Kurdistan In attesa dell’appello-video del leader Ocalan al Pkk, il partito Dem in missione nel Kurdistan in Iraq. Poca fiducia dei combattenti nelle promesse turche

 

 

A meno che non ci sia una seria opposizione e un intervento golpista, sembra che Reber Apo (il leader Öcalan) darà inizio a un nuovo processo di cambiamento, trasformazione e ricostruzione per tutti», si legge in un comunicato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) in occasione del 15 febbraio, ventiseiesimo anniversario della cattura di Abdullah Öcalan.

«Il nostro popolo lo definisce “il giorno nero”, Reber Apo quest’anno vuole trasformare questo giorno nero in un giorno bianco», ha detto Murat Karayılan, comandante delle Forze di difesa del Popolo (Hpg) legate al Pkk, in un’intervista al canale curdo SterkTV.

DA TEMPO, infatti, circolano voci su un’imminente appello di Öcalan al Pkk affinché questo si impegni in un nuovo processo di pace che porti al disarmo dell’organizzazione, cogliendo l’opportunità aperta a ottobre dal leader nazionalista turco Devlet Bahçeli in parlamento.

L’appello, probabilmente in video, era atteso per proprio per il 15 febbraio ma potrebbe essere rimandato. Ad accennarlo è stata Tülay Hatimogulları, co-presidente del Partito per l’uguaglianza e la democrazia dei popoli (Dem), rispondendo alle domande di alcuni giornalisti al margine di una sessione del parlamento turco. Il ritardo è probabilmente dovuto a una visita di Dem nella Regione del Kurdistan in Iraq, programmata nel fine settimana per incontrare i leader delle due principali famiglie che controllano la regione semiautonoma, Barzani e Talabani.

«La società è pronta, la politica è pronta, l’opposizione è pronta, ma è ovvio che il governo non è pronto. Dovrebbero annunciare le loro tabelle di marcia per un processo di pace. Per cominciare, l’isolamento del signor Öcalan dovrebbe essere revocato», ha dichiarato Hatimogulları.

«I processi del 1993, 1995, 1998 e, più di recente, i colloqui di Oslo tra il 2013 e il 2015, hanno gettato le basi per una soluzione. La questione può essere risolta senza guerra», ha dichiarato il membro del Comitato centrale del Pkk Nedim Seven all’agenzia curda Firat News, confermando tuttavia lo scetticismo del partito sulle reali intenzioni di Ankara: «Sfortunatamente, lo stato turco e i suoi rappresentanti hanno utilizzato questi processi per i propri interessi di potere e hanno agito non per risolvere un problema vecchio di un secolo, ma per mantenere il proprio potere».

ANCHE KARAYıLAN ha criticato l’approccio di Ankara: «Recep Tayyip Erdogan dice di sostenere l’appello di Bahçeli, eppure in Rojava dal confine fino a Tabqa passando per Jarabulus c’è un fronte di guerra e contro i curdi lo stato turco sta usando tutte le possibili tecniche».

Nella stessa occasione, il comandante Hpg ha chiarito le condizioni per il disarmo: «Siamo un movimento con migliaia di combattenti, non sono combattenti per soldi che fanno il loro lavoro e se ne tornano a casa. Combattono per un’idea, per ciò in cui credono. Se la persona che ha creato quell’ideologia, il leader Apo, non parla con questi compagni direttamente, se fa solo una chiamata via video, come possono convincersi a lasciare le armi?».

Secondo Karayılan un messaggio da parte di Öcalan sarebbe «senza dubbio un inizio molto importante» ma non sufficiente se non seguito da un cessate il fuoco bilaterale: «Oggi a Zap, i soldati dello stato turco e i nostri compagni stanno combattendo a 200 metri di distanza, come potrei andare a dirgli di deporre le armi?».

IL PASSAGGIO successivo, linea rossa più volte esplicitata da Karayılan e Seven, dovrebbe essere il rilascio di Öcalan, così che possa discutere il disarmo direttamente con i militanti del partito, magari in un congresso. «Non siamo amanti delle armi, siamo amanti della libertà e della democrazia, della vita equa – ha concluso il comandante della guerriglia – Se queste condizioni si realizzeranno non ci sarà senza dubbio più bisogno delle armi».

