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Autore: CisdaETS

I talebani vietano gli scacchi: un segnale tremendo. Di cosa hanno paura?

Nicolò Carnimeo, Il fatto quotidiano, 13 maggio 2025

Quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove

In Afghanistan, gli scacchi sono stati vietati. Sì, avete letto bene: vietati. Il portavoce del dipartimento dello sport del governo talebano, Atal Mashwani, ha detto che ci sono “considerazioni religiose” che impediscono di giocare a scacchi. “Secondo la sharia,” ha spiegato, “gli scacchi sono un mezzo di gioco d’azzardo”. Dunque, illegali. Dunque, immorali. Dunque, sospesi fino a nuovo ordine.

Ora, io gioco a scacchi. Non bene, forse. Ma gioco. E non scommetto denaro, né credo di offendere alcun Dio mentre lo faccio. Solo, quando muovo il cavallo, quando penso a una difesa siciliana o sogno un arrocco, sento che la mia mente si muove. Si sveglia. Elabora. Soppesa. E in un paese come l’Afghanistan, dove il silenzio è spesso figlio della paura e la libertà è già stata calpestata sotto i piedi nudi dell’ortodossia, vietare un gioco come questo non è un fatto minore. È un segnale tremendo.

Perché gli scacchi sono più di un gioco. Sono una forma di pensiero. Una geometria dell’immaginazione. Una palestra della mente. E quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove.

C’è qualcosa di profondamente tragico in quell’immagine raccontata alle agenzie di stampa da Azizullah Gulzada, proprietario di un bar di Kabul dove si giocava a scacchi davanti a una tazza di tè. Dice: “I giovani non hanno molte attività oggi. Venivano qui ogni giorno, sfidavano gli amici. Non si è mai giocato d’azzardo”. E invece adesso no. La torre resta ferma. Il pedone è muto. Il re giace abbattuto su una scacchiera polverosa.

⁠ Ci sono battaglie che si combattono senza sparare un colpo. E ci sono divieti che colpiscono più in profondità delle armi. Non si tratta solo di religione, sia chiaro. In molti paesi islamici gli scacchi sono praticati liberamente, anche con entusiasmo. Non è scritto nel Corano che siano vietati. Alcuni studiosi medievali li difesero. Ma si sa, i talebani preferiscono interpretare la fede come una gabbia, non come una strada. E allora mi viene da chiedere: di cosa hanno paura? Del fatto che un bambino possa imparare a pensare dieci mosse avanti? Che una ragazzo possa comprendere che per arrivare alla regina bisogna rischiare, avanzare, osare?

L’anno scorso avevano già vietato le arti marziali miste. Troppo violente, dicevano. Ma evidentemente la verità è che tutto ciò che mette il corpo in movimento o l’intelligenza in discussione li terrorizza. Così hanno iniziato a cancellare ogni sport, ogni danza, ogni voce. Ora tocca alla mente. Ma la mente, si sa, è difficile da spegnere. Anche quando le luci si abbassano e le parole diventano sussurri, anche allora qualcuno, in un angolo, muove un pedone in silenzio. E ogni mossa, anche la più umile, può aprire la strada a una rivincita del pensiero.

Un giorno, spero, in una Kabul libera, un bambino e una bambina siederanno davanti a una scacchiera e, con un sorriso, diranno: “Scacco al re”.

Omicidi in uniforme: le forze speciali britanniche e i loro massacri in Afghanistan

Iain Overton, Byline Times, 15 maggio 2025

Una nuova indagine rivoluzionaria ha svelato la terrificante portata degli omicidi illegali commessi dalle Forze speciali britanniche durante l’occupazione dell’Afghanistan

C’è qualcosa di marcio nel cuore della mitologia militare britannica. Per anni, politici e generali hanno avvolto lo Special Air Service (SAS) e i suoi reggimenti affini nel manto di teflon dell’onore, del sacrificio e della segretezza. Ma i miti hanno la tendenza a sgretolarsi, e questo sta rapidamente accadendo. E ciò che emerge, come rivelato da un’inchiesta pluriennale della BBC Panorama e dal lavoro parallelo della mia organizzazione benefica Action on Armed Violence (AOAV), non è l’eroica professionalità dei guerrieri d’élite, è qualcosa di molto più oscuro.

È il corpo di un bambino, ammanettato e colpito alla testa.

E’ il conteggio delle uccisioni compiute da uomini che sembravano provare piacere nello spargimento di sangue.

Sono le armi piazzate, i resoconti falsificati, i filmati mai guardati, i server cancellati.

Si tratta, senza mezzi termini, di omicidio. E commesso in nostro nome.

Per chi di noi ha trascorso anni a documentare i costi civili della guerra al terrorismo, queste recenti accuse – contenute nell’eccezionale film di Panorama “Special Forces: I saw war crimes” – confermano ciò che molti sospettavano da tempo. Che le Forze Speciali britanniche abbiano quasi certamente condotto una campagna di esecuzioni extragiudiziali in Afghanistan impunemente. E che il sistema giudiziario militare creato per contenerle abbia fallito catastroficamente. Peggio ancora, potrebbe persino aver contribuito a coprirne le tracce.

Tutti sapevano

Non si tratta della cattiva condotta di poche “mele marce”, né di confusione sul campo di battaglia. Le testimonianze trasmesse da Panorama – tratte da interviste con oltre 30 ex soldati, ufficiali dell’intelligence e addetti ai lavori – rivelano illeciti sistematici. Operazioni in cui “tutti sapevano cosa stava succedendo”, attacchi in cui i detenuti venivano giustiziati, raid in cui venivano uccisi bambini e missioni in cui questi atti venivano registrati, non per accertare le responsabilità ma, a quanto pare, come trofei.

La rivelazione più scioccante potrebbe non essere l’omicidio in sé, ma quante persone lo sapevano. Lo sapevano e hanno taciuto. O peggio, lo sapevano e hanno permesso che accadesse.

Ufficiali comandanti. Consulenti legali. Ministri. Persino, a quanto pare, un ex Primo Ministro.

Erano stati avvertiti. Eppure non hanno fatto nulla.

Ciò che emerge è invece una coreografia di occultamento.

Manovre legali per bloccare le indagini, manipolazione del linguaggio ufficiale per restare all’interno delle “regole di ingaggio””, rifiuto di consegnare le prove e la sconvolgente rivelazione che alle Forze Speciali è stato concesso un veto segreto sulle richieste di asilo nel Regno Unito da parte di soldati afghani che avevano assistito in prima persona a queste uccisioni.

Questo veto, in particolare, rivela una depravazione morale in contrasto con l’immagine della Gran Bretagna come nazione di legge e ordine.

L’idea che alcuni dei “Triples” – forze speciali afghane che hanno combattuto e sanguinato al fianco delle truppe britanniche – siano stati lasciati indietro per essere torturati o uccisi dai talebani non perché rappresentassero un rischio per la sicurezza ma perché erano testimoni, dovrebbe essere una ferita nella psiche nazionale. Dovrebbe perseguitare ogni funzionario che ha firmato quei dinieghi. Dovrebbe perseguitare il Ministero della Difesa.

Queste non sono  accuse di semplice cattiva condotta, sono dettagliate accuse di crimini di guerra. Questa frase ha un peso e definisce  una soglia legale inequivocabile. L’uccisione di detenuti feriti, l’esecuzione di uomini disarmati, l’omicidio di bambini: queste non sono azioni di guerra, sono crimini.

Serrare i ranghi

Eppure, la risposta dello Stato britannico è stata quella di serrare i ranghi. L’Operazione Northmoor, l’indagine della Royal Military Police su 52 omicidi sospetti, è stata archiviata senza che le prove chiave filmate fossero esaminate. I testimoni oculari sono stati intimiditi o ignorati. Gli stessi avvocati del Ministero della Difesa hanno ingannato i tribunali. Personaggi di spicco, tra cui ex capi dell’Esercito e delle Forze Speciali britanniche, si sono rifiutati di rilasciare dichiarazioni.

Al contrario, il Ministero ha insistito sul fatto di “collaborare pienamente” con l’Inchiesta indipendente sull’Afghanistan. Questo può essere vero nella lettera. Ma nello spirito? Lo spirito di tale cooperazione assomiglia molto a un’ostruzionismo. E le uccisioni sono continuate ancora.

Dal 2006 a oltre il 2013, le Forze Speciali britanniche hanno trasformato la guerra in un gioco di numeri, dove le vite umane venivano ridotte a metriche e il “successo” di una missione si misurava in cadaveri. Solo nel 2010, uno squadrone SAS ha totalizzato una media di 2,7 uccisioni per raid.

C’è  un’altra violenza silenziosa nel modo in cui il Ministero della Difesa respinge le testimonianze afghane – come se le vite afghane fossero vite inferiori, il dolore afghano un dolore inferiore. Anche questo è parte del problema. Perché i crimini di guerra non esistono nel vuoto: prosperano in culture di impunità, razzismo e disprezzo per le regole che dovrebbero vincolarci.

E quindi, dovremmo unire le nostre voci alle richieste di giustizia – non solo per i morti, ma per i vivi che li ricordano, per le famiglie che ancora aspettano la verità, per gli afghani a cui è stato negato un rifugio sicuro,  per i soldati britannici che sono rimasti in silenzio per troppo tempo e che ora vorrebbero espiare.

Non ci si faccia illusioni: ciò che Panorama e AOAV hanno contribuito a svelare nel corso degli anni non è solo uno scandalo: è una resa dei conti. E se lo Stato britannico non riuscirà ad affrontarla, non solo disonorerà i morti, ma disonorerà se stesso.

Iain Overton è il direttore esecutivo dell’organizzazione benefica Action On Armed Violence
Byline Times è un giornale investigativo indipendente, finanziato dai lettori, al di fuori del sistema della stampa consolidata, che riporta “ciò che i giornali non dicono” – senza paura o favoritismi.

Il PKK depone le armi: svolta storica in Turchia

Murat Cinar, Gariwo Mag, 14 maggio 2025

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK, fondato nel 1978, ha dichiarato la fine della lotta armata il 12 maggio, in seguito al dodicesimo congresso che si è svolto dal 5 al 7 dello stesso mese. “Saranno cessate tutte le attività svolte con questa sigla” è la frase presente nel comunicato stampa che annuncia la fine dell’esperienza della lotta per la rivendicazione del diritto all’esistere del popolo curdo.

Come ci siamo arrivatə?

Un nuovo percorso di dialogo, iniziato nel mese di ottobre del 2024, oggi compie un passo molto importante. Lo storico appello di Devlet Bahçeli, il leader del Partito del Movimento Nazionalista, MHP, componente della coalizione di governo, era entrato al centro dell’attenzione mondiale. Bahçeli, secondo le sue parole, con l’intento di creare un’unità nazionale e affrontare i futuri scenari pericolosi nel Medio Oriente, aveva invitato Abdullah Öcalan a lanciare un appello storico. Bahçeli, in quest’appello, chiedeva a Öcalan di invitare la sua organizzazione, il PKK, a dichiarare lo scioglimento e a deporre le armi. Secondo Bahçeli, sarebbe stato un passo importante per porre fine a questo storico conflitto.

Poche settimane dopo, il leader storico del PKK, ossia Öcalan, tramite suo nipote Ömer Öcalan, deputato nazionale, aveva dato un primo riscontro positivo. Successivamente, dopo anni, si era recata sull’isola una delegazione parlamentare composta da due parlamentari d’opposizione del partito DEM, che ha incontrato l’ergastolano Öcalan sull’isola di İmralı, dove è rinchiuso da più di vent’anni. Anche in quest’occasione, Öcalan si era dimostrato disponibile.

Fino al 27 febbraio 2025, dietro e davanti le quinte, è stato portato avanti un percorso di dialogo e, molto probabilmente, di trattative. Mentre il governo centrale in Turchia premeva per ottenere la dichiarazione storica dal PKK, l’organizzazione chiedeva una serie di garanzie: basi giuridiche e politiche per il futuro e miglioramenti delle condizioni penitenziarie di Öcalan.

Nel frattempo, la delegazione parlamentare, che ha incontrato Öcalan tre volte, ha incontrato anche i leader dei partiti politici rappresentati nel parlamento nazionale, il Ministro della Giustizia e il Presidente della Repubblica. Così, il 27 febbraio è stata letta pubblicamente la lettera di Abdullah Öcalan, che invitava la sua organizzazione a prendere questa decisione storica e specificava che l’epoca della lotta armata per uno stato socialista era finita ed era giunto il momento di trasformare la lotta. In chiusura, Öcalan sottolineava anche la necessità di una serie di cambiamenti politici e giuridici per creare le basi di un percorso politico non armato.

Di cosa si tratta esattamente?

Anche se il governo centrale non ha effettuato, nel frattempo e pubblicamente, quei necessari cambiamenti, il 10 maggio il PKK ha annunciato di aver svolto, con difficoltà, il suo congresso e il 12 maggio ha annunciato il suo scioglimento.

La notizia è stata diffusa inizialmente con un comunicato stampa e una serie di fotografie del congresso, e successivamente anche con l’ausilio di materiali audiovisivi e lunghi interventi politici.

Il PKK annuncia la fine della lotta armata, ma anche la trasformazione della stessa in un percorso politico. Invita la cittadinanza a costruire un percorso di lotta che preveda anche la creazione di meccanismi di autodifesa all’interno della società turca. Il comunicato stampa sottolinea la necessità di riconciliazione tra il popolo turco e quello curdo, e anche dell’appoggio delle forze socialiste, democratiche e rivoluzionarie per sostenere questo nuovo percorso. Il PKK specifica che non si tratta di una mossa nuova, per certi versi, visto che anche in passato l’organizzazione aveva avanzato la proposta del dialogo e della pace con lo Stato. Infine, l’organizzazione chiarisce che la lotta per una società socialista si farà attraverso la costruzione di una società democratica, ma non tramite l’obiettivo di fondare uno stato-nazione socialista.

Quest’ultimo punto si sposa con la lettera del 27 febbraio di Öcalan, che comprende una critica nei confronti di una serie di esperienze di lotta socialiste del ’900. Ma soprattutto si sposa con il nuovo paradigma che lo stesso Öcalan propose negli anni ’90 e sviluppò sia prima di essere arrestato sia durante la sua detenzione: ossia la proposta del Confederalismo Democratico, che si basa sul concetto di superare l’obiettivo della fondazione di uno stato socialista curdo. Questo paradigma, piuttosto, punta alla trasformazione della società restando dentro di essa e lavorando, con una serie di attori, per costruire in modo pratico e teorico le basi della trasformazione. Un principio che si fonda anche, in parte, sugli insegnamenti del filosofo Murray Bookchin, che fu una fonte di ispirazione per Öcalan.

