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Autore: CisdaETS

Disarmo in Kurdistan: lezioni da un atto storico

Centro Studi Sereno Regis, 18 luglio 2025, di Matt Meyer*

Dopo decenni di lotta armata, un atto di disarmo in Kurdistan: il PKK depone le armi e apre un nuovo capitolo nonviolento nel movimento indipendentista curdo.

L’11 luglio, sulle colline del nord dell’Iraq, si è svolta una scena che avrebbe scosso anche il più esperto attivista per il disarmo. Scendendo lungo un ripido sentiero verso un’area improvvisata circondata da diverse centinaia di membri della comunità e sostenitori, 30 guerriglieri pesantemente armati, almeno la metà dei quali donne, si sono diretti verso un grande barile grigio per consegnare le armi.

Fanno parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, un gruppo paramilitare e politico formato nel 1978 per unire le popolazioni curde che vivono in Iraq, Iran, Siria e Turchia e lottare per l’indipendenza. Il PKK ha deciso di deporre le armi con una cerimonia di rogo delle scorte di armi portate da ciascuno dei guerriglieri. Sperano che questo atto unilaterale di cessate il fuoco dia inizio a un nuovo processo politico con il governo turco, che finora si è mostrato insensibile.

Il giorno e la decisione che lo ha preceduto non erano privi di profonde radici nella lotta per la libertà del Kurdistan. Nel 1923, quando la regione era governata dallo sceicco Mahmoud, re del Kurdistan, l’esercito britannico cercò di proteggere il suo recente mandato sulla regione mesopotamica e tutte le ricche riserve di petrolio che essa comportava. Mahmoud si rifugiò nella grotta di Jasana, dove l’11 luglio si svolse la cerimonia. Chiese ai suoi seguaci di trasferirsi nella regione per motivi di sicurezza e aiutò a pubblicare dalla grotta il primo giornale moderno di resistenza anticoloniale curdo. Nel corso dell’ultimo secolo, la grotta è stata utilizzata come importante rifugio per i resistenti armati e non violenti che hanno affrontato le forze anti-curde, compresa la campagna genocida Anfal di Saddam Hussein.

L’amato leader curdo, teorico e prigioniero politico di lunga data Abdullah Öcalan, fondatore del PKK, ha chiesto lo scioglimento del partito il 25 febbraio, a oltre 26 anni dalla sua cattura e dalla sua detenzione. L’attento seguito dato a tale appello da parte di gruppi all’interno del PKK – e il successivo appello di Öcalan ai combattenti del PKK a deporre le armi – ha portato agli eventi di disarmo dell’11 luglio.

C’è stata anche un’ampia dichiarazione da parte di un “Gruppo per la pace e la società democratica” emerso negli ultimi mesi. Formatosi in seguito a recenti incontri con Öcalan, il gruppo sta lavorando per riunire i popoli curdi di tutte le principali regioni e paesi, nonché di diversi orientamenti politici e strategici. I suoi membri hanno rilasciato una dichiarazione ampia e coraggiosa durante la cerimonia alla grotta di Jasana, l’unica comunicazione consentita quel giorno.

Il gruppo ha sottolineato che l’atto di “distruggere volontariamente le nostre armi, davanti a voi” è stato considerato “un gesto di buona volontà e determinazione”. Hanno affermato di averlo fatto in conformità con la dichiarazione di Öcalan, nella convinzione di non credere “nelle armi” ma nel potere del popolo. Hanno affermato che il loro atto di disarmo è stato compiuto “con grande orgoglio e onore nel fare ciò che è necessario per questo principio storico”.

La dichiarazione è stata letta ad alta voce in modo drammatico in curdo da Besê Hozat, copresidente del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità del Kurdistan e attiva sostenitrice del femminismo e della leadership femminile. È stata letta anche in turco e distribuita in inglese e in altre lingue a tutti i presenti. “Data la crescente pressione fascista e lo sfruttamento in tutto il mondo e l’attuale bagno di sangue in Medio Oriente”, si legge nella dichiarazione, “il nostro popolo ha più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, equa e democratica”.

Sebbene rimangano ancora alcune questioni aperte su come contribuire a soddisfare queste esigenze a livello locale, è probabile che i cambiamenti avverranno attraverso progetti e campagne in materia di istruzione, assistenza sanitaria, alfabetizzazione, emancipazione delle donne e apprendimento delle pratiche democratiche. Programmi di questo tipo hanno già avuto molto successo nelle comunità curde della Siria, nell’area che è diventata nota come Rojava.

Al di là del significato di queste parole e azioni per il popolo del Kurdistan, della Turchia, dell’Iraq e della Siria, la lotta per la libertà dei curdi e le sue attuali iniziative segnalano sfide vitali per i movimenti di resistenza globali ovunque. Ecco tre elementi del movimento curdo che sono stati fondamentali per la sua popolarità e il suo successo e che potrebbero essere di beneficio alle forze progressiste di tutto il mondo.