Il Tribunale permanente dei popoli riunito a Bruxelles: il giudizio sui crimini della Turchia in Rojava

CGIL Lombardia, Europa Mondo News, 13 febbraio 2025

La sessione di quest’anno del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), che ha avuto luogo il 5 e 6 febbraio 2025 presso la Vrije Universiteit di Bruxelles, ha esaminato i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani commessi dallo Stato turco contro la popolazione curda nella regione del Rojava (Nord ed Est della Siria) dal 2018 a oggi.

Con la partecipazione di procuratori dell’accusa e giudici, sono state esaminate prove, ascoltate testimonianze dirette e analizzati report di attivisti per i diritti umani. Tra gli enti sostenitori, il Centro per la Ricerca e la Protezione dei Diritti delle Donne, il Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) e l’Associazione Internazionale degli Avvocati Democratici (IADL). Inoltre, tra le delegazioni internazionali, hanno partecipato alla sessione anche Francesca Baruffaldi e Giuseppe Augurusa dell’area politiche internazionali della Cgil Lombardia, portando il proprio supporto e il proprio impegno per il rispetto dei diritti umani, nel contesto internazionale ma anche italiano.

Nelle stesse giornate, infatti, anche in Italia si è alzata l’attenzione sulla questione curda con l’occasione della svolta giudiziaria sul caso di Maysoon Majidi, attivista curda iraniana liberata dopo dieci mesi di detenzione con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una scarcerazione accolta con grande soddisfazione, soprattutto da tutti i soggetti difensori dei diritti umani che hanno sempre sostenuto la sua innocenza. Maysoon Majidi, dichiarava infatti di essere una migrante come gli altri, e durante la detenzione aveva anche intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro la sua incarcerazione. Si definisce infatti una «perseguitata politica, né scafista né una migrante economica, ma scappata dall’Iran per sfuggire alle persecuzioni del regime. Trentasette organizzazioni hanno accertato che ho collaborato in tutti questi anni con loro».

Crimini documentati e accuse al governo turco
La sessione del Tribunale ha quindi trattato nella prima giornata i temi dello sfollamento forzato della popolazione e dell’ingegneria etnica in Afrin. Pratiche che, insieme ai bombardamenti indiscriminati, alle torture dei civili sfollati a Tel Rifat e alla distruzione delle infrastrutture essenziali, hanno portato all’accusa rivolta allo stato turco di crimini contro l’umanità. La seconda giornata, invece, ha approfondito la pratica dei femminicidi e degli stupri mirati come strategia di attacco alla forte presenza delle donne nel confederalismo democratico curdo, e strumenti di sostituzione etnica come l’uso di droni contro i civili per provocare lo sfollamento, la detenzione arbitraria nei cosiddetti “carceri segreti” e la cancellazione culturale e storica.

L’investigatore della squadra dell’accusa, Anni Pues, docente di diritto internazionale presso l’Università di Glasgow, ha presentato infatti una relazione dal titolo “Stupro e violenza sessuale nelle carceri segrete – metodi di tortura e guerra”. Tra tutti, il caso di Nadia Hassan Suleiman e Lonjin Abdo è stato illustrato come emblematico per le accuse di detenzione arbitraria, tortura, stupro e sparizione forzata. Questi atti esercitati dalla Turchia, ha dichiarato Pues, sono considerati crimini di guerra ai sensi del diritto internazionale consuetudinario. Nadia Hassan Suleiman e Lonjin Abdo, secondo l’accusa e le prove rilevate, sono state infatti sequestrate dalle autorità turche tra il 2 agosto 2018 e il dicembre 2020, detenute in condizioni disumane, torturate e violentate.

“Stiamo difendendo la coscienza collettiva, non stiamo solo difendendo il popolo curdo” ha affermato nella sua arringa finale una delle rappresentanti dell’accusa, “il Rojava è una storia di resistenza e le donne stanno combattendo per tutte le donne nel mondo.”

L’investigatore della squadra di persecuzione Socrates Tziazas ha poi illustrato il fenomeno della cancellazione culturale e storica, consultando il professor Odisseas Christou riguardo alla distruzione di siti archeologici come il Tempio di Ain Dara, distrutto dai bombardamenti turchi nel 2018. Afrin, ha sottolineato Tziazas, è una delle regioni con il più alto numero di siti archeologici e storici saccheggiati o distrutti dall’operazione militare turca “Ramo d’Ulivo” iniziata nel 2018.