E adesso?

Sia il PKK che la Turchia, il suo principale interlocutore nonché uno dei due coordinatori di questo processo, hanno una serie di compiti da svolgere.

Ankara, attraverso le prime dichiarazioni ufficiali, ha specificato che monitorerà i prossimi passaggi e pretende che l’abbandono delle armi si basi su un piano concreto e tracciabile. Inoltre, vari esponenti del governo, forse con l’intento di calmare le anime nazionaliste in Turchia, hanno specificato che non si tratta di un accordo ma di una decisione autonoma dell’organizzazione. Anche se non è una dichiarazione molto credibile e va contro la natura del concetto di dialogo, si tratta di una dichiarazione coerente. Ovvero, il governo centrale in Turchia, sin dall’inizio di questo nuovo percorso, ha sempre sottolineato che si impegna per porre fine al terrorismo e che l’organizzazione non ha altra scelta che sciogliersi. Quindi, come se si trattasse di una vittoria per qualcuno e di una sconfitta per qualcun altro. Infatti, il Presidente della Repubblica, la sera del 12 maggio, ha dichiarato che dedica questo risultato alle madri dei soldati dell’esercito turco morti in questi anni durante gli scontri con il PKK.

Tra le righe, in alcune dichiarazioni, gli esponenti del governo hanno parlato di una nuova Costituzione, quindi rispondendo in qualche maniera alle richieste giuridiche e politiche del PKK. Inoltre, è stata espressa la necessità di introdurre una serie di nuove leggi e del coinvolgimento del Parlamento nazionale nella nuova fase. Anche questi due punti sono in linea con le proposte sia di Öcalan che del PKK.

Invece, l’organizzazione dovrebbe impegnarsi a concretizzare il lavoro di abbandono delle armi, che avverrà attraverso la distruzione o la consegna delle stesse. Ci sarebbe, ovviamente, il capitolo che riguarda l’abbandono delle postazioni attuali nel nord dell’Iraq e la resa dei militanti presenti in Turchia e altrove. Su questi punti, finora non ci sono piani pubblicamente dichiarati, ma molto probabilmente presto ci saranno nuove comunicazioni.

Siamo veramente prontə?

Forse il lavoro più grosso, difficile e lungo da fare è quello del percorso della riconciliazione collettiva. Oggi, per la grande parte della società in Turchia, il PKK è un’organizzazione “terroristica”. Durante la guerra tra l’organizzazione e lo Stato turco sono morte circa 40.000 persone da tutte le parti. Le politiche di negazione e assimilazione hanno legittimato lo status, la percezione e la posizione di coloro che hanno assecondato le politiche dello Stato, ed emarginato ed escluso coloro che hanno provato a pretendere una vita equa e pari con gli altri. Per questa seconda fetta della società, soprattutto curdofona, il PKK, in qualche maniera, ha rappresentato la ribellione, la lotta e anche un riferimento. Quindi, da questo punto di vista, oggi la società in Turchia risulta divisa almeno in due parti. E con questo nuovo percorso è necessario lavorare sull’unificazione delle parti. Un percorso lungo e articolato.

In questo percorso, mentre per qualcuno uno degli attori, il PKK, sarebbe “terrorista”, per una grande parte della società l’altro attore, ossia il governo, non rappresenta fiducia. Oggi, il principale partito al governo, l’AKP, conta circa il 30% del consenso elettorale (Sonar, maggio 2025). Secondo una serie di sondaggi (es. MediaPOLL, marzo 2025), la fiducia in questo nuovo percorso di pace, anche tra gli elettori dell’AKP, è sotto la soglia del 50%. Invece, quando si tratta dei partiti d’opposizione, soltanto il 20 o il 10% degli elettori ritiene che si tratti di un percorso serio e affidabile. Quindi il governo centrale ha un compito molto difficile davanti.

Anche perché si tratta di una formazione politica che governa la Turchia da più di 20 anni e da almeno 12 anni lo fa attraverso strumenti antidemocratici. Il sistema giuridico è totalmente al servizio del potere politico, la libertà di stampa è stata colpita migliaia di volte, i centri penitenziari sono pieni di oppositori (accusati anche di attività terroristica), migliaia di persone hanno lasciato il Paese e vivono in esilio a causa della continua repressione, una serie di leggi sono state cambiate per rafforzare il potere del Presidente della Repubblica e della sua famiglia. La corruzione, la crisi economica e la provata relazione tra il governo e i trafficanti di droga sono solo alcuni elementi che portano le persone a non provare fiducia nei confronti del governo e del processo di pace che egli conduce.

Quindi, con il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, in carcere dal 19 marzo con l’accusa di corruzione, basata unicamente sulle dichiarazioni di testimoni anonimi, con 13 sindaci sospesi e arrestati dopo le elezioni del 2024 e 31 giornalisti in carcere, questo processo, che dovrebbe avere l’ambizione di puntare sulla trasformazione democratica della Turchia, potrebbe avere una strada molto difficile.

Quindi?

Esattamente come suggerirono sia Öcalan che il PKK nel suo comunicato stampa, le anime d’opposizione, le forze democratiche e socialiste potrebbero essere i veri interlocutori di questo processo. Sono loro che oggi in Turchia posseggono il consenso popolare, e sono loro le parti colpite duramente da anni di repressione nella società ad opera del regime autoritario al potere. Infatti, i collettivi, i gruppi politici extraparlamentari, le persone queer, gli aleviti, i difensori dei diritti umani, i partiti d’opposizione che hanno stravinto le elezioni amministrative nel 2019 e nel 2024 sono coloro che lottano e resistono per una Turchia democratica, laica, progressista e aperta all’Europa. Ovviamente, sono loro che da anni scendono in piazza rischiando i manganelli, i lacrimogeni, il linciaggio, la galera, la perdita del lavoro e una vita in esilio.

Quindi, la dichiarazione del 12 maggio lanciata dal PKK, che chiede un capillare cambiamento, potrebbe essere una grande occasione per costruire una nuova Turchia più inclusiva, in cui le forze progressiste del Paese possano condurre un’ondata di cambiamento con l’obiettivo di vincere le elezioni politiche e presidenziali del 2028. Altrimenti, il regime autoritario farà tutto il possibile per polarizzare la società e mantenere la sua poltrona.

“Amina”, l’Afghanistan e l’infanzia femminile negata

Davide Magnisi, TaxiDrivers, 14 maggio 2025

Un’intervista alla regista Serena Tondo, che a Corti in Opera ha presentato il suo debutto alla regia, un recupero della memoria in un Afghanistan tornato in mano ai talebani

Amina, premiato alla settima edizione di Corti in Opera, è una sorprendente opera prima dal respiro internazionale, sia per la storia che racconta sia per un linguaggio cinematografico brillante ed eminentemente visivo. Il cortometraggio racconta un aspetto poco noto della condizione femminile in Afghanistan, quello delle bambine bacha posh: le famiglie senza figli maschi, per evitare discredito sociale, inducono le figlie a vestirsi e comportarsi da ragazzi. Il paradosso di questa femminilità rimossa è che le bacha posh godono di possibilità negate alle altre bambine: come andare a scuola, fare sport, uscire da sole. Arrivata la pubertà, le famiglie costringono le bacha posh a tornare al proprio genere di appartenenza, catapultandole nell’invisibilità domestica, con inevitabili contraccolpi psicologici.

Per raccontarci tutto quello che c’è dietro la storia di Amina, abbiamo intervistato la sua autrice, Serena Tondo

Come hai incontrato la storia di Amina?

Per caso: un giorno stavo navigando su internet e mi è uscita la pubblicità di un libro, Le ragazze segrete di Kabul, di Jenny Norberg, giornalista svedese Premio Pulitzer. Aveva fatto due anni d’inchieste sulla condizione delle donne in Afghanistan e ha scoperto questo fenomeno, di cui non aveva mai sentito parlare. È andata alla ricerca di famiglie che avevano bambine in questa situazione o donne che avevano subito questa trasformazione, raccogliendo molte storie. Lo stupore è che succede ovunque, sia nelle città che nei villaggi, riguarda sia famiglie di Kabul istruite che gente povera e ignorantissima. C’è un approccio diverso, ma permane la crudeltà di questa pratica. Nelle famiglie più colte c’è, magari, una maggiore responsabilità e consapevolezza, mentre nei villaggi non c’è alcuna attenzione a quelle che possono essere le ripercussioni psicologiche sulle bambine una volta che ritornano al proprio genere di appartenenza.

Immagino si sconti una doppia vergogna, in Afghanistan, di fronte a questo fenomeno.

Il problema è stato proprio riuscire a trovare persone disposte a parlarne. Per esempio, c’era una donna di Kabul con una bambina bacha posh perché si era candidata in Parlamento, ma, non avendo figli maschi, avrebbe avuto zero possibilità di essere votata. Poi diceva che voleva anche far vedere a sua figlia cosa significava avere diritti, essere libera e felice. Una situazione complessa.

Quel che accade in Afghanistan è ormai uscito dalla scena d’attenzione dei media, di fronte ad altre emergenze mondiali. Com’è la situazione oggi, in particolare per le donne?

La situazione è drammatica. Ho conosciuto donne afghane arrivate con i corridoi umanitari, mentre facevo il mio periodo di ricerca su questa storia. Hanno dovuto lasciare il Paese perché nella lista nera dopo il ritorno dei talebani: giornaliste, psicologhe, donne colte e libere. Tutte hanno perso il lavoro. Non possono fare più nulla. Sono tornate indietro di vent’anni, anche per colpa nostra. Perché le emergenze mondiali le gestiamo come vogliamo. Decidiamo noi quel che è emergenza o no. Adesso non si vede più nulla dell’Afghanistan. C’era un’apertura maggiore, ma vent’anni sono stati spazzati via in un momento. Alcuni sono riusciti a scappare, ma tanti sono rimasti intrappolati là.

Amina ha una grammatica cinematografica raffinatissima, fatta di contrasti tra buio e colori luminosi, spazi chiusi e aperti, un montaggio delle attrazioni d’alta scuola. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, visivi e cinematografici, per quest’opera?

Il mio tipo di apprendimento è molto intuitivo. Non mi metto a studiare teorie. Girando, ho pensato a registi che apprezzo molto dal punto di vista visivo, Terrence Malick su tutti. Mi piaceva avere quel suo tipo di luminosità nelle scene di giorno. Poi, ovviamente, quando si gira in esterni, dipende dalla fortuna che ti capita con la luce naturale, non avendo la possibilità dei tempi di ripresa di Malick che, delle volte, arrivava sul set, non gli piaceva la luce e andava via. Invece, per i colori più scuri al chiuso, ho pensato a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, a quell’atmosfera, alla sua dimensione in spazi costretti. E poi, in generale, David Lynch. Queste sono le mie visioni. A cui aggiungo il gusto pittorico del cinema di Matteo Garrone in Italia. Per Amina ho scelto dei colori di fondo che, secondo me, potevano essere giusti, come il viola.

Quanto è stato complicato realizzare Amina? Penso anche alla grande cura nei costumi e la fotografia, oltre a un casting non in lingua italiana.

La protagonista del cortometraggio è la figlia di una psicologa fuggita dall’Afghanistan, che ho incontrato e mi ha fatto da consulente. Mi ha spiegato tantissime cose sul quel Paese. Per il film aspettavo la sua approvazione su tutto, anche come andasse posizionato un bicchiere. Io stavo impazzendo per trovare la protagonista: una bambina che sembrasse non tanto femmina, che sapesse recitare, che fosse afghana o anche italiana, ma che poi dovesse parlare in pashto. Avevo visto tante bambine. E lei, un giorno, dopo settimane che ne stavamo discutendo, mi ha detto: «Io ho una figlia, ti posso mandare una foto». Quando l’ho guardata, ho capito che era lei. Mi chiedevo, però, se fosse in grado di recitare: si è rivelata bravissima, soprattutto considerando la situazione. Noi non comunicavamo direttamente, avevamo un interprete, quindi per lei era ancora più difficile: una bambina di 13 anni, catapultata su un set con una regista che non capisce… Ho anche scoperto, mentre le tagliavamo i capelli, che aveva un’alopecia da stress. Il trauma nasceva dal fatto che lei, quando è scappata con la famiglia, è stata fermata al confine con il Pakistan e hanno puntato una pistola contro la testa del padre, proprio come si vede nel film. Ci sono tante storie di persone che sono arrivate lì e poi sono state rimandate indietro. Arrivati al confine con il Pakistan, i profughi scappano attraverso strade secondarie, pagando il viaggio, ovviamente. Quello è il punto più critico da attraversare. Tutti i costumi li abbiamo cuciti per l’occasione, con dei modelli che ho scelto sempre insieme alla consulente afghana.

E per il resto del cast? Sono tutti volti molto veri.

Per il casting degli altri ragazzi, c’erano due afghani, che erano appena arrivati in Italia, e poi alcuni rom. A me piace avere a che fare con gente un po’ ai margini. A Lecce c’è Campo Panareo, uno dei più grandi campi rom d’Italia. Visivamente sono molto simili agli afghani. E poi sono svelti d’intelligenza. I ragazzini rom sembrano avere un’esperienza da farli apparire dieci anni più grandi dei loro coetanei. È stato facile per loro imparare le battute in pashto, merito dell’interprete. Poi c’è anche qualche italiano, ma ho cercato il più possibile di coinvolgere profughi arrivati da poco. Non era solo un’esigenza di realismo, mi piaceva l’idea che per loro sarebbe stato un modo di sentirsi utili. Quando perdi tutto e arrivi in un luogo lontano, offrire la possibilità di raccontare una storia come questa, che stessero facendo qualcosa per il loro Paese, per quanto piccolo potesse essere come contributo, ha fatto sì che tutti abbiano accettato con grande entusiasmo. Mi hanno aiutato tantissimo.

In Amina non si parla molto, è un cinema totalmente visivo.

Sì, non ho mai immaginato un film denso di parole. Secondo me, la storia doveva arrivare visivamente allo spettatore, parlare soprattutto con le immagini.

Dove avete girato?

In Puglia. Siamo stati parecchio in giro per trovare i luoghi giusti. È stato difficile trovare i posti all’aperto che potessero rievocare quegli spazi lontani. La scena della partita di pallone, per esempio, è ambientata in una cava tra Avetrana e Manduria. La dimora di Amina è una casa abbandonata in campagna dell’organizzatore generale del film, che ci aveva fatto vedere mille posti che non andavano bene, poi si è ricordato di questa vecchia casa di famiglia dove non c’era nulla intorno

Tu hai cominciato nel cinema come attrice e fai una piccola parte anche in Amina, di cui sei autrice del soggetto e della sceneggiatura, oltre che regista. Cosa ti affascina di più della macchina cinema e che cosa un ruolo dà all’altro?

Per quella che è la mia formazione del mestiere d’attrice, qualcosa che non si definisce mai, ma una ricerca continua, la cosa che più mi piace è il fatto che tu vivi su di te il personaggio. È qualcosa che parte da fuori, arriva dentro di te e poi riesce fuori. Dal punto di vista registico, il percorso è opposto. Nel senso che non esiste niente, un testo, una storia, solo degli spunti, e il personaggio lo devi creare tu. Viene da dentro di te, si forma raccogliendo piccoli pezzi, ma non sei limitato da un testo già esistente: quando fai l’attrice, se il tuo personaggio è Giulietta, sai benissimo chi sei e che farai, non puoi uscire da quel seminato. Invece, quando crei un personaggio, hai libertà. Io ho cominciato a scrivere Amina dopo aver conosciuto degli afghani. Si parte da atmosfere e poi crei dalla tua testa. Sono un po’ processi opposti. Dell’attrice mi piace che prendi qualcosa che è stato scritto da qualcun altro e lo fai tuo. Quello che invece mi piace della scrittura è la magia di qualcosa che nasce nella tua testa e poi diventa vera.

Amina è anche un film sulla memoria. È in gran parte costruito su flashback.

Io sono una persona molto nostalgica e ho un rapporto molto forte con il passato. Non riesco a staccarmi da alcuni ricordi, che condizionano il mio presente. Mi rendo conto che, anche nel lavoro cinematografico, tendo sempre ad andare verso questo, a strutturarlo come sono fatta io.

Hai portato Amina in vari Festival. Qual è stata la reazione del pubblico?

Al di là del giudizio sul film, quello che sento sempre è che nessuno conosceva questa storia. Non mi meraviglia, neanch’io sapevo nulla, avendola pescata così su internet, mi rendevo conto di essere una delle poche persone a conoscerla. Ho notato anche che, soprattutto le donne, di qualunque età, rimangono particolarmente scosse. Le reazioni e le riflessioni più articolate, più profonde, le ho sempre avute dal pubblico femminile. È quello che ha empatizzato di più con questa storia.

Non a caso, l’immagine in qualche modo centrale del film, punto di svolta narrativo, è quando Amina scopre, tra l’altro pubblicamente, di avere il ciclo mestruale. È una rivelazione anche archetipica dell’essere donna. La scoperta di una specifica fisicità.

È, infatti, un passaggio che tutte ricordiamo. Non credo ci sia una donna che non rammenti dove stesse quando ha avuto per la prima volta il ciclo. Quello credo sia, probabilmente, il punto di connessione che trovano tutte le donne quando guardano questo film. Particolarmente in questo caso diventa una rivelazione a te stessa e al mondo. Tieni presente che, in Afghanistan, non si parla mai di mestruazioni. La prima volta che una bambina ha il ciclo, veramente non sa cosa stia succedendo. Qui in Occidente, in qualche modo, siamo preparate. Io lo sapevo che mi doveva succedere. Con le amiche, i genitori, si parla. Ma loro no, perché è un tabù talmente grande, che tu hai il doppio trauma di non capire cosa ti sta accadendo. Tanto più in una situazione come quella di Amina, non sai quale sarà la portata sociale di quello che ti sta succedendo.

Vincere un premio nella propria terra, qui a Corti in Opera, in Puglia, immagino abbia un significato speciale.

È la cosa che mi fa più piacere in assoluto, perché io ho un rapporto strano con questa terra. Di natura mi sono sempre sentita cosmopolita, non ho un attaccamento da tifoseria alla mia Puglia. Riesco a essere abbastanza obiettiva su cosa mi piace e cosa no. Amina è girato in Puglia, ma racconto di un luogo lontano perché, fin da piccola, sono sempre stata curiosa dell’altrove. La gente parte dal presupposto che la propria terra sia sempre la migliore, io lo vedo come un atteggiamento che impedisce di aprirsi veramente agli altri. Io volevo viaggiare, conoscere, vedere, mi affascina sempre molto. Però rimango male quando, nella mia terra, quello che faccio non viene riconosciuto. Per cui sono felice di essere qui a rappresentare la mia regione, nel mio piccolo, con un’opera, come dicevi tu prima, dal respiro internazionale.

Hai già degli altri progetti cinematografici di cui ci puoi e ci vuoi parlare?

Sì, mi sto avventurando nella scrittura di un lungometraggio, partendo dalla mia personale condizione di persona affetta da epilessia. Sono stata perfettamente sana fino a 22 anni, poi ho iniziato ad avere queste problematiche. Non è stato un processo di accettazione facile. Mi ci è voluto un po’ per metabolizzare questa cosa. Per fortuna non è una forma severa, però porta comunque delle difficoltà. Di epilessia non si parla molto. Ho deciso di utilizzare questo spunto insieme a un mio grande amico e geniale autore, Alessandro Valenti. Ho iniziato a ragionarci, immaginare, e adesso sto elaborando una commedia, perché non voglio fare cose smielate, retoriche. Sarà un film sullo sport e l’epilessia. Certo, con i tempi del cinema italiano, sarà forse pronto tra dieci anni. Però non mollo!

12 ° Congresso del PKK: le attività sotto il nome del PKK sono terminate

ANF, 12 maggio 2025

È stata pubblicata la dichiarazione finale del 12° Congresso del PKK. Il congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e di porre fine alla lotta armata, concludendo di fatto tutte le attività svolte sotto il suo controllo

Il Consiglio del 12° Congresso del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Il processo avviato dalla dichiarazione del leader Abdullah Öcalan del 27 febbraio, e ulteriormente plasmato dal suo ampio lavoro e dalle sue prospettive multidimensionali, è culminato nella convocazione con successo del nostro 12° Congresso del Partito tra il 5 e il 7 maggio.

Per i continui scontri, gli attacchi aerei e terrestri, il continuo assedio delle nostre regioni e l’embargo del Partito Democratico (PDK), il nostro congresso si è svolto in condizioni di sicurezza difficili. Per motivi di sicurezza, si è svolto contemporaneamente in due sedi diverse. Con la partecipazione di 232 delegati in totale, il XII Congresso del PKK ha discusso di leadership, martiri, veterani, struttura organizzativa del PKK e lotta armata, e costruzione di una società democratica, culminando in decisioni storiche che segnano l’inizio di una nuova era per il nostro Movimento per la Libertà.

Concluse tutte le attività sotto il nome del PKK

Il XII Congresso Straordinario ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica democratica. Ha concluso che il PKK ha adempiuto alla sua missione storica. Sulla base di ciò, il XII Congresso ha deliberato di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e porre fine alla lotta armata, affidando la gestione e la guida del processo di attuazione al Leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività condotte sotto il nome del PKK sono pertanto concluse.

Il nostro partito, il PKK, è emerso come movimento di liberazione curdo in opposizione alle politiche di negazione e annientamento radicate nel Trattato di Losanna e nella Costituzione del 1924. Influenzato fin dalla sua nascita dal socialismo reale, ha abbracciato il principio dell’autodeterminazione nazionale e ha condotto una lotta legittima e giusta attraverso la resistenza armata. Il PKK si è formato in condizioni dominate da aggressive politiche curde di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione.

Dal 1978, il PKK ha condotto una lotta per la libertà volta a ottenere il riconoscimento dell’esistenza curda e a far sì che la questione curda diventasse una realtà fondamentale della Turchia. Grazie a questa lotta vittoriosa, il nostro movimento ha realizzato una rivoluzione di resurrezione per il nostro popolo, diventando un simbolo di speranza e di vita dignitosa per i popoli della regione.

Durante gli anni ’90, un periodo di grandi conquiste per il nostro popolo, il presidente turco Turgut Özal iniziò a cercare una soluzione politica alla questione curda. In risposta, il leader Apo dichiarò un cessate il fuoco il 17 marzo 1993, dando il via a una nuova fase. Tuttavia, il crollo del socialismo reale, l’imposizione di tattiche da gangster alla nostra strategia di guerra e l’eliminazione di Özal e della sua squadra da parte dello stato profondo sabotarono questa iniziativa. Lo stato intensificò le sue politiche di negazione e annientamento, inasprendo la guerra. Migliaia di villaggi furono evacuati e incendiati; milioni di curdi furono sfollati; decine di migliaia furono torturati e imprigionati; e migliaia furono uccisi in circostanze sospette.

In risposta, il Movimento per la Libertà crebbe sia in termini di dimensioni che di capacità. La guerriglia si diffuse in Kurdistan e Turchia. L’impatto della lotta di guerriglia spinse il popolo curdo a sollevarsi in rivolte di massa (serhildan), trasformando la guerra nell’opzione principale per entrambe le parti. La conseguente reciproca escalation bellica non poté essere invertita e gli sforzi del leader Apo per risolvere la questione curda con mezzi democratici e pacifici alla fine fallirono.

Ricostruire le relazioni turco-curde è inevitabile

Il processo entrò in una fase diversa con la cospirazione internazionale del 15 febbraio 1999. In questo processo, uno degli obiettivi principali della cospirazione, una guerra curdo-turca, fu impedito grazie ai grandi sacrifici e agli sforzi del leader Apo. Nonostante fosse stato detenuto nel sistema di tortura e genocidio di Imralı, persistette nel cercare una soluzione democratica e pacifica alla questione curda. Per 27 anni, il leader Apo si è opposto al sistema di annientamento di Imralı, vanificando la cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle donne. In questo modo, ha concretizzato un sistema di libertà alternativo per il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa.

Il leader Apo, pensando al periodo precedente al Trattato di Losanna e alla Costituzione del 1924, in cui le relazioni curdo-turche divennero problematiche, propose un quadro per la risoluzione della questione curda basato sulla Repubblica Democratica di Turchia e sul concetto di Nazione Democratica, fondato sull’idea di una Patria Comune e di popoli co-fondatori. Le rivolte curde nel corso della storia della Repubblica, la dialettica curdo-turca lunga 1000 anni e i 52 anni di lotta per la leadership hanno dimostrato che la questione curda può essere risolta solo sulla base di una Patria Comune e di una cittadinanza paritaria. Gli attuali sviluppi in Medio Oriente, nell’ambito della Terza Guerra Mondiale, rendono inoltre inevitabile la ristrutturazione delle relazioni curdo-turche.

Il nostro popolo comprenderà meglio di chiunque altro lo scioglimento del PKK e la fine della lotta armata e abbraccerà i doveri di questa era

Il nostro onorato popolo, che ha aderito alla leadership e al percorso del PKK per 52 anni pagando un caro prezzo, opponendosi a politiche di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione, sosterrà il processo di pace e di una società democratica in modo più consapevole e organizzato. Crediamo fermamente che il nostro popolo comprenderà la decisione di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata meglio di chiunque altro e che si assumerà le responsabilità dell’era della lotta democratica basata sulla costruzione di una società democratica. È di vitale importanza che il nostro popolo, guidato da donne e giovani, costruisca le proprie auto-organizzazioni in tutti gli ambiti della vita, si organizzi sulla base dell’autosufficienza attraverso la propria lingua, identità e cultura, si autodifenda di fronte agli attacchi e costruisca una società democratica comunitaria con spirito di mobilitazione. Su questa base, crediamo che i partiti politici curdi, le organizzazioni democratiche e i leader d’opinione adempiranno alle loro responsabilità per promuovere la democrazia curda e la nazione democratica dei curdi.

Grazie all’eredità della nostra storia di libertà, lotta e resistenza, e alle decisioni del XII Congresso del PKK, il percorso politico democratico si svilupperà con maggiore forza e il futuro dei nostri popoli progredirà sulla base di libertà e uguaglianza. I poveri e i lavoratori, tutti i gruppi religiosi, le donne e i giovani, i lavoratori, i contadini e tutti gli esclusi rivendicheranno i propri diritti e svilupperanno una vita comune in un ambiente giusto e democratico.

Invitiamo tutti ad unirsi al processo di pace e di società democratica

La decisione del nostro Congresso di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata offre una solida base per una pace duratura e una soluzione democratica. L’attuazione di queste decisioni richiede che il Leader Apo accompagni e guidi il processo, che il suo diritto alla politica democratica sia riconosciuto e che vengano stabilite solide e complete garanzie legali. In questa fase, è essenziale che la Grande Assemblea Nazionale della Turchia svolga il suo ruolo con responsabilità storica. Allo stesso modo, invitiamo il governo, il principale partito di opposizione, tutti i partiti politici rappresentati in parlamento, le organizzazioni della società civile, le comunità religiose e di fede, i media democratici, i leader di opinione, gli intellettuali, gli accademici, gli artisti, i sindacati, le organizzazioni femminili e giovanili e i movimenti ecologisti ad assumersi le proprie responsabilità e a unirsi al processo di pace e di una società democratica.

Il coinvolgimento delle forze socialiste di sinistra turche, delle strutture rivoluzionarie, delle organizzazioni e degli individui nel processo di pace e di una società democratica eleverà la lotta dei popoli, delle donne e degli oppressi a un nuovo livello. Ciò significherà il raggiungimento degli obiettivi dei grandi rivoluzionari le cui ultime parole furono: “Lunga vita alla fratellanza dei popoli turco e curdo e a una Turchia pienamente indipendente!”.

Con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel processo di pace e di società democratica e nella lotta per il socialismo, il movimento democratico globale progredirà e un mondo giusto ed equo emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modernità democratica.

Invitiamo le potenze internazionali a riconoscere le proprie responsabilità nelle politiche di genocidio perpetrate contro il nostro popolo nel corso di un secolo, a non ostacolare una soluzione democratica e a contribuire in modo costruttivo al processo.

Annunciamo il martirio di Ali Haydar Kaytan e Riza Altun

Il nostro 12° Congresso del PKK, convocato su appello della nostra leadership, ha proclamato il martirio di Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti del nostro partito, martirizzato il 3 luglio 2018, e del compagno Riza Altun, martirizzato il 25 settembre 2019. Su questa base, ha riconosciuto il compagno Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti fondatori del PKK, come simbolo di “Lealtà al Leader, Verità e Vita Sacra”, e il compagno Riza Altun, uno dei primi compagni del Leader Apo, come simbolo di “Cameratismo per la Libertà”. Dedichiamo il nostro storico 12° Congresso del Partito a questi due grandi compagni martiri che ci hanno guidato dall’inizio del nostro Movimento per la Libertà fino a oggi con la loro lotta ininterrotta. In loro nome rinnoviamo la nostra promessa a tutti i martiri della lotta e affermiamo il nostro impegno a realizzare i sogni della compagna martire della pace e della democrazia Sırrı Süreyya Önder.