“In Siria – afferma Tziazas – i droni turchi hanno bombardato la storia della civiltà, cercando di cancellarne anche le tracce. Oltre ad uccidere donne, bambini e uomini, oltre a distruggere le loro case, l’esercito siriano complice delle forze di occupazione turca bombarda la storia dell’umanità, perché non deve rimanere traccia di questi popoli, come se non fossero mai esistiti. E i ruderi vengono trasformati in uno scenario di guerra e di esercitazioni militari, dove ogni pietra antica affonda nella storia e si macchia di sangue.”

Dal punto di vista giuridico, l’avvocato ha spiegato come questo rientri nella fattispecie di un crimine contro l’umanità e un crimine di guerra. Con l’aggiunta di una fattispecie di reato internazionale ancora più mirata: l’ecocidio. Il degrado dell’habitat ambientale, distrutto di proposito, è catalogabile infatti come un crimine contro la popolazione locale.

Un altro episodio drammatico esposto dall’investigatore Rengin Ergol è il caso del bombardamento della scuola di Shemoka. Il 18 agosto 2022, un attacco aereo ha colpito una scuola civile dell’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale (AANES), causando la morte di diversi studenti e ferendo molti altri. I sopravvissuti hanno denunciato i fatti attraverso videomessaggi, evidenziando la mancanza di aiuti da parte delle organizzazioni internazionali.

L’ultimo caso esaminato dal Tribunale riguarda il bombardamento della Simav Printing House a Qamishlo, avvenuto il 25 dicembre 2023. Secondo l’investigatore Florian Bohsung, l’attacco ha ucciso sette civili e causato ingenti danni alla tipografia. Il Ministero della Difesa turco ha dichiarato che l’operazione mirava a obiettivi terroristici legati al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ma le prove raccolte dimostrano che le vittime non avevano alcuna affiliazione politica o militare.

Testimonianze dirette e analisi delle prove
Durante il Tribunale, numerosi testimoni hanno fornito racconti diretti. Ibrahim Sheho ha descritto la situazione in Afrin dopo l’occupazione turca, mentre Hoshang Hasan ha testimoniato sugli attacchi contro i giornalisti e la repressione della libertà di stampa. Avin Suwed, Co-Presidente del Consiglio Esecutivo dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est, ha infine parlato delle conseguenze politiche e sociali dell’occupazione turca.

La strategia di sfollamenti forzati e ingegneria etnica nelle aree di Afrin, Ras al-Ayn e Tel Abyad è stata evidenziata come una pratica sistematica, così come la violenza di genere e i femminicidi mirati volti a indebolire il ruolo sociale delle donne. La distruzione delle infrastrutture mediche, energetiche e di rifornimento idrico sono armi puntate contro la popolazione civile siriano-curda. L’obiettivo di tutte queste pratiche è lo sfollamento definitivo dell’area, per una sostituzione etnica con popolazioni turcomanne e di lingua araba.

“Con gli occhi lucidi abbiamo assistito in diretta al racconto della storia recente di una parte del mondo che è vicinissima ai nostri confini, ma troppo spesso incompresa o ignorata” commenta Francesca Baruffaldi, dell’area politiche internazionali CGIL Lombardia.

Il verdetto del Tribunale
I risultati principali delle udienze del Tribunale hanno rivelato che dall’occupazione turca di Afrin nel 2018, oltre 300.000 persone sono state sfollate con la forza, e la popolazione curda ad Afrin è crollata da oltre il 90% ad appena il 25%. Le prove includono testimonianze di bombardamenti indiscriminati che hanno causato vittime tra i civili, in particolare tra i bambini, e la distruzione di infrastrutture vitali, portando a gravi crisi umanitarie, tra cui la mancanza di accesso all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria.

Nella loro dichiarazione, i giudici hanno criticato la giustificazione della Turchia delle sue operazioni militari come autodifesa contro il terrorismo, affermando che l’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale (DAANES) rappresenta un modello di democrazia, coesistenza etnica e uguaglianza di genere che il governo turco cerca di smantellare.

Il verdetto del Tribunale, letto il 6 febbraio 2025, ha ribadito la responsabilità del governo turco per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, sottolineando la necessità di un’azione internazionale immediata per fermare la violenza e garantire giustizia al popolo curdo. Le prove indicano infatti lo Stato turco e i suoi alti funzionari come i principali responsabili del terrore contro le popolazioni civili, piuttosto che i combattenti curdi che si sono opposti attivamente all’ISIS. La decisione del Tribunale rappresenta un’importante denuncia pubblica, contribuendo a documentare le violazioni e a sensibilizzare la comunità internazionale sulla gravità della situazione in Rojava.