L’«ultimo» congresso, il Pkk verso lo scioglimento

Il Manifesto, 10 maggio 2025

Kurdistan Il Partito dei Lavoratori rispetta la volontà di Ocalan e si riunisce per decretare il proprio futuro. Il fondatore avrebbe partecipato in video. Il partito Dem: «Non è una fine ma un nuovo inizio»

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) ha annunciato, con una dichiarazione ufficiale diffusa venerdì, la conclusione del suo 12° congresso, tenutosi tra il 5 e il 7 maggio nelle Zone di Difesa di Medya, aree controllate dalla guerriglia curda nella Regione del Kurdistan in Iraq.

Il congresso era stato esplicitamente richiesto da Abdullah Öcalan nel suo appello del 27 febbraio in cui chiedeva di procedere allo scioglimento del partito, evento culminante di un processo iniziato il 28 dicembre 2024, quando una delegazione del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (Dem), composta dai parlamentari Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, aveva incontrato Öcalan nell’isola-prigione di Imralı, a nove anni dal collasso degli ultimi negoziati tra Stato turco e Pkk.

Parallelamente agli incontri di Imralı, la delegazione Dem ha tenuto negli ultimi mesi colloqui con quasi tutte le forze politiche e sociali in Turchia e con il ministero della giustizia, apparentemente per discutere della situazione di Öcalan e di una possibile amnistia generale.

NONOSTANTE gli sforzi di Dem, le dichiarazioni del governo e del Pkk sembravano suggerire uno stallo nei negoziati: il partito curdo accusava lo Stato turco di non permettere il congresso, continuando a effettuare attacchi contro le aree controllate dalla guerriglia curda nonostante un cessate il fuoco unilaterale annunciato dal Pkk. D’altra parte, alcuni esponenti dello Stato turco accusavano il partito curdo di non voler rispondere all’appello di Öcalan, interpretandolo come un appello alla resa immediata e incondizionata.

«Decenni di esperienze dolorose ci hanno insegnato che il dolore non ha colore, lingua o identità. Oggi, le lacrime di turchi, curdi, circassi, arabi, aleviti, sunniti e di tutte le altre identità e credenze si sono unite nello stesso mare – ha scritto il partito Dem in un lungo comunicato – Portiamo il nostro dolore condiviso nel cuore; custodiremo la memoria di tutti i caduti come un impegno sacro e costruiremo il nostro futuro comune».

Dem ha definito il congresso «una delle più significative svolte della storia recente della Turchia» e ha esortato tutte le istituzioni democratiche, in primis la Grande Assemblea nazionale turca, ad assumersi la responsabilità storica di risolvere la questione curda e democratizzare il paese. Nel comunicato, Dem ha ringraziato alcune figure politiche chiave, a partire da Abdullah Öcalan «che ha assunto una responsabilità storica nello sviluppo di questo processo», il leader ultranazionalista Devlet Bahçeli, il presidente Recep Tayyip Erdogan e il leader del principale partito di opposizione Chp, Özgür Özel, per il loro «sostegno alla causa della pace».

Interrogata sulla possibilità che Öcalan abbia partecipato direttamente al congresso durante un’intervista di Mezopotamya Ajansi, Pervin Buldan ha risposto con cautela: «Probabilmente è stata stabilita una comunicazione tecnica. Ma dobbiamo essere prudenti con le parole, per non danneggiare il processo».

Più tardi, il co-presidente del Congresso Popolare del Kurdistan (Kongra-Gel) Remzi Kartal ha confermato a SterkTV che Öcalan e altri tre prigionieri di Imralı sono intervenuti al congresso in videoconferenza.

SIA NEL COMUNICATO del partito Dem che nella nota diffusa dal Pkk ha trovato spazio anche la commemorazione di Önder, membro della delegazione di Imralı e figura chiave negli sforzi di mediazione già nel fallito processo del 2015.

Önder, deputato Dem e vicepresidente del Parlamento turco di origine turkmena, è deceduto il 3 maggio a 62 anni per un edema cerebrale sviluppatosi a seguito di un infarto subito il 15 aprile. Tuttavia Dem ha rivelato che, già il 2 aprile, era stato scoperto un potenziale tentativo di sabotaggio del suo veicolo, episodio finora tenuto riservato poiché oggetto di un’indagine in corso. Nel corso dei mesi, il Pkk aveva più volte nei suoi comunicati messo in guardia dal pericolo di sabotaggio del processo in caso di ritardi da parte dello Stato nel compiere passi concreti.

«Oggi portiamo sulle spalle il peso della speranza e della responsabilità storica – conclude Dem nel comunicato – Questa non è una fine, ma un nuovo inizio. Riporteremo indubbiamente la luce della pace e della fratellanza in queste terre».

AFGHANISTAN: UNA DONNA E TRE UOMINI FRUSTATI IN PUBBLICO PER ‘CORRUZIONE MORALE’

Nessuno tocchi Caino, 7 maggio 2025

I Talebani hanno frustato in pubblico una donna e tre uomini nel nord e nel sud-est dell’Afghanistan, secondo il comunicato rilasciato il 4 maggio 2025 dalla Corte Suprema del gruppo.
Una donna e un uomo il 4 maggio sono stati frustati di fronte a una folla nel distretto di Qala-e-Zal, nella provincia di Kunduz.
Secondo la Corte erano colpevoli di “relazioni illecite” ed erano stati condannati a 30 frustate ciascuno, oltre a un anno di carcere.
In un altro caso, il giorno prima, due uomini sono stati frustati pubblicamente nel distretto di Zurmat, nella provincia di Paktia, dopo essere stati riconosciuti colpevoli di “sodomia”. Ognuno di loro ha ricevuto 33 frustate oltre a un anno di carcere.
Si tratta dei più recenti casi di una serie di punizioni corporali inflitte nel Paese, tra cui fustigazioni pubbliche, esecuzioni e lapidazioni.
Da quando hanno ripreso il potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno ripristinato un’interpretazione rigida della Sharia, simile a quella che avevano alla fine degli anni ’90.
Sotto il loro regime, sono già state praticate sei esecuzioni pubbliche per omicidio e centinaia di individui, in particolare donne e membri della comunità LGBTQ+, hanno subito fustigazioni pubbliche per quella che i Talebani definiscono “corruzione morale”. I rapporti suggeriscono un aumento di tali punizioni negli ultimi mesi, con le fustigazioni pubbliche che nel Paese sono diventate un evento quotidiano.
La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha documentato 111 casi di punizioni corporali tra giugno e settembre 2024, tra cui 15 donne e una ragazza.

(Fonte: Kabul Now, 04/05/2025)

“Frustate davanti a tutti”: tre donne raccontano le fustigazioni subite dai talebani

Zan Times, 6 maggio 2025, di Rad Radan

Dal ritorno al potere dei talebani nel 2021, fustigazioni pubbliche, esecuzioni, incarcerazioni senza processo e umiliazioni sancite dallo Stato sono diventate all’ordine del giorno in Afghanistan.

Secondo i verbali dei tribunali e i resoconti dei media , più di 1.050 persone sono state frustate in pubblico, tra cui almeno 200 donne. I numeri reali sono probabilmente molto più alti.

Tra le persone punite ci sono donne accusate di cosiddetti “crimini morali”, tra cui uscire di casa senza un tutore maschio o mahram, farsi vedere sole in pubblico o parlare con uomini non imparentati.

Zan Times ha parlato con tre donne che hanno dichiarato di essere state frustate dai talebani negli ultimi due anni per presunti crimini morali, reati che erano state costrette a confessare.

Deeba: “Mi hanno frustato davanti a tutti”
In assenza del marito, partito per lavorare in Iran, la trentottenne Deeba racconta di essere l’unica a provvedere ai suoi sette figli. È una sarta e cuce abiti da uomo a casa sua, per poi consegnarli da sola.

Negli ultimi due anni, è stata arrestata due volte dagli agenti del Vizio e della Virtù dei talebani. Il primo arresto è avvenuto mentre noleggiava una macchina da cucire da un uomo estraneo alla sua famiglia. Racconta di essere stata picchiata, chiamata “prostituta” e costretta a trascorrere quattro notti in prigione.

La seconda volta avvenne circa tre mesi dopo, mentre era seduta in una paninoteca a caricare il telefono. Indossava un lungo cappotto e un ampio scialle, ma gli agenti del Vizio e della Virtù dei talebani la fermarono comunque.

“Mi hanno chiesto: ‘Perché sei senza velo? Perché sei sola senza mahram?’. Ho risposto: ‘Il terremoto ha reso difficile tornare a casa. Non c’è elettricità. Ecco perché sono venuta qui per caricare il telefono e prendere un panino'”.

La sua risposta provocò ulteriormente i talebani. “Hanno cacciato il proprietario del paninoteca dal suo locale e lo hanno schiaffeggiato, gridando: ‘Perché hai fatto entrare questa donna nel tuo negozio? Che rapporto hai con lei?’. Quando li ho visti trattarlo così, ho discusso con loro.”

Due giorni dopo, fu arrestata e portata sotto custodia dei talebani, accusata di aver insultato gli studiosi religiosi talebani [i tutori del vizio e della virtù], oltre a essere una donna senza mahram vista fuori casa. Fu gettata in prigione e trattenuta per 20 giorni.

“Eravamo in 15 in una cella. Quattro letti. Gli altri dormivano sul pavimento. Non ci davano da mangiare. Le coperte erano sporche. Chiesi il mio telefono per chiamare a casa perché mia figlia era malata e non sapevano che ero stata arrestata, ma i talebani si rifiutarono. Urlai, supplicai. Ma invece mi gettarono in una cella di isolamento.”

Alla fine, Deeba fu portata davanti a un tribunale talebano. Nessun avvocato la rappresentava. Il giudice la condannò per essere comparsa senza un tutore maschio e per aver insultato studiosi religiosi. Fu condannata a 25 frustate.

“Mi hanno portata in un luogo pubblico, mi hanno coperto la testa e mi hanno frustata davanti a tutti”, racconta. Deeba racconta di essere stata poi trattenuta per altri due giorni per assicurarsi che almeno una parte della ferita guarisse.

Da quando è tornata a casa, Deeba racconta di aver lottato contro l’umiliazione della fustigazione in pubblico e di assumere farmaci per superare il trauma.

“Quando mi hanno rilasciato, persino i miei amici più cari hanno iniziato a trattarmi in modo diverso. Mi insultavano e parlavano di me con disgusto perché erano state raccontate loro bugie su quanto accaduto.

Non ho altro da dire, è stato semplicemente così difficile. Insopportabilmente difficile. Qualcuno può capire cosa significhi essere schiaffeggiati davanti a una folla, presi a pugni davanti a un pubblico, coperti e frustati in pubblico?

Sahar: “Mi hanno fatto confessare che avevo fatto qualcosa di sbagliato”
Sahar*, 22 anni, è stata molto malata l’anno scorso. Suo padre lavorava in Iran e sua madre gestiva un laboratorio di tessitura di tappeti in un villaggio nell’Afghanistan occidentale. Non c’era nessuno che la accompagnasse alla clinica, dove lavoravano due dei suoi zii. Sua madre ha chiamato il cugino maschio perché la accompagnasse in macchina.

I talebani fermarono il loro veicolo poco prima di raggiungere la clinica e chiesero loro della loro relazione.

“Quando abbiamo detto di essere cugini, ma non eravamo sposati, sono diventati aggressivi. Hanno picchiato mio cugino, distrutto i nostri telefoni e mi hanno costretto a nascondermi sul pavimento del camion dei talebani mentre mi portavano alla loro stazione”, racconta Sahar.

Racconta di essere stata poi portata in un centro di detenzione. “Ero terrorizzata, piangevo e non riuscivo a respirare. Ho detto loro che stavo male e ho chiesto delle medicine. È stato allora che mi hanno schiaffeggiata e presa a calci diverse volte. Uno di loro ha detto: ‘Se alzi di nuovo la voce, uccidiamo sia te che tuo cugino'”.

Sahar racconta di essere stata interrogata da una donna velata. “Mi ha chiesto chi fosse mia cugina, se fossi vergine, se avessimo una relazione. Ho detto di no. Mi ha avvertita che dovevo confessare e che se non avessi obbedito, sarei stata torturata”.

Il giorno dopo, Sahar e suo cugino sono stati portati davanti a un tribunale talebano, dove, a detta di Sahar, è stata costretta a dichiarare falsamente di avere una relazione con il cugino. Non aveva un avvocato. Nonostante la presenza di parenti che hanno testimoniato di essere parenti, i talebani si sono rifiutati di riconoscere la loro relazione come “mahram” e ammissibile.

“Mi hanno fatto confessare, davanti a mia madre e ai miei zii, che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Non volevo dirlo. Ma mi hanno picchiata, hanno minacciato mio cugino. Ero terrorizzata”, racconta.

Sahar racconta di essere stata condannata a 30 frustate e sua cugina a 70. “Hanno usato gli altoparlanti per annunciare la nostra punizione. C’era anche la mia sorellina. Diceva sempre che ero il suo modello. L’ho vista piangere tra la folla. Mi ha distrutto.”

Dopo essere tornata a casa, Sahar racconta di essere stata costretta ad abbandonare il suo villaggio. “Dopo questo, l’opinione che la gente aveva di noi è cambiata completamente. Anche se il cinquanta per cento degli abitanti del villaggio  non credeva alle accuse, altri sì. Questo ci ha costretti ad abbandonare casa e trasferirci in città”.

Karima: “Non potevamo andarcene finché le ferite non fossero guarite”
Una storia simile è accaduta alla diciottenne Karima* in un’altra provincia occidentale. Nel 2023, a 16 anni, racconta di essere stata in viaggio con il cugino per comprare del materiale da cucito per la madre quando i Talian li hanno fermati.

“Ci hanno fermato per strada. I talebani ci hanno chiesto i documenti d’identità. Ho detto loro che era mio cugino, ma loro hanno risposto: ‘Non è un mahram valido. Non avete il diritto di stare con lui’. Ci hanno arrestati sul posto”.

Karima racconta di aver trascorso due mesi in prigione e di aver sofferto di attacchi di panico e allucinazioni. “Sono svenuta. Quando mi sono svegliata, avevo i polsi ammanettati e sanguinanti, e un prigioniero mi ha detto che mi avevano legata e calpestata”. “Ai prigionieri malati non era permesso vedere i medici. Alcuni morivano in quel posto. Se qualcuno rispondeva, veniva incatenato e costretto a sdraiarsi, mentre ad altri veniva ordinato di camminarci sopra”.