Per Giuseppe Augurusa, presente alla sessione insieme a Francesca Baruffaldi, “la storia sembra tornare indietro, ma finché potremo, lotteremo per i diritti degli oppressi contro gli oppressori. Come sindacalisti che da sempre lottano per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, crediamo che questi siano inscindibili dai diritti umani e civili di ogni popolo. La lotta per l’autodeterminazione del popolo curdo, schiacciato come minoranza dalla Turchia e non solo, riecheggia purtroppo il genocidio in Palestina. Un tragico filo conduttore che si dipana in questa fase storica, in cui le teorie negazioniste e le destre estreme stanno prendendo piede anche nelle democrazie più antiche del mondo.”

Donne Insieme: nuova petizione del Cisda per le donne in Afghanistan

Casale News, 14 febbraio 2025

Sabato 15 febbraio, dalle 9.30 alle 18, presidio e letture per bambini in Piazza Mazzini

Il Collettivo Donne Insieme, che da qualche anno segue con assiduità le vicende dell’Afghanistan ed in particolare della condizione delle donne, si ripresenta con un presidio in piazza Mazzini sabato 15 febbraio dalle 9.30 alle 18 per promuovere la nuova petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere e per raccogliere fondi per il finanziamento dei progetti di sostegno già avviati negli anni scorsi.

In questi ultimi mesi il governo talebano ha aggiunto nuovi provvedimenti restrittivi delle possibilità di vita delle donne (le libertà e i diritti sono già del tutto negati, ora si può soltanto parlare di condizioni di sopravvivenza): è stato introdotto il divieto di aprire le finestre o addirittura l’ordine di murarle (sì, proprio così) per impedire alle donne di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini e altri luoghi frequentati da altre donne; è stato chiuso il corso di studi Ostetricia e medicina, per cui le donne non avranno più la possibilità di essere curate, non potendo in futuro rivolgersi a medici donna.

A fronte di questa situazione, un lungo elenco di paesi ha preso una decisa posizione di condanna del governo talebano, rivolgendosi alla Corte Internazionale di Giustizia e/o alla Corte Penale Internazionale: proprio quest’ultima ha richiesto un mandato di arresto internazionale per il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada e suoi collaboratori. Altri paesi invece, Europa inclusa, hanno accettato il confronto diplomatico diretto col governo fondamentalista, accogliendo le condizioni poste da quest’ultimo (escludere la presenza femminile dai negoziati ed escludere dai temi affrontati proprio la condizione delle donne)

La persecuzione sistematica delle donne da parte dei fondamentalisti talebani ha spinto il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne –afghane, con cui Donne Insieme collabora) a promuovere una petizione al Governo Italiano affinché sostenga alcune azioni e se ne faccia promotore presso le istituzioni internazionali:

– Riconosca l’apartheid di genere” come crimine contro l’umanità (si riferisce a violazioni sistematiche e istituzionalizzate contro le donne)

– Non venga dato riconoscimento di alcun tipo al regime fondamentalista talebano

– Venga dato invece sostegno e supporto alle voci democratiche antifondamentaliste che ancora resistono all’interno del Paese

Il presidio di Donne Insieme è finalizzato a raccogliere adesioni a questa petizione, ad informare sulla situazione delle donne e sulle azioni promosse a vari livelli.

Uno spazio sarà dedicato ai bambini, che potranno ascoltare la lettura di fiabe afghane dalle 10,30 alle 11,30.

La petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere si trova qui

Si può aderire come Associazione scrivendo a rete@cisda.it

Difendiamo il Rojava, manifestazioni a Roma e Milano

Pressenza, 10 febbraio 2025, di L’Ideota

Il 15 febbraio 2025, a Roma e Milano, manifestiamo per chiedere la libertà di Abdullah Öcalan, segregato dal 1999 nelle prigioni turche.

Öcalan ha influenzato una rivoluzione che mette al centro l’emancipazione delle donne, ispirata all’ecologia sociale e al municipalismo libertario dell’intellettuale americano Murray Bookchin.

Il 15 febbraio scendiamo in piazza per sostenere il Rojava e la sua rivoluzione fragile, imperfetta e precaria, messa a rischio dalla guerra. Una rivoluzione minacciata dagli attacchi indiscriminati di Erdogan.

Incontriamoci per far uscire questo tema dal cono d’ombra, perché quella del Rojava è una popolazione che è stata tradita troppo volte.

Tradita da chi evita di informarsi sui fatti del mondo.

Tradita da un Occidente che si ricorda del Rojava solo quando mette in agenda la lotta contro l’ISIS.

Tradita da un Occidente che fornisce armi alla Turchia, un Paese Nato, per consentire a Erdogan di compiere i suoi massacri.

Tradita da un Occidente che si riempie la bocca di “valori occidentali” e “superiorità morale” mentre fa guerre imperialiste e volta le spalle a un esperimento di società autogestita, egualitaria, femminista ed ecologista.

Tradita dai campisti rossobruni che considerano “radical chic” qualsiasi battaglia ecologista, femminista e antiautoritaria.

Tradita da chi non capisce che si può (e si dovrebbe, in un mondo ideale) essere contro tutte le ingiustizie, contro tutte le forme di capitalismo, contro l’imperialismo occidentale, contro l’imperialismo dei BRICS, dalla parte di chi si ribella alle teocrazie. Perché “il nemico del mio nemico è mio amico” è una logica assurda che ha fatto troppi danni.

Tradita dagli stalinisti che disprezzano l’esperimento del Rojava perché non possono piantare la loro bandiera su questa esperienza di emancipazione collettiva.

Tradita da Assad, dagli Stati Uniti, dall’Europa, dall’Italia, dalla Russia, dall’ONU, dai BRICS.

Tradita dai padroni delle piazze virtuali che spesso censurano chi affronta questo tema.

Tradita dal silenzio (rotto raramente) di radio, televisioni, giornali e intellettuali.

Tradita da chi non rinuncia a muri e confini.

Tradita dal benaltrismo, da chi ha passato gli ultimi anni a dirci “ci sono questioni più urgenti”, “ora non è il momento”, “magari un’altra volta”.

Tradita da chi sogna rivoluzioni e non si rende conto che proprio ora, davanti ai nostri occhi, è in corso una rivoluzione fragile e precaria che rischia di essere spazzata via anche a causa del disinteresse.

Il confederalismo democratico del Rojava è stato tradito troppe volte.

Questa volta cerchiamo di essere una moltitudine, perché i post su Facebook non faranno mai la differenza.

Il 15 febbraio è il 26esimo anniversario della cattura di Öcalan.

Quel giorno incontriamoci per manifestare:

A Milano, Largo Cairoli, ore 14.30;
A Roma, Piazzale Ugo La Malfa, ore 14.30.

Lettera aperta alla Commissione Europea per fermare aggressione turca nel nord e nell’est della Siria

Pressenza, 12 febbraio 2025

Riceviamo e pubblichiamo la dichiarazione con lettera aperta dell’European Water Movement (EWM – Movimento Europeo dell’Acqua) alla Commissione Europea, in cui denuncia il colpevole silenzio di questa istituzione riguardo all’aggressione turca alle popolazioni del Nord e dell’Est della Siria e, in particolare, riguardo al bombardamento turco della diga di Tishrin.

Lettera aperta dell’European Water Movement ad Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, a Jessika Roswall, Commissario europeo per l’ambiente, la resilienza idrica e un’economia circolare e competitiva, e a Dubravka Šuica, Commissario Europeo per il Mediterraneo

L‘European Water Movement (EWM) e i suoi membri, assieme all’European Ecology Movement for Kurdistan (Tev-Eko), chiedono con urgenza alla Commissione Europea di porre fine al suo colpevole silenzio a fronte del dramma umanitario ed ecologico attualmente in corso nel Nord e nell’Est della Siria prodotto dall’aggressione militare turca diretta contro la popolazione civile a prevalenza curda e contro la diga di Tişrin sul fiume Eufrate.

La Turchia usa da anni l’acqua come arma contro i curdi turchi, siriani ed iracheni

Oltre ad usare l’acqua come arma contro i curdi e i loro alleati in Siria, la Turchia sta anche conducendo una guerra con l’acqua, non dichiarata ufficialmente, in bacini transfrontalieri (Eufrate, Tigri), per imporre la propria egemonia politica sui paesi coinvolti della Siria e dell‘Iraq.