Karima racconta che sia lei che suo cugino sono stati frustati nella piazza principale della città in cui vivevano. Lei è stata frustata 39 volte e suo cugino ne ha ricevute 50. Poi sono stati riportati in prigione. “Ci hanno trattenuti per un’altra settimana. Ci hanno detto che non potevamo andarcene finché le ferite non fossero guarite. Non volevano che nessuno vedesse quello che avevano fatto.”

Quando finalmente è stata rilasciata, racconta, i funzionari talebani le hanno detto che le era vietato lasciare il Paese. “‘Sei sorvegliata’, mi hanno detto, ‘non ti è permesso andare all’estero'”.

Tuttavia, come Sahar e Deeba, ha subito l’umiliazione di essere fissata e sussurrata dalle persone; al suo ritorno nel villaggio natale è stata costretta a trasferirsi in un’altra città in Afghanistan.

I nomi in questo articolo sono stati cambiati per tutelarne la sicurezza. Rad Radan è lo pseudonimo di un giornalista freelance. Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con il Guardian .

 

“Le porte della separazione sono chiuse per le donne”, in Afghanistan

Letty Phillips, ANN, 4 maggio 2025

Per le donne afghane divorziare è sempre stato difficile, ma dalla restaurazione dell’Emirato Islamico è diventato quasi impossibile. Con le nuove autorità, la sharia – in particolare la giurisprudenza sunnita hanafita – è l’unica legge applicabile e molte delle disposizioni legali che permettevano alle donne di divorziare non esistono più.  In questo articolo, quattro donne e cinque avvocati parlano di questi cambiamenti da cui si ricava un quadro preoccupante delle implicazioni per le donne che cercano di separarsi dai propri mariti

Nargis, una giovane donna di Kabul, ha parlato a bassa voce mentre raccontava la sua esperienza di divorzio nel sistema legale dell’Emirato. “Il tribunale mi ha detto che le porte della separazione sono chiuse per le donne, e perché mai dovrebbero chiedere il divorzio?”, ha detto. Ha raccontato ad AAN che suo marito la picchiava, giocava d’azzardo ed era infedele, e nonostante ciò, quando si è presentata in tribunale, i giudici si sono rifiutati di concederle il divorzio.

Non mi ascoltavano, nessuno prestava attenzione a quello che dicevo. Era come se stessi parlando all’aria. I giudici mi hanno detto che il divorzio era un peccato e che avrei dovuto continuare a vivere con lui anche se avesse detto di aver divorziato da me. Ho detto loro che non avrei vissuto così per mantenere una buona immagine del vostro governo. Mi hanno fatto odiare la mia vita.

Nargis alla fine ottenne il divorzio, ma solo grazie alla perseveranza e a caro prezzo. Era una delle quattro donne intervistate per questo reportage che avevano avviato una causa di divorzio sotto il governo dell’Emirato Islamico. Tutte e quattro affrontarono battaglie simili, descrivendo gli abusi subiti, le difficoltà a presentare i loro casi in tribunale e la condanna di amici e familiari quando parlavano dei loro problemi.

Gli intervistati di AAN hanno dovuto fare i conti non solo con le modifiche legislative introdotte dall’Emirato Islamico, che rendono quasi impossibile per una donna separarsi dal marito, ma anche con usanze e tradizioni sociali secolari che rendono una cosa del genere impensabile per molti. “La gente crede che una donna debba rimanere in silenzio, qualunque cosa le venga fatta”, ha dichiarato ad AAN Rahmat, un avvocato di Kabul. Per la maggior parte delle famiglie afghane, far sposare i figli maschi è l’investimento più costoso che faranno mai. La famiglia dello sposo spesso paga un ingente prezzo della sposa (pagato al padre della sposa), oltre a pagare o promettere di pagare alla sposa il mahr previsto dalla sharia, e a sostenere anche la propria quota dei costi per le sontuose cerimonie nuziali. Sia per il marito che per la moglie, la rottura di un matrimonio può essere fonte di estrema vergogna e in molte comunità il divorzio è quasi sconosciuto. La pressione a rimanere sposati è particolarmente forte per le donne. “Durante la causa di divorzio, la famiglia di mio marito continuava a chiamarmi al telefono”, ha raccontato Yasmin, una giovane donna di Balkh. “Mi davano avvertimenti. Minacciavano di togliermi la vita”.

Tuttavia, nell’Islam, il matrimonio è un contratto che può essere rescisso. La Sharia consente a un uomo di farlo senza motivo e senza nemmeno presentare una petizione in tribunale. In questo caso, noto come talaq , deve semplicemente informare la moglie del divorzio e osservare un periodo di attesa di tre mesi, dopo il quale il divorzio è definitivo. Tuttavia, una donna deve presentarsi davanti a un giudice e dimostrare il suo diritto alla separazione in base a criteri specifici. L’interpretazione di questi criteri differisce tra le quattro principali scuole di giurisprudenza islamica sunnita ( fiqh ). Il fiqh hanafita, seguito dalla maggior parte degli afghani, è il più restrittivo dei quattro su questo argomento; nel ventesimo secolo, la maggior parte degli stati che derivano i propri codici legali dalla giurisprudenza hanafita ha quindi introdotto riforme volte a rendere più facile il divorzio per le donne e a limitare la prerogativa del marito al divorzio unilaterale. Ciò comporta in genere l’adozione del fiqh malikita, che è più permissivo per quanto riguarda la capacità di una donna di chiedere il divorzio.

L’Afghanistan non fa eccezione. La legislazione introdotta negli anni ’70 consentiva a una donna di ottenere la separazione – nota come tafriq – presso un tribunale statale, se fosse stata in grado di dimostrare il proprio caso su specifici motivi stabiliti dal fiqh malikita; in pratica, ciò era eccezionalmente raro e qualsiasi donna che lo facesse avrebbe probabilmente trovato ostracizzazione da parte della famiglia e della comunità. In linea con l’ingiunzione del Corano di raggiungere la riconciliazione attraverso la negoziazione, alle poche donne che si recavano nello Stato per chiedere la separazione veniva consigliato di tornare nelle loro comunità e risolvere i loro problemi. La mediazione comunitaria è rimasta il ricorso più comune dopo il 2001, ma nelle città afghane il numero di donne che hanno sollevato casi di divorzio nel sistema statale è aumentato, come dettagliato in questo rapporto di seguito.

Tuttavia, con il ritorno dei talebani, la legislazione dell’era repubblicana fu sospesa. L’Emirato dichiarò il fiqh hanafita unica fonte del diritto e la Corte Suprema revocò esplicitamente le disposizioni che consentivano alle donne di richiedere la separazione tafriq. AAN ha parlato con avvocati afghani in cinque province per analizzare questi cambiamenti nel sistema legale e ha intervistato quattro donne coinvolte in casi di divorzio per capire come questi cambiamenti le abbiano influenzate.

Per le donne afghane, non c’è stata un'”età dell’oro” in cui porre fine a matrimoni violenti o senza amore fosse facile o privo di vergogna. Tuttavia, negli ultimi duecento anni, i governanti hanno tentato occasionalmente di facilitare il divorzio per le donne. Parallelamente a questi cambiamenti legislativi, anche le norme sociali sui diritti delle donne si sono evolute, in modo graduale e discontinuo. Questo rapporto inizia ripercorrendo questi sviluppi per inquadrare le esperienze delle donne sotto il dominio degli Emirati, mostrando come i pochi progressi compiuti siano andati ormai perduti.

Donne, divorzio e diritto 1881-1977

Come la maggior parte delle questioni familiari, il divorzio e le controversie matrimoniali in Afghanistan sono stati tradizionalmente risolti al di fuori del sistema legale statale, attraverso la risoluzione delle controversie comunitarie o tramite autorità religiose. Lo Stato ha cercato di inserirsi nelle questioni familiari a vari livelli fin dal diciannovesimo secolo, a partire da modeste riforme sotto l’emiro Abdul Rahman Khan (1880-1901) nel tentativo di cambiare quelli che lui definiva “i vecchi ridicoli costumi” che erano “completamente contrari agli insegnamenti di Maometto”. L’emiro mise al bando l’usanza di costringere una vedova a sposare il fratello del marito e proibì il matrimonio forzato; decretò inoltre che una donna potesse chiedere il divorzio o gli alimenti per crudeltà o mancanza di sostegno finanziario. Infine, introdusse l’obbligo di registrare i matrimoni, sperando che ciò avrebbe fornito prove alle donne sposate che desideravano presentare un ricorso in tribunale.

Gli storici affermano che queste riforme ebbero scarso effetto nella pratica. Il divorzio generalmente rimaneva al di fuori della competenza dello Stato, poiché il divorzio istigato dagli uomini non richiedeva alcun coinvolgimento giudiziario ed era eccezionalmente raro che una donna sollevasse il caso in tribunale. I registri mostrano solo pochi casi di donne che presentavano istanza di separazione alle corti della sharia; nella provincia orientale di Kunar nel 1886, una donna chiese la separazione sostenendo che suo marito era impotente e dopo un periodo obbligatorio di un anno la separazione fu concessa. In pratica, lo Stato non aveva la capacità di registrare sistematicamente i matrimoni e non aveva la capacità di far rispettare questo requisito.

Negli anni ’20, re Amanullah compì ulteriori sforzi per regolamentare le questioni familiari attraverso la legge statutaria con una serie di riforme controverse note come Nizamnama, che includevano un codice amministrativo che trasferiva la giurisdizione su tutte le questioni familiari dai tribunali della sharia ai tribunali civili. Emanò anche le Leggi sul matrimonio del 1921 e del 1926, che imponevano l’abolizione del matrimonio infantile, limiti alla poligamia e la fine del matrimonio forzato. Ma i decreti di Amanullah non includevano disposizioni specifiche sul divorzio per le donne e, in ogni caso, furono categoricamente respinti dagli ulema come non islamici e in violazione della sharia, costringendolo a revocare alcune delle loro disposizioni, che furono completamente abbandonate dopo la crisi politica del 1929.

La risposta ostile a queste riforme fece sì che i successivi governanti e legislatori afghani si impegnassero poco per riformare il diritto di famiglia fino agli anni ’70. La legislazione sul matrimonio e altre questioni familiari rimase frammentaria e quasi interamente basata sul fiqh hanafita. Questo dava alla donna due opzioni se desiderava separarsi dal marito. In primo luogo, il fiqh hanafita le permetteva di richiedere un khul , o accordo negoziato, che avrebbe sciolto il matrimonio. In un khul, sia il marito che la moglie devono accettare di separarsi e la moglie di solito restituisce qualsiasi mahr ricevuto o rinuncia a qualsiasi pretesa di mahr che non ha ancora ricevuto. In secondo luogo, una donna può richiedere la separazione giudiziale. Il fiqh hanafita stabilisce che una donna può richiedere la separazione solo per due motivi. Se il marito la abbandona, può richiedere la separazione una volta che si presume sia morto, 90 o 120 anni dalla data della sua nascita; può presentare domanda anche se il marito è malato incurabile, ma le malattie che contano come motivi sono contestate.

Per le donne della metà del XX secolo, quindi, il divorzio era estremamente difficile da ottenere e non avevano quasi nessuna tutela legale se i loro mariti decidevano di divorziare da loro. Il caso di Alamtab contro Muhammad Shah, registrato presso un tribunale di primo grado di Kabul nel 1967, illustra questo problema. Alamtab presentò una causa sostenendo che il marito Muhammad Shah avesse divorziato da lei, ma lui negò e continuò a recarsi a casa del padre di lei per chiedere di avere rapporti coniugali con lei. Il tribunale di primo grado dichiarò che non avrebbe preso in considerazione il caso, quindi Alamtab sollevò il caso presso il tribunale provinciale, che si pronunciò contro di lei perché stabilì che non aveva testimoni validi a sostegno della sua affermazione secondo cui il marito aveva divorziato da lei. Alamtab presentò quindi ricorso in Cassazione, che annullò la decisione del tribunale provinciale e deferì il caso al tribunale provinciale di Parwan. Infine, nel 1971, il tribunale di Parwan respinse le richieste di Muhammad Shah e questi acconsentì al divorzio, ma solo a condizione che lei rinunciasse al suo mahr. Aveva trascorso quattro anni senza essere né sposata né divorziata, essendo stata molestata dal marito mentre combatteva il caso, e si era ritrovata senza sicurezza finanziaria e con la reputazione irrimediabilmente danneggiata.

La situazione iniziò a cambiare negli anni ’70, quando gli sforzi verticistici per la riforma sociale iniziarono ad accelerare. Le prime disposizioni statutarie sul divorzio giunsero come parte della Legge sul matrimonio del 1971, che stabiliva esplicitamente che il divorzio dovesse essere trattato secondo il fiqh hanafita. I modernisti criticarono la legge per questi motivi, affermando che era incostituzionale a causa del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione del 1964; la rivista dell’Istituto delle donne afghane, Mermon, la descrisse come “una dimostrazione di generale disprezzo per la dignità umana delle donne in questo paese”. I tribunali di tutto il paese continuarono a governare secondo il fiqh hanafita, come nel caso Musa contro Shaista, sollevato nella provincia di Farah nel 1970. Dodici anni dopo che Musa abbandonò la moglie Shaista, lei si risposò; il suo secondo marito fu quindi accusato di rapimento ed entrambi furono condannati a due anni di reclusione da un tribunale di primo grado di Farah. Facendo ricorso alla corte provinciale, Shaista si è trovata condannata a due anni di carcere aggiuntivi perché la corte aveva citato il requisito Hanafi che imponeva di attendere il 120° compleanno del marito prima che il matrimonio potesse essere sciolto. Un solo giudice della corte provinciale ha espresso dissenso, scrivendo su una rivista giuridica afghana, Message of Conscience, che “i periodi di tempo menzionati impongono una tortura a vita e sono intollerabilmente eccessivi”. Non sorprende che poche donne abbiano sollevato il caso in tribunale, secondo un articolo di opinione del Kabul Times sulla legge sul matrimonio. “Le recenti riforme della legge sul matrimonio sono state ignorate”, si leggeva. “Le tradizioni secolari stanno resistendo”.

I documenti del tribunale lo confermano, con solo 94 casi di divorzio registrati presso la corte provinciale di Kabul tra marzo 1972 e febbraio 1973.