Gli ambientalisti Tev-Eko, molti dei quali sono membri della diaspora curda in Europa, hanno documentato queste pratiche di lunga data da parte della Turchia (vedi la dichiarazione di Tev-Eko).

Nel corso dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (UE), il governo turco ha sostenuto di aver adattato la propria politica sull’acqua a quella della UE. La politica UE sull’acqua include una gestione concordata dei bacini idrici, una solidarietà tra i territori a monte e a valle, una equa distribuzione dell’acqua fra i suoi diversi utilizzi, la protezione degli ambienti acquatici, ecc. Ma la Turchia non adotta affatto questa politica sull’acqua, piuttosto fa il contrario. L’EWM è pertanto sorpreso dal fatto che la Commissione Europea non abbia mai fatto alcun commento nei confronti della Turchia, neanche dopo il bombardamento della diga di Tişrin. La diga di Tişrin assicura l‘acqua per la fornitura di acqua potabile, per l’irrigazione agricola e per la produzione elettrica, tutti fattori essenziali per la vita di centinaia di migliaia di persone. Come spiega Tev-Eko, la sua distruzione causerebbe incalcolabili conseguenze sociali ed ambientali, minacciando le vite delle future generazioni e degli ecosistemi in una vasta area a valle.

La politica migratoria della UE è contraria ai diritti umani e inefficace nello sradicare il terrorismo islamico in Europa

Fin dal 2016 l’Unione Europea ha finanziato la Turchia affinché impedisse ai siriani in fuga dal regime di Hafez Al Assad di trovare rifugio in Europa. In cambio la UE ha chiuso gli occhi sui crimini di guerra contro i curdi nel Kurdistan Turco, dove nel 2016 diverse città, tra cui Cizre, Sirnak e Nusaybin, sono state distrutte e mezzo milione di persone sono state sfollate e dove, a partire dal passaggio sotto il controllo turco nel 2018, sono state perpetrate le atrocità da parte delle milizie islamiste del Syrian National Army (SNA) sulla popolazione, impossibilitata a fuggire dalla regione di Afrin, a prevalenza di popolazione curda. Come si è visto, ciò non ha impedito gli attacchi islamisti in Europa.

La stessa situazione, anche peggiore, può verificarsi di nuovo con l’attacco dell’esercito turco con I propri alleati della SNA contro la regione dell’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria. La conquista da parte dell’esercito turco e dei propri alleati della SNA di questa regione governata da un regime democratico porterà alla morte di migliaia di civili, alla cacciata di centinaia di migliaia di persone e alla liberazione dei prigionieri di Daesh (Stato Islamico), molti dei quali in possesso di passaporto europeo.

La Commissione Europea deve agire in conformità ai valori dell’Unione Europea

La Commissione Europea, la cui Presidente ha di recente riaffermato solennemente i valori sostenuti dall’Unione Europea, ha il dovere di metterli in pratica in qualunque momento. Attualmente questi valori europei sono apertamente violati dalla Turchia nel Nord e nell’Est della Siria, e, in un futuro non troppo lontano, ciò porterà drammatiche conseguenze anche negli Stati Membri della UE. Chiediamo pertanto con urgenza alla Commissione Europea di fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca in Siria.

Il SIGAR, l’organismo di controllo USA, lancia l’allarme sull’Afghanistan

Hammad Sarfraz,  The Express Tribune, 3 febbraio 2025

Gli aiuti esteri hanno fatto poco per frenare l’oppressione dei talebani o fermare la spirale discendente del paese

 

Dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, miliardi di dollari in aiuti esteri sono stati riversati in Afghanistan, ma i talebani continuano a essere riluttanti a migliorare la governance, a combattere il terrorismo o a porre fine all’oppressione delle donne, ha avvertito un organismo di controllo statunitense.

Il paese dilaniato dalla guerra è invece sprofondato in una crisi ancora più profonda sotto il dominio dei talebani, secondo l’ultimo rapporto trimestrale dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). La situazione, ha affermato l’ente di controllo, rimane disperata, con il gruppo militante che rafforza la sua presa sul potere ignorando le crescenti preoccupazioni per un’economia in difficoltà, diffuse violazioni dei diritti e la crescente minaccia del terrorismo.