Nel 1973, la Corte Suprema intervenne finalmente per rispondere alle preoccupazioni dei modernisti, sollecitate dal caso di una donna di nome Aziza. Aveva richiesto la separazione giudiziale dal marito, Ghawth, sostenendo che fosse pazzo e non potesse essere curato. La corte di primo grado aveva respinto la sua richiesta perché riteneva che il fiqh hanafita non ammettesse la follia come una delle malattie che consentivano la separazione. “Diversi medici qualificati”, si leggeva nella richiesta di Aziza, “confermano costantemente che la follia di Ghawth è di natura permanente… la vita coniugale con Ghawth è diventata intollerabile per me e la convivenza con lui comporta un pericolo fisico per la mia vita”.

In risposta, la Corte Suprema istituì una commissione per preparare raccomandazioni sulla legislazione in materia di divorzio, concentrandosi sui problemi che la legge vigente causava alle donne. Nel 1974, il Ministero della Giustizia pubblicò il rapporto della commissione, che raccomandava una serie di disposizioni derivate dal più permissivo fiqh malikita come fonte per la legislazione statale in materia di divorzio; infine, nel 1977, fu pubblicato il Codice Civile, che traeva la sua legislazione sul divorzio dal fiqh malikita. Questo consentiva alle donne di richiedere il tafriq per motivi di danno, abbandono, mancato pagamento del mantenimento e una più ampia gamma di malattie. Potevano anche richiedere un khul, o accordo negoziato, se riuscivano a ottenere il consenso del marito e se potevano permettersi di pagare, sebbene ciò non dovesse avvenire necessariamente in tribunale.

Ora, finalmente, le donne avevano una maggiore tutela legale se desideravano la separazione, sebbene lo stigma sociale contro il divorzio rimanesse proibitivo per la maggior parte delle donne. Persino il concetto di intervento dello Stato nelle questioni familiari era ancora inaccettabile per molte. Nancy Dupree, in un articolo sulla famiglia in Afghanistan, scrisse che “qualsiasi violazione dell’istituzione familiare è considerata ripugnante… quando si verificano separazioni, le mogli vengono rimandate a casa dei loro padri, il che è causa di molta vergogna”. L’antropologa Inger Boesen scoprì che la legge statale aveva poca rilevanza per la vita delle donne al di fuori di Kabul. “L’emancipazione delle donne è confinata alle classi superiori nelle città più importanti, che probabilmente comprendono circa il 2% delle donne dell’Afghanistan”, scrisse. Nelle comunità pashtun di Kunar alla fine degli anni ’70, riferì, le donne non avevano il diritto di scegliere un marito, di ricevere il mahr in linea con la sharia o di separarsi dai loro mariti.

Donne e divorzio nella Repubblica Islamica, 2001-2021

Con la sconfitta dei Talebani nel 2001, il Codice Civile del 1977, che era stato sospeso, tornò in vigore. Le donne potevano quindi ottenere il divorzio tafriq dai tribunali statali, come previsto dal Codice. Potevano anche ricorrere al tribunale o a mediatori non statali per concordare un khul con i loro mariti. Ma sebbene le donne potessero, in teoria, avviare legalmente il divorzio, nella pratica la situazione era più complessa.

Gli avvocati hanno riferito ad AAN che le donne potevano sollevare casi di tafriq in tribunale e che questi potevano essere risolti. Hanno anche concordato sul fatto che i casi di tafriq fossero in aumento verso la fine dell’era della Repubblica. “Allora c’erano più possibilità per le donne”, ha affermato Hekmatullah, un avvocato di Kandahar. “Il motivo più comune per il divorzio delle donne era il maltrattamento, quando i mariti le picchiavano. Poi c’erano anche i casi in cui un marito non provvedeva alla moglie o la abbandonava”. Qudrat, un avvocato che aveva precedentemente collaborato con ONG per risolvere i casi delle donne a Herat, ha concordato:

Il danno era la causa più comune del tafriq. Circa il 60% dei casi era dovuto a danno. Circa il 10-15% era dovuto ad abbandono. Il tribunale convocava il marito in tribunale, annunciandolo sui giornali e assegnandogli una scadenza specifica per la comparizione. Se non si presentava, il tribunale chiedeva al Procuratore Generale di nominare un pubblico ministero che si occupasse del caso, e alla fine si giungeva al tafriq.

Khairullah, un avvocato di Bamiyan, ha aggiunto che in molti casi le donne chiedevano il tafriq per danni subiti perché i loro mariti facevano uso di droghe. “Il numero di casi sollevati per danni era elevato, perché il numero di tossicodipendenti era in aumento. Questo problema e la violenza dei mariti erano le ragioni principali per cui le donne volevano divorziare”.

Una volta in tribunale, tuttavia, i casi delle donne non venivano sempre risolti in linea con il Codice Civile del 1977. I giudici spesso ignoravano la legge statutaria in materia di famiglia, sia perché preferivano il diritto consuetudinario o il diritto hanafita non codificato rispetto al Codice Civile, sia perché semplicemente non erano sicuri di quale tipo di legge applicare; in un’indagine del 2005 sugli attori del sistema legale afghano condotta dal Max Planck Institute, citata in questo rapporto del 2012 , quasi tutti i 200 intervistati hanno indicato la legge islamica e il diritto consuetudinario come principali fonti di diritto, piuttosto che il diritto statale.

Ciò ha rivelato un problema più profondo e strutturale: i giudici faticavano a bilanciare i processi statutari e le altre fonti di diritto perché riflettevano ordini normativi diversi. Mentre la leadership della Repubblica insisteva sulla superiorità del diritto codificato, lo studio ha rilevato che i pubblici ministeri conservatori tendevano a sostenere che il diritto codificato fosse solo una parte del quadro giuridico e insistevano sul primato della sharia, il che, a loro avviso, significava l’applicazione dei vincoli del fiqh hanafita sul divorzio. Era anche molto comune per i tribunali rifiutarsi semplicemente di occuparsi di un caso di divorzio, rimandandolo invece alle shura o alle jirgas della comunità per la risoluzione.

Una delle possibilità più preoccupanti per le donne che lasciavano mariti violenti e poi chiedevano il divorzio era quella di essere incarcerate con l’accusa di “fuga” o “crimini morali”. La fuga non era un reato ai sensi del Codice penale dell’era repubblicana, ma nel 2010 la Corte Suprema ha emesso una direttiva ai tribunali affinché perseguissero penalmente le donne che fuggivano da “sconosciuti” in una situazione del genere, perché ciò poteva causare “crimini come l’adulterio e la prostituzione ed è contrario ai principi della sharia”. Human Rights Watch ha segnalato nel 2012 molti casi simili, tra cui quello di Parwana, una diciannovenne che era fuggita dal marito violento ed era andata alla polizia per chiedere aiuto per ottenere il divorzio. Invece è stata incarcerata per sei mesi con l’accusa di fuga. Roqia, che si era sposata all’età di 12 anni, chiese il divorzio al marito perché era tossicodipendente e spariva spesso. Alla fine si è risposata per contribuire al sostentamento dei figli. Il suo primo marito la denunciò alla polizia e lei e il suo secondo marito furono condannati dal tribunale a cinque anni di reclusione.

Le donne erano inoltre scoraggiate dal presentarsi in tribunale dall’elevato livello di prove richiesto per dimostrare che il marito avesse commesso un danno nei loro confronti. Se sollevavano un caso basato su accuse di violenza fisica da parte del marito, la maggior parte dei giudici esigeva prove del danno subito, cosa difficile da ottenere; il tribunale poteva richiedere perizie forensi, prove di abusi fisici o testimoni, quindi le donne potevano essere costrette a presentare una causa penale contro i mariti per presentare prove accettabili al giudice.  Khairullah, a Bamiyan, ha affermato che ciò era assurdo:

Una donna è stata picchiata dal marito alle dieci di sera, ma quando si è lamentata, il giudice le ha detto di portare testimoni che il marito l’avesse picchiata alle dieci. Alle dieci la gente va a letto: come può una donna portare un testimone del genere?

Altri servizi volti a sostenere le donne erano carenti. La polizia offriva scarso aiuto alle donne che si rivolgevano a loro per chiedere aiuto nella separazione dai mariti. Persino le Unità di Risposta Familiare (FRU), che iniziarono ad essere istituite nelle stazioni di polizia dal 2006 per supportare le donne che si trovavano in situazioni pericolose, spesso incoraggiavano le donne a tornare a casa e risolvere i loro problemi a causa dello stigma associato al divorzio. “Se queste donne cercano di divorziare, sanno che non rimarrà nulla di loro”, ha detto un ex responsabile di una FRU di Kabul alla scrittrice Julie Billaud nel 2010. Alcuni dipartimenti provinciali per gli affari femminili, istituiti dopo la creazione del Ministero per gli Affari Femminili nel dicembre 2001, sono stati proattivi nel segnalare i casi di donne che chiedevano aiuto, secondo le donne intervistate da Billaud. Altri no.

Non sorprende che rivolgersi al tribunale per il divorzio fosse solitamente l’ultima spiaggia. La maggior parte delle separazioni veniva giudicata da mediatori comunitari, sia perché le donne si rivolgevano direttamente a loro, sia perché era molto comune che i tribunali o la polizia rimandassero alla comunità un caso che le riguardava. TLO ha scoperto che le autorità formali nei distretti di Batikot e Momand Dara di Nangrahar avevano esaminato sette casi nel 2010, mentre le shura dei villaggi ne avevano esaminati 71 e le shura degli ulema altri 80. In tutti i casi di abuso, tranne quelli più estremi, spesso davano priorità al “bene collettivo” della comunità nelle loro decisioni, il che significava garantire la stabilità e il mantenimento della pace. Questa tendenza, unita al radicato stigma sociale che circondava il divorzio, faceva sì che fosse raro che le donne ottenessero una separazione equa in questo modo. In genere, la shura della comunità stabiliva che la coppia dovesse riconciliarsi, oppure negoziava una separazione khul che imponeva alle donne di pagare i mariti. Hekmatullah, l’avvocato di Kandahari, lo ha spiegato ad AAN:

La maggior parte dei casi di divorzio veniva risolta tramite shura. Nel nostro ufficio, una delle nostre responsabilità era quella di dare consigli alle donne che desideravano divorziare. Ottenere il tafriq in tribunale richiedeva spesso troppo tempo, quindi consigliavamo alle donne di divorziare tramite i consigli comunitari, per una maggiore efficienza. Questi consigli, però, elargivano sempre khul invece del tafriq alle donne, e quindi le donne dovevano pagare i mariti.

Nelle zone più conservatrici o sotto il controllo dei talebani, era ancora più raro che le donne chiedessero aiuto agli enti locali o al sistema statale per ottenere il divorzio. “Le donne nelle zone sotto il controllo dei talebani non potevano rivolgersi ai tribunali governativi”, ha aggiunto Hekmatullah, parlando di alcune zone di Kandahar. “Dovevano rivolgersi ai tribunali ombra dei talebani, dove la separazione era molto limitata e per motivi difficili da dimostrare”. Secondo TLO, le jirga della provincia di Paktia hanno riferito di aver esaminato solo sette casi di famiglia nel 2010. Rahmat, un avvocato di Kabul, ha descritto la situazione:

La separazione era più facile nelle grandi città perché avevano culture diverse e le donne sapevano come sollevare un caso. Ma nei luoghi non sotto il controllo del precedente governo o dove altri tipi di sistemi di risoluzione delle controversie avevano un ruolo più importante, era considerato vergognoso per le donne sollevare i propri problemi e dichiarare di volersi separare dai mariti.

Trovare un avvocato era un’impresa ardua anche per le donne, perché i casi richiedevano un notevole dispendio amministrativo e i clienti dovevano essere in possesso di una carta d’identità nazionale. Questo rappresentava un grosso ostacolo per le donne che vivevano in zone remote, prive di guida, istruzione e supporto familiare. Nelle zone in cui erano disponibili servizi legali gratuiti, le donne potevano ottenere supporto, inclusi avvocati gratuiti.

A Bamiyan, considerata generalmente più progressista, Khairullah ha affermato che la situazione era la stessa. “Le maggiori difficoltà che le donne hanno dovuto affrontare nel separarsi dai mariti erano dovute a vecchie tradizioni culturali. Le donne non aprivano casi perché ciò avrebbe danneggiato la reputazione delle loro famiglie”.

Alla fine della Repubblica, nel 2021, chiedere il divorzio era ancora una decisione difficile per una donna. I divieti culturali e sociali, prevalenti sia nelle comunità che nei tribunali afghani, aumentavano i rischi legati al divorzio; gli enti statali che avrebbero dovuto aiutare le donne spesso facevano il contrario, mentre la violenza contro le donne che cercavano di porre fine al loro matrimonio era comune. Molte donne erano ancora risentite per le ingerenze dello Stato nelle questioni familiari, e il sistema legale statutario rimaneva una lontana seconda scelta per chi cercava aiuto; molte delle riforme legali volte a garantire i diritti delle donne erano prive di significato perché lo Stato stesso aveva così poca legittimità. Anche la difficoltà di vivere da sole e di provvedere a una famiglia senza un reddito sicuro scoraggiava molte donne dal chiedere il divorzio.

Nonostante queste problematiche, tuttavia, il numero di donne che chiedono il divorzio è aumentato durante il periodo repubblicano. Torunn Wimpelmann e Masooma Sadat hanno riportato in un articolo del 2022 che la Corte Suprema ha registrato 1.049 casi di divorzio tra il 2006 e il 2009, che sono aumentati a 6.370 casi nel 2015 e a 4.390 nel 2016; la maggior parte di questi casi è stata avviata da donne, poiché gli uomini in genere non avevano bisogno di rivolgersi al tribunale per ottenere il divorzio.

Donne e divorzio nell’Emirato, dopo il 2021

Al ritorno dei Talebani, questi ultimi dichiararono che il fiqh hanafita rappresentava l’unica fonte di diritto applicabile in Afghanistan. Inizialmente, non era chiaro come tale disposizione sarebbe stata applicata o quali sarebbero state le sue implicazioni per le leggi vigenti nell’era della Repubblica. Nel settembre 2021, i Talebani annunciarono la sospensione della Costituzione del 2004 in attesa della revisione delle leggi vigenti, il che significava che anche il Codice Civile del 1977 era stato sospeso. Pertanto, le disposizioni del Codice derivate dal fiqh malikita che consentivano alle donne di chiedere la separazione per motivi di danno, abbandono, inadempimento e malattia non erano più applicabili. Regnava la confusione sulla possibilità che le decisioni prese secondo il sistema legale della Repubblica venissero revocate. Alcune donne divorziate temevano che i loro divorzi potessero essere revocati perché non validi secondo il fiqh hanafita; altre, desiderose di divorziare, temevano che la sospensione del Codice Civile da parte dell’Emirato avrebbe impedito loro persino di presentare domanda di separazione a causa delle severe restrizioni del fiqh hanafita.