Nel suo rapporto al Congresso, l’ispettore generale ha osservato che oltre 3,71 miliardi di dollari di aiuti statunitensi sono confluiti in Afghanistan dal 2021, con oltre il 64% dei fondi instradati attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) e l’Afghanistan Resilience Trust Fund gestito dalla Banca mondiale. Tuttavia, l’organismo di controllo ha avvertito che gli aiuti hanno fatto poco per mitigare le politiche repressive dei talebani o impedire il continuo declino del paese, sollevando nuove domande sull’efficacia del sostegno internazionale.

Le donne, che secondo l’ONU sono state cancellate dalla vita pubblica afghana sotto l’ultima iterazione del governo talebano, continuano ad affrontare gravi restrizioni, ha messo in guardia il rapporto SIGAR. L’istruzione secondaria per le ragazze rimane vietata e alle donne è proibito lavorare nella maggior parte dei settori, tra cui ONG e assistenza sanitaria. Il rapporto sottolinea anche la crescente difficoltà nella distribuzione degli aiuti umanitari, poiché le barriere imposte dai talebani impediscono che l’assistenza essenziale raggiunga coloro che ne hanno più bisogno.

Gli analisti notano che le politiche dei talebani presentano sorprendenti somiglianze con il loro primo governo degli anni ’90, nonostante anni di impegno internazionale e miliardi di aiuti volti a incoraggiare la moderazione. “I talebani afghani hanno gradualmente imposto restrizioni che ricordano il loro precedente regime”, ha affermato Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center, un think tank con sede a Washington. Ha aggiunto che né gli sforzi diplomatici né gli aiuti umanitari hanno temperato l’approccio intransigente del gruppo.

Preoccupazioni crescenti

Il rapporto dell’ispettore generale speciale documenta ulteriormente che nel 2022 gli Stati Uniti hanno trasferito 3,5 miliardi di dollari in asset congelati della banca centrale afghana a un fondo con sede in Svizzera, che ora vale quasi 4 miliardi di dollari. Tuttavia, i talebani, ancora non riconosciuti a livello internazionale e sotto sanzioni, non hanno accesso a questi fondi. L’ente di controllo statunitense per la ricostruzione afghana nota che il congelamento ha reso fragile il sistema bancario del paese e ne ha aggravato il collasso economico.

L’ultimo rapporto di supervisione porta alla luce anche un aumento del 40% negli attacchi ISIS-K nel 2024, mentre il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) e i suoi affiliati hanno effettuato più di 640 attacchi, un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Un assalto di dicembre da parte dei militanti del TTP ha ucciso 16 ufficiali della sicurezza nel Waziristan meridionale, spingendo Islamabad ai primi attacchi aerei transfrontalieri contro le forze talebane. Gli attacchi nella provincia di Paktika in Afghanistan hanno ucciso diversi comandanti del TTP e distrutto una struttura di addestramento.

Le valutazioni dell’intelligence suggeriscono che le aree controllate dai talebani fungono da centri operativi per gli estremisti, sollevando timori che l’Afghanistan stia di nuovo diventando un santuario per le organizzazioni terroristiche. Gli scontri di confine tra Pakistan e forze talebane sono aumentati e, in risposta, Islamabad ha deportato centinaia di migliaia di rifugiati afghani. Mentre aumentano le tensioni regionali, i rapporti indicano che i talebani continuano a fornire un passaggio sicuro per i combattenti del TTP, aggiungendosi alle crescenti preoccupazioni sul ruolo del paese nel panorama della sicurezza dell’Asia meridionale.

Ashok Swain, professore di pace e conflitto all’Università di Uppsala, ha sottolineato i legami di lunga data dei talebani con il terrorismo, osservando che queste connessioni rimangono parte integrante dell’identità del gruppo. “Storicamente, la loro identità è profondamente intrecciata con gli atti di terrorismo e la soppressione del dissenso attraverso la violenza”, ha spiegato.

Swain ha aggiunto che c’è scetticismo sulla volontà dei talebani di abbandonare queste tattiche, soprattutto alla luce delle loro recenti azioni. La fiducia, ha detto l’accademico svedese, è subordinata a cambiamenti osservabili nel comportamento per un periodo prolungato, combinati con misure concrete verso l’inclusività, la responsabilità e l’aderenza alle norme internazionali. Senza tali riforme, ha ammonito Swain, i talebani sembrano essere tornati a tattiche che supportano il terrorismo e aggravano i conflitti regionali.

Punto di svolta

La decisione del presidente Donald Trump di congelare gli aiuti esteri degli Stati Uniti per 90 giorni ha aggravato i problemi dell’Afghanistan, con le agenzie di soccorso che hanno avvertito che potrebbe spingere milioni di persone ancora più in profondità nella crisi. Mentre la sospensione è pensata per rivalutare la spesa, rischia di paralizzare gli sforzi di aiuto in Afghanistan, dove l’economia è già in caduta libera. L’ONU ha avvertito che un congelamento prolungato potrebbe innescare una carestia di massa e il crollo dei servizi di base. Secondo l’ultima valutazione del SIGAR, circa 16,8 milioni di afghani hanno bisogno di assistenza urgente. Tuttavia, le restrizioni imposte dai talebani continuano a bloccare la distribuzione degli aiuti, peggiorando la carenza di cibo e mettendo a dura prova l’assistenza sanitaria. Gli ospedali, ha avvertito il rapporto, stanno esaurendo le scorte, la malnutrizione infantile è in aumento e la diminuzione dell’accesso all’acqua pulita sta alimentando la diffusione delle malattie.

“Il congelamento degli aiuti statunitensi acuirà le divisioni all’interno dei talebani, peggiorerà la crisi umanitaria e accrescerà la minaccia di attacchi da parte di gruppi terroristici attivi”, ha ammonito Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center.

Nel complesso, il rapporto trimestrale del SIGAR dipinge un quadro desolante del futuro dell’Afghanistan sotto i talebani. Nel suo documento di 133 pagine, l’ente di controllo statunitense evidenzia la priorità del regime al controllo sulla governance, con scarsa attenzione alla ricostruzione del paese o al miglioramento delle condizioni di vita della sua gente. “I talebani non hanno mostrato alcuna capacità, o volontà, di governare in modo efficace”, afferma il rapporto, aggiungendo che la situazione rimane di repressione, fame e incertezza.

Herat: i dipendenti delle NU devono farsi crescere la barba

Afghanistan International, 18 dicembre 2024

Mentre l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nel suo Report di novembre 2024 – di cui una sintesi nell’articolo – segnala i notevoli impedimenti e le restrizioni che i funzionari talebani pongono alle operazioni umanitarie dell’Onu, fonti interne a questo ente hanno comunicato ad AMU TV che il Dipartimento vizi e virtù di Herat ha ordinato ai dipendenti maschi delle Nazioni Unite di astenersi dal presentarsi al lavoro senza barba, pena la reclusione

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha segnalato che nel mese di novembre di quest’anno sono state registrate 164 interruzioni degli aiuti in Afghanistan, con un aumento del 56% rispetto al mese precedente.

L’OCHA ha aggiunto che il 99% di questi interventi è stato attuato da funzionari talebani.

Mercoledì (18 dicembre) l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (OCHA) ha pubblicato un nuovo rapporto sugli ostacoli all’accesso umanitario in Afghanistan a novembre.

Il rapporto afferma che le restrizioni di accesso hanno portato alla sospensione temporanea di 72 progetti umanitari e alla chiusura definitiva di due progetti, mentre anche un centro umanitario è stato temporaneamente chiuso durante questo periodo.

L’OCHA ha aggiunto che questi incidenti si sono verificati principalmente nelle regioni meridionali, centrali e occidentali. Le statistiche mostrano che questi casi sono aumentati del 56% rispetto al mese precedente e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Secondo il rapporto, durante questo periodo sono stati registrati casi di interruzione di interventi pianificati, richieste di un elenco di dipendenti e di informazioni sensibili, interferenze nel processo di reclutamento, restrizioni alla copertura delle dipendenti e impedimento alle donne di accedere ai servizi.

Il rapporto mostra inoltre che la violenza contro il personale, le proprietà e le strutture umanitarie è aumentata del 37%, con sei membri dello staff arrestati, due casi di violenza fisica e quattro casi di minacce segnalati il ​​mese scorso.

L’ONU ha aggiunto che queste restrizioni sono state di ostacolo alla fornitura di aiuti umanitari.

Già in precedenza erano circolate segnalazioni di interferenze dei talebani negli affari degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. A questo proposito, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) aveva annunciato che i talebani avevano arrestato 113 dipendenti dell’organizzazione nella prima metà del 2023.