La Corte Suprema ha presto confermato la validità di queste preoccupazioni, sebbene non abbia decretato che tutti i precedenti divorzi sarebbero stati revocati. In primo luogo, ha chiarito che i casi di divorzio precedentemente risolti potevano, in teoria, essere riaperti. La circolare numero 15, emessa il 23 maggio 2022, ha fornito linee guida ai tribunali afghani su come gestire le decisioni legali dell’era della Repubblica su tutte le questioni, incluso il divorzio. La circolare ha decretato che qualsiasi decisione dell’era della Repubblica poteva essere esaminata da un tribunale di giudici talebani e da un comitato di ulema. L’articolo 10 delle linee guida affermava che se la decisione legale era stata presa in linea con il fiqh hanafita, non doveva essere annullata e poi aggiungeva: “Se la decisione è stata presa secondo un’altra scuola di giurisprudenza… la decisione dovrebbe essere deferita ad Amir al-Muminin [Guida Suprema dell’IEA Hibatullah Akhundzada] o a un’autorità giudiziaria superiore”. Tecnicamente, quindi, qualsiasi divorzio emesso in linea con il Codice Civile poteva essere riaperto se il marito sollevava un caso.

Ciò ha suscitato grande preoccupazione tra gli osservatori, e sono emerse segnalazioni di alcuni mariti che hanno approfittato del cambio di regime per riaprire vecchi casi. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e il Gruppo di lavoro sulla discriminazione contro donne e ragazze, che hanno riferito nel 2023, hanno affermato di essere stati informati di uomini che si avvalevano di questa sentenza, presentando ricorsi ai tribunali per sostenere che le loro mogli li avevano divorziati illegalmente. I media hanno descritto dettagliatamente diversi casi in cui i divorzi sono stati annullati da giudici o comandanti talebani; ad esempio, un tribunale di Uruzgan ha revocato un divorzio concesso a una donna nel 2018; la donna aveva chiesto la separazione perché si era sposata da bambina di 7 anni contro la sua volontà – in quello che era in realtà un matrimonio illegale secondo i decreti emiratini. Un portavoce della Corte Suprema ha dichiarato alla BBC Persian che la revoca del divorzio era corretta: “La decisione del precedente governo di annullare il matrimonio era contraria alla sharia… perché [il marito] non era presente al momento della decisione del tribunale”. In un altro caso, riportato dall’AFP , il divorzio è stato annullato non da un tribunale, ma da un comandante talebano, che ha insistito affinché la donna, “Marwa”, tornasse dal suo ex marito; lui l’aveva picchiata così violentemente da romperle i denti.

Tuttavia, i cinque avvocati con cui AAN ha parlato non avevano mai sentito parlare di casi di divorzi annullati. I resoconti dei media hanno fornito prove aneddotiche di casi di revoca del divorzio, ma non forniscono un’idea della portata del fenomeno, mentre il rapporto del Relatore Speciale delle Nazioni Unite ha rilevato di aver sentito parlare di 50 casi di divorzio riaperti in un distretto, ma non è stato in grado di comprovare tale affermazione. Non sembra esserci alcun tentativo sistematico di annullare i casi, ma questo rappresenta un piccolo conforto per le donne afghane divorziate; a prescindere dai dati, la possibilità che la legge possa essere utilizzata per costringere una donna a tornare da un marito violento è senza dubbio una prospettiva terrificante.

La confusione sull’esecuzione delle sentenze non hanafite in materia di divorzio non è stata alleviata dalla circolare numero 19 del Leader Supremo dell’AIE Hibatullah Akhundzada, emessa nel settembre 2022, che esponeva la sua posizione sul divorzio. La circolare affrontava due questioni: cosa avrebbero dovuto fare i tribunali in caso di divorzi pronunciati da donne durante l’era della Repubblica e come avrebbero dovuto gestire i nuovi casi di divorzio? In merito alla prima questione, la Corte non ha offerto alcuna soluzione. Ha semplicemente ordinato ai tribunali di rinviare qualsiasi decisione perché la questione era “in discussione”.

Sulla seconda questione, la Corte è stata chiara: il fiqh hanafita sarebbe stata l’unica fonte legislativa in materia di divorzio nell’Emirato. La circolare disponeva: “Se la moglie richiede ora la separazione, le motivazioni della separazione e le prove per ciascuna di esse devono essere fornite secondo la legge hanafita. Successivamente, la documentazione deve essere condivisa con la Guida Suprema dell’Emirato Islamico”.

Infine, nel gennaio 2024, l’Emiro ha emesso la Circolare numero 30. Questa rispondeva alla domanda sollevata nella Circolare 19 su cosa fare in merito alle decisioni giudiziarie sulla separazione prese dal precedente governo: dovessero essere eseguite o meno? Le separazioni emesse sotto la Repubblica, affermava la Circolare 30, sarebbero state valide se fossero state emesse in conformità con una qualsiasi delle quattro scuole del fiqh sunnita: “Nel caso in cui una sentenza di separazione sia stata emessa in una questione secondo una delle quattro scuole di giurisprudenza islamica da un giudice del precedente regime, il verdetto di separazione… deve essere eseguito”. Se la decisione del giudice non fosse stata conforme a una qualsiasi delle leggi del fiqh, continuava l’Emiro, non sarebbe stata valida. Ciò rappresentò una buona notizia per le donne che avevano ottenuto il divorzio sotto la Repubblica, ma lasciò aperta la possibilità che gli ex mariti potessero presentare ricorso se fossero riusciti a dimostrare che il divorzio non era stato emesso in linea con nessuna delle altre scuole di fiqh o per motivi procedurali, come nel caso della donna di Uruzgan sposata a sette anni, riportato dalla BBC e citato sopra.

La posizione pratica dell’Emirato

In pratica, sembra che l’Emirato consenta il divorzio basato esclusivamente sul fiqh hanafita. AAN ha esaminato una lettera di conferma, inviata dalla Corte Suprema al tribunale provinciale di Khost il 7 aprile 2024, in cui si afferma che “il tafriq è sospeso fino a nuovo avviso in base alla circolare numero 19”. Questo lascia aperte tre tipologie di divorzio per una donna. Può concordare un khul (accordo finanziario negoziato) con il marito; può chiedere il divorzio se il marito la abbandona dopo 120 anni dalla sua nascita e si presume quindi che sia morto; oppure può chiedere il divorzio per il fatto che il marito è affetto da una malattia incurabile, che include l’impotenza.

Gli avvocati con cui AAN ha parlato per questa ricerca hanno concordato all’unanimità sul fatto che sia diventato molto più difficile per le donne separarsi dai propri mariti da quando i talebani sono tornati al potere. Nessun avvocato ha riferito di aver sollevato con successo un caso di tafriq in tribunale dopo la presa del potere e tutti hanno affermato di ritenere che ora sia proibito. Qudrat, a Herat, ha affermato di aver respinto molte donne che chiedevano il tafriq:

Negli ultimi tre anni, tantissime donne hanno chiesto il tafriq, ma non hanno potuto fare nulla. Dato che il tafriq è impossibile da ottenere tramite i tribunali, non possiamo aiutarle … in tutte le province so che ci sono donne che vogliono ottenere il tafriq, ma non si rivolgono ai tribunali perché sanno che i loro casi non verranno trattati.

Rahmat, a Kabul, concorda:

Credo che la violenza contro le donne sia aumentata sotto l’Emirato perché i casi femminili non vengono affrontati da questo governo. Sotto la Repubblica, i casi familiari femminili venivano affrontati più facilmente perché c’erano leggi che lo consentivano. Il mese scorso ho ricevuto tre casi di violenza contro donne che volevano il divorzio e siamo riusciti a risolverne solo uno. Le altre due donne hanno deciso di rimanere sposate dopo che abbiamo spiegato che non riuscivamo a trovare un modo per farle divorziare e abbiamo organizzato una mediazione con i loro mariti.

Sotto l’Emirato, le separazioni khul sembrano essere il metodo di divorzio più comune. Tra le donne con cui AAN ha parlato, le due che erano riuscite a separarsi dai mariti lo avevano fatto tramite separazioni khul. Anche gli avvocati hanno affermato che gli unici casi risolti dopo il ritorno dei talebani si sono conclusi con accordi khul, che impongono alla moglie di pagare il marito. Khairullah, a Bamiyan, ha affermato di aver preso in carico una decina di casi di divorzio dopo il ritorno dei talebani e di averne indirizzati la maggior parte a muslihin (riconciliatori) o hakam (negoziatori nominati dal tribunale); si erano tutti conclusi con un khul che prevedeva la rinuncia della moglie al mahr e, in alcuni casi, con pagamenti aggiuntivi da parte della moglie al marito. Anche Qudrat ha segnalato alcuni casi di khul. Rahmat, un avvocato, ha affermato di aver lavorato su 12 casi in totale dal 2021, di cui quattro sono andati in tribunale e otto sono stati risolti tramite mediazione nella comunità, uno dei quali ha portato a un khul e sette casi si sono conclusi con un accordo tra marito e moglie di rimanere sposati.

Nargis, la donna di Kabul menzionata all’inizio di questo rapporto, ha descritto il suo caso di khul. Aveva cercato di separarsi dal marito perché la vita con lui era diventata intollerabile:

Mio marito aveva un carattere orribile. Faceva cose che non mi piacevano… giocava d’azzardo, mi tradiva con un’altra donna e persino con degli uomini. Lo odiavo. Quando ho cercato di fermarlo, mi ha detto che non erano affari miei e che non avevo l’autorità di fermarlo. Ha detto che non aveva bisogno di me. Mi ha picchiata. Mi ha detto che eravamo divorziati e che ero tornata a casa dei miei genitori, così lui ha sporto denuncia in tribunale sostenendo che eravamo ancora sposati, che gli avevo rubato dei soldi ed ero scappata.

Nargis non poté produrre testimoni a sostegno della sua affermazione che il marito avesse divorziato da lei. Lui giurò di no e così il tribunale le ordinò di tornare a casa sua. Lei implorò il giudice di dichiarare la separazione, ma poiché non era stata abbandonata e il marito non stava male, il giudice decretò che non aveva diritto a nulla.

Il tribunale ha comunicato a Nargis che la sua unica opzione, secondo il fiqh hanafita, era il khul. Così ha assunto un avvocato per collaborare con i mediatori della comunità, attraverso i quali suo marito e le loro famiglie hanno concordato un khul. Inizialmente, la famiglia del marito ha chiesto 1.000.000 di afghani (13.700 dollari) di risarcimento per il divorzio. Alla fine, hanno concordato che avrebbe restituito i gioielli d’oro che le erano stati donati, il suo cellulare e l’intero mahr. Nargis non ha avuto altra scelta che cedere:

E le mie perdite? Mi ha punito, mi ha fatto ammalare, e dovrei pagare un risarcimento? Nell’ultima udienza in tribunale ho detto loro: “Avete violato i miei diritti e chiederò ad Allah di vendicarsi per quello che mi avete fatto”.

Anche Yasmin, che vive a Balkh, ha ricevuto un khul. Come molte donne afghane, aveva inizialmente cercato di risolvere il suo caso nella comunità in cui viveva, ma senza successo, e questo l’ha costretta a rivolgersi al tribunale cittadino di Mazar-e Sharif:

Io e mio marito non siamo mai andati d’accordo e la sua famiglia aveva il controllo su tutto ciò che facevamo, soprattutto su sua sorella. È andato in Iran senza dirmelo, non è tornato quando gliel’ho chiesto, e io ero infelice. Gli ho detto che volevo il divorzio, poi sono andata alla comunità per mediare con gli anziani e i mullah, ma la famiglia di mio marito non l’ha accettato e hanno detto che dovevamo separarci secondo la sharia. Questo per potermi chiedere dei soldi. Hanno detto che se la mia famiglia li avesse pagati, ci avrebbero permesso di separarci, altrimenti no. Così siamo andati in tribunale.

In tribunale, il giudice ha detto a Yasmin che avrebbe dovuto restare sposata: “Mi diceva di continuare a provarci, forse troverai la felicità”, ha detto Yasmin.

Assolutamente no. Ho rifiutato. Mio padre e mia madre mi hanno procurato un avvocato e alla fine abbiamo raggiunto un accordo. Non ho tenuto il mio mahr, non ho preso nemmeno un calzino da quella casa, e ci hanno anche chiesto di pagare 50.000 afghani (680 dollari). Mio fratello ha accettato di pagarli.

Entrambe le donne che hanno raccontato ad AAN del loro khul avevano rinunciato al mahr nell’ambito delle trattative. Se l’unico modo per separarsi legalmente dal marito sotto i talebani è negoziare un khul, questo escluderà le donne afghane senza risorse dal farlo. Le donne povere o prive di sostegno familiare non saranno in grado di provvedere alle spese della famiglia del marito; rinunciare al mahr e a qualsiasi dono di valore ricevuto durante il matrimonio rende inoltre la donna vulnerabile, poiché lascerà la casa del marito senza nulla. In un khul anche il marito deve accettare la separazione e quindi è spesso necessario assumere un avvocato per mediare, il che rappresenta una spesa aggiuntiva. Nargis ha parlato ad AAN del costo delle sue parcelle legali:

La mia famiglia assunse un avvocato per risolvere la questione tramite negoziazione. Organizzò incontri con i talebani e i mullah alla moschea, ma la famiglia di mio marito si rifiutò di partecipare, quindi mio suocero iniziò a chiedere all’avvocato di andare a casa sua e lavorare per lui. Pagammo a quell’avvocato 18.000 afghani (248 dollari) e non ottenemmo nulla. Poi ne assumemmo un altro che riuscì a risolvere il caso… il secondo avvocato costò molto meno ma fu molto più bravo.

Rahmat ha confermato che il costo di un khul era proibitivo per molti:

Le donne che hanno accesso alla consulenza legale, di solito se supportate dalla famiglia d’origine, riescono a superare le difficoltà. Ho lavorato su quattro casi perché le loro famiglie sono benestanti e possono permettersi un avvocato. Le donne che non possono contare sull’aiuto della famiglia d’origine farebbero fatica a risolvere i loro casi.

Nell’Emirato, tutti gli avvocati con cui AAN ha parlato concordano sul fatto che i giudici consentano anche a una donna di separarsi dal marito in caso di impotenza, in conformità con il fiqh hanafita. “Quando i mariti non possono avere rapporti sessuali con le mogli, nella mia esperienza i giudici pronunciano il divorzio”, ha affermato Qudrat. “Ma i giudici valuteranno la salute dell’uomo per assicurarsi che la donna dica la verità”. Questo può essere difficile da dimostrare per una donna e i mariti spesso si rifiutano di accettare un caso del genere. I giudici in genere concedono anche all’uomo un periodo di tempo per dimostrare di non essere impotente prima di imporre la separazione per questi motivi. “Se una donna deve vivere un anno intero con lui dopo aver trascinato tutto in tribunale, è pericoloso”, ha affermato Hekmatullah. “Potrebbe ucciderla. Mette in pericolo la vita delle donne”.

Farzana, una giovane donna di Takhar, ha raccontato ad AAN la sua esperienza:

Avevo 19 anni quando mi sono sposata, e lui 60. Sono la sua seconda moglie. Non volevo sposare questo vecchio, ma i miei genitori mi hanno data a lui. Sono passati sei anni e non riesco a rimanere incinta. Gli ho detto di farsi curare, ma lui ha detto che ha problemi e non può avere figli.

Così l’anno scorso sono tornata a casa dei miei genitori. Ho detto a mio padre: “Mi hai costretta a sposare quest’uomo, non ero felice, non lo voglio più. È così vecchio che non può avere figli, non posso vivere con lui”. Sono andata in tribunale e ho aperto un caso, con un avvocato.

All’inizio mio marito cercava di farmi fare un khul, per ottenere soldi. L’ho registrato di nascosto e l’ho fatto sentire in tribunale, e il giudice ha dichiarato mio marito colpevole. Gli ha dato un anno per curarsi in Pakistan o in India, e se funziona dovrei vivere con lui, altrimenti dovrà dire che siamo divorziati e la questione sarà chiusa.

Farzana deve ancora aspettare tre mesi, fino alla scadenza del periodo di un anno del marito, e nel frattempo lui e la sua prima moglie continuano a molestarla. “Il primo problema è che non può essere padre, e il secondo è che non mi piace: ogni volta che lo guardo inizio a odiare il mondo. L’ho tollerato e ho sofferto per sei anni”, ha detto.

Se nessuna di queste condizioni può essere soddisfatta, le donne a volte ricorrono a metodi più creativi per porre fine al matrimonio. Il modo più semplice, secondo gli avvocati, è sovvertire il divieto di tafriq costringendo il marito a pronunciare il divorzio dalla moglie – cosa che ha il diritto di fare senza giusta causa secondo il fiqh hanafita. Hekmatullah ha spiegato meglio.

Ad esempio, se una donna è costretta a lasciare la casa del marito o lui la aggredisce, la aiuteremo ad aprire un caso in tribunale. Poi il tribunale citerà il marito e, in seguito, quest’ultimo pronuncerà il divorzio. Ho avuto due casi in cui è successo questo: nel primo, il marito si è presentato in tribunale dopo la citazione e ha detto che lei non era più sua moglie e ha chiesto il divorzio. A quel punto la donna è stata libera.

Ho avuto un secondo caso in cui una donna voleva divorziare dal marito perché era aggressivo e scortese. Inizialmente abbiamo sollevato il caso sostenendo che non poteva darle un figlio, ma il tribunale lo ha esaminato e ha stabilito che non era impotente, stabilendo che avrebbero dovuto trascorrere un anno insieme per vedere se lei poteva rimanere incinta. Eravamo preoccupati che la sua vita fosse in pericolo, ma non c’era molto che potessimo fare. Qualche mese dopo, suo fratello è venuto nel mio ufficio e mi ha detto che era stato in prigione per due mesi perché era andato a picchiare suo marito per costringerlo a divorziare. Ha funzionato.

Aisha, una donna che vive a Bamiyan, ha raccontato ad AAN il suo caso:

Tre mesi fa ho scoperto che mio marito aveva un’altra moglie con cui aveva avuto una relazione prima di me. Siamo sposati da cinque anni e lui ha sposato quest’altra donna tre anni fa. È orribile e lui non dice mai niente contro di lei, anzi, lo ha pressato perché si liberasse di me. Non volevo più vivere con lui, volevo separarmi. Mi ha detto di divorziare, ma sapevo che sarebbe stato meglio se gli avessi chiesto di farlo io. E poiché mi comportavo molto bene con lui, ha acconsentito. Voleva divorziare da me solo con l’aiuto di mediatori o mullah. Ho rifiutato e ho detto che dovevamo andare in tribunale. Il giudice lo ha convocato a comparire.

In tribunale, il giudice mi chiese cosa stesse succedendo e lui disse che voleva divorziare da me. Così le cose finirono a mio favore.

Questo ha permesso ad Aisha di tenere il suo mahr di 40.000 afghani (560 dollari) invece di dover pagare un khul. Ma il tribunale non si è pronunciato su chi dovesse tenere l’oro che Aisha ha ricevuto come regalo di nozze, del valore di 150.000 afghani (2.100 dollari), né gli altri beni che le erano stati promessi. “Mi aveva promesso che mi avrebbe comprato un pezzo di terra a Kabul usando l’oro”, ha raccontato ad AAN. “Ma poi la seconda moglie mi ha detto che in realtà aveva venduto l’oro e lo aveva usato per pagare a suo padre 150.000 afghani (2.100 dollari) come prezzo della sposa”.

“Le opinioni delle persone non cambiano quando cambiano i governi”

In definitiva, qualsiasi metodo di divorzio disponibile nell’Emirato richiede alle donne di superare ostacoli significativi. In primo luogo, la maggior parte delle donne afghane non ha familiarità con le disposizioni hanafite sul divorzio, con i propri diritti e con l’applicazione della legge da parte dei tribunali. “Le donne non istruite pensano che questo sia il loro destino e che debbano tollerare la violenza”, ha detto Khairullah. “Non conoscono i loro diritti”.

Nessuna delle donne intervistate da AAN ha dichiarato di aver compreso appieno cosa le fosse successo. Questo era particolarmente evidente per Yasmin. Aveva rinunciato al suo mahr dopo aver risolto la sua causa tramite un khul, ma in realtà suo marito era impotente, il che significava che aveva effettivamente diritto a una separazione che le permettesse di mantenere il suo mahr.

Mio marito non era un uomo. In un certo senso, era debole. A dire il vero, non capivo la procedura di divorzio e non sapevo nemmeno di poterlo chiedere a causa della sua impotenza. Sapevo del khul perché mio fratello e mio padre me l’avevano spiegato, e mio padre aveva detto che avrebbe pagato per me se il tribunale avesse emesso il khul.

Nargis disse anche di non aver capito la legge:

Non sapevo nulla del procedimento. Quando mio marito mi picchiò e scappai a casa di mio padre, non sapevo che avrebbe potuto presentare una denuncia in tribunale, dichiarando che lo avevo lasciato. Non avevo idea di cosa sarebbe successo, non conoscevo il significato di un khul o di un tafriq, né di alcun altro procedimento. Non lo so ancora, nonostante il mio caso si sia concluso con un khul.

Farzana, di Takhar, non sapeva a quanto ammontasse il mahr, perché non le era mai stato detto cosa era stato concordato tra i suoi genitori e suo marito prima del matrimonio; pensava inoltre di non avere diritto a reclamare il mahr dal marito perché non avevano figli.

Gli avvocati hanno affermato che la situazione sta peggiorando perché i servizi e il supporto disponibili per le donne sotto i governi dell’era repubblicana – frammentari e insufficienti com’erano – sono stati smantellati. Il Ministero per gli Affari Femminili e i suoi dipartimenti provinciali sono stati sciolti, mentre molte delle ONG che in precedenza offrivano supporto legale non sono più in grado di farlo. “Non credo che le persone siano cambiate dal ritorno dei talebani”, ha detto Khairullah. “L’unico cambiamento è che sotto il governo precedente, i dipartimenti per gli Affari Femminili e gli organismi per i diritti umani informavano le donne sui loro diritti legali e sui diritti della sharia. Le donne venivano supportate, venivano nominati avvocati per loro, potevano persino trasferirsi in rifugi”. Imran, un avvocato di Ghor, ha affermato lo stesso: “Le opinioni della gente erano contrarie, ma ci sono stati casi di separazione perché c’erano agenzie che supportavano e sensibilizzavano come la Commissione Indipendente per i Diritti Umani dell’Afghanistan”.

Ma a prescindere dalla legge, dalle loro finanze o dal supporto disponibile, tutte le intervistate di AAN concordano sul fatto che l’estrema vergogna e lo stigma associati alla richiesta di divorzio siano – come sempre – il più grande ostacolo per le donne che vogliono porre fine al loro matrimonio. Rahmat, a Kabul, ha espresso la sua frustrazione al riguardo:

Le usanze popolari stanno portando a violazioni dei diritti delle donne. Mariti, famiglie e donne hanno adottato inconsapevolmente queste tradizioni dannose. Credono che una donna debba tacere, qualunque cosa gli altri le facciano. Ho studiato i sistemi legali di molti paesi islamici: Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Turchia. Solo in Afghanistan esistono restrizioni basate su usanze così regressive.

Yasmin, a Balkh, ha descritto l’atteggiamento della sua famiglia nei confronti del suo divorzio:

La prima volta che ho detto a mia madre che volevo divorziare, non era d’accordo. Tutta la mia famiglia diceva che, anche se fossi stata infelice, avrei dovuto vivere con lui. Continuavo a dire che non potevo, che non potevo proprio, e alla fine l’hanno accettato tutti. Onestamente, nessuno di loro voleva aiutarmi, erano tutti contrari. Sai, in Afghanistan ci sono delle regole. La mia famiglia diceva che si sarebbero fatti una cattiva reputazione.

Anche alcuni parenti di Farzana si sono vergognati quando lei si è rivolta al tribunale e le ha chiesto di restare sposata:

I miei zii mi dicevano di non divorziare. Io rispondevo solo che non stavano vivendo la mia vita e non capivano come stessi soffrendo. I parenti di mio marito erano così imbarazzati che gli dissero che avrebbero pagato le sue cure mediche per impedirgli di accettare di divorziare subito.

Mio padre e i miei amici mi hanno comunque sostenuto. Sanno tutti quanto ho sofferto. La mia famiglia mi ha detto che dovevo fare quello che volevo e non mi diranno di no, perché mi hanno già distrutto la vita una volta e non vogliono farlo una seconda.

“L’opinione pubblica non cambia quando cambiano i governi”, ha detto Qudrat, sottolineando che non si trattava di una novità. “È a causa dei nostri costumi e delle nostre tradizioni che le persone hanno opinioni negative sulle donne che vogliono divorziare”.

Ciononostante, durante la Repubblica, il crescente numero di donne che chiedevano il divorzio suggeriva che si sentissero più in grado di sfidare le tradizioni rispetto al passato. La legge dell’Emirato ora cospira con le usanze afghane per invertire questo cambiamento. La combinazione di entrambi i fattori significa che le donne afghane coinvolte in matrimoni violenti o infelici hanno poche opzioni di fuga. Le istituzioni che avrebbero dovuto proteggerle si sono dissolte, mentre i progetti di aiuto finanziati a livello internazionale destinati a sostenerle si sono prosciugati. Le quattro donne intervistate da AAN erano molto diverse, ma tutte condividevano due tratti: coraggio e determinazione. Sotto l’Emirato, qualsiasi donna che chieda il divorzio avrà bisogno di entrambi.

* Letty Phillips è una ricercatrice e analista che ha lavorato in Afghanistan dal 2021 al 2024.

A cura di Kate Clark e Rachel Reid

Revisioni:
Questo articolo è stato aggiornato l’ultima volta il 4 maggio 2025

ONU: il 70% delle donne in Afghanistan incontra difficoltà nell’accesso agli aiuti umanitari


Fidel Rahmati, The Khaama Press, 28 aprile 2025

Un recente rapporto delle Nazioni Unite evidenzia che il 70% delle donne in Afghanistan ha difficoltà ad accedere agli aiuti umanitari a causa di varie restrizioni

Un recente rapporto della Divisione Donne delle Nazioni Unite evidenzia che oltre il 70% delle donne in Afghanistan incontra notevoli ostacoli nell’accesso agli aiuti umanitari. Il rapporto indica la carenza di personale femminile nelle organizzazioni umanitarie e le restrizioni alla mobilità femminile come le ragioni principali di questa difficoltà.

Il rapporto, pubblicato domenica 27 aprile, esamina l’impatto di genere degli aiuti umanitari in Afghanistan. Afferma che le rigide normative talebane sulle donne, come la tutela maschile obbligatoria e i rigidi codici di abbigliamento, hanno gravemente limitato la partecipazione delle donne alla vita pubblica.

Inoltre, il rapporto sottolinea che il divieto imposto dai Talebani alle donne di lavorare per organizzazioni non governative (ONG) e agenzie delle Nazioni Unite (ONU) ha limitato l’accesso delle donne a servizi essenziali come assistenza sanitaria, istruzione, nutrizione e protezione. Ciò ha minato il ruolo delle donne nel definire risposte efficaci ed eque all’interno della comunità.

Uno dei risultati più preoccupanti è la persistente restrizione dell’istruzione per le ragazze, con solo il 43% delle ragazze in età scolare che riceve un’istruzione e praticamente nessuna ragazza tra i 13 e i 17 anni che frequenta la scuola. Questo contribuisce al perdurante ciclo di povertà nel Paese.

Il rapporto rivela inoltre che nel 2024 le pressioni economiche, in particolare sui nuclei familiari guidati da donne, si sono intensificate. Alcune famiglie sono state costrette a ricorrere a misure drastiche come saltare i pasti, ritirare i figli da scuola e matrimoni precoci.

Inoltre, la mancanza di operatrici sanitarie ha ridotto significativamente l’accesso delle donne ai servizi sanitari, peggiorando le condizioni di salute materna. Con un potere decisionale limitato nella società, le donne e le ragazze afghane affrontano rischi maggiori di violenza di genere e matrimoni precoci.

Nonostante queste difficoltà, le organizzazioni guidate da donne hanno svolto un ruolo fondamentale nella difesa dei diritti delle donne, ma hanno incontrato difficoltà a causa della mancanza di finanziamenti. Il rapporto raccomanda di aumentare il reclutamento di personale femminile nelle organizzazioni umanitarie e di fornire sostegno finanziario alle istituzioni guidate da donne per contribuire ad alleviare la situazione.

Il rapporto sottolinea la necessità critica del sostegno internazionale per garantire che le donne afghane possano accedere alle risorse e ai diritti a cui hanno diritto. Con l’aggravarsi della crisi umanitaria, gli sforzi per l’emancipazione delle donne e per garantire la loro partecipazione al processo di ricostruzione sono cruciali per la stabilità e il progresso a lungo termine dell’Afghanistan.