1. La centralità delle donne in tutti i settori della lotta
Molto più che un semplice fenomeno locale isolato, il movimento di resistenza del Rojava è da tempo un esempio di esercizio dei diritti delle donne anche in mezzo a una guerra attiva e a pratiche patriarcali profonde. Per alcuni analisti e attivisti che hanno fatto parte o studiato il Rojava, la regione curda della Siria contemporanea – controllata dall’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria, o DAANES – ha la maggiore parità di genere di qualsiasi governo al mondo.

In un recente articolo della femminista e ambientalista britannica Natasha Walter, lo slogan che afferma la vita “Donne, Vita, Libertà” è presentato non solo come un grido di battaglia retorico, ma come una celebrazione dei cambiamenti in atto anche al di là delle comunità curde che hanno coniato la frase. Durante le ricerche per un libro sui movimenti di resistenza femminista, Walter è giunta a una conclusione chiara sulle donne della DAANES e delle diverse comunità curde: “Queste donne sono probabilmente le femministe più determinate che abbia mai incontrato”.

Non è difficile capire dove alcune di queste idee abbiano preso forma. Anche in questo caso, il ruolo di Öcalan è importante. La sua affermazione secondo cui “un paese non può essere libero se le donne non sono libere” ha guidato la pratica in gran parte del Kurdistan per più di un decennio. In un opuscolo del 2013, “Liberating Life, Women’s Revolution” (Liberare la vita, la rivoluzione delle donne), ha scritto: “La misura in cui la società può essere trasformata radicalmente è determinata dalla misura della trasformazione raggiunta dalle donne. Allo stesso modo, il livello di libertà e uguaglianza delle donne determina la libertà e l’uguaglianza di tutti i settori della società”.

La trasformazione delle relazioni nella regione del Rojava è stata notata da molte femministe internazionaliste di spicco, tra cui l’accademica e attivista Meredith Tax. Lei ha scritto chiaramente che il Rojava e i movimenti curdi ad esso collegati erano “il posto migliore in Medio Oriente per essere una donna” e un esperimento attivo degno di studio e sostegno a livello globale.

2. La natura mutevole dello Stato-nazione
L’idea che gli “Stati” non debbano necessariamente essere il principale modo in cui le persone interagiscono tra loro non è esclusiva dei pensatori anarchici o del movimento curdo. Esempi di precedenti sfide ai modelli nazionalisti includono le Black Panthers e il movimento zapatista messicano. Sono passati molti decenni da quando i radicali potevano dare per scontato che tutte le grandi lotte fossero basate sulla liberazione nazionale. Con questo non si vuole dire che la centralità vitale della terra sia diminuita o che l’identità “nazionale” di una persona non sia importante.

Tuttavia, l’era delle lotte di liberazione nazionale basate sulla conquista di Stati nuovi o appena liberati è ormai tramontata da tempo. Anche i nuovi Stati nazionali progressisti che sono emersi, come ad esempio il Sud Sudan, sono nati più dalla mediazione e dal compromesso che da efficaci lotte di liberazione. L’introduzione curda del “confederalismo democratico” deve essere vista in questo contesto più ampio. Gli ideali insiti nel confederalismo democratico includono la democrazia diretta, l’autonomia, l’ecologia politica, il femminismo, il multiculturalismo, l’autodifesa, l’autogoverno e le economie cooperative.

Anche in questo caso, il lavoro e le parole di Besê Hozat sono istruttivi. Commentando l’azione dell’11 luglio, ha osservato che i guerriglieri curdi che hanno deposto le armi non volevano semplicemente scendere dalle montagne e deporre le armi. “Vogliamo diventare pionieri della politica democratica”, ha osservato, “ad Amed, Ankara e Istanbul”. Il potere politico, l’autonomia e la democrazia, secondo l’analisi di Hozat e di molti esponenti del movimento curdo, non significano che vogliano costruire un nuovo Stato-nazione.

“Un sistema statale non sarebbe vantaggioso per il popolo curdo, ma una spina nel fianco”, ha dichiarato a New Internationalist nel 2017.

“Approfondirebbe la lotta con i nostri vicini e porterebbe decenni di guerra contro gli arabi, oltre che caos e sofferenza”.

Con il popolo curdo sparso in almeno quattro nazioni esistenti (alcune in forte conflitto tra loro), l’idea di attraversare i confini esistenti per riunire comunità separate artificialmente sembra particolarmente allettante, e non solo nel contesto curdo. Il superamento dei confini e delle frontiere attuali è stato discusso in circoli panafricanisti, delle isole del Pacifico e in altri circoli decolonizzatori. Tra questi vi è l’Occupied People’s Forum, che riunisce leader della resistenza ancora colonizzati provenienti dal Kurdistan/Rojava, dal Kashmir, dalla Palestina, da Porto Rico, dal Sahara occidentale, dalla Papua occidentale, dal Tibet e dall’Ambazonia.

Le iniziative strategiche e tattiche dei movimenti curdi che trascendono qualsiasi regione o singola struttura organizzativa curda sono istruttive per tutte queste lotte attive. Nel succinto quadro per il futuro delineato da Hozat: «L’era dello Stato-nazione è finita».

3. La dialettica della nonviolenza, della rivoluzione e della lotta armata
Ci sono poche prove storiche che suggeriscano che i principi pacifisti o una revisione scientifica delle ricerche sulla resistenza civile abbiano portato alla decisione curda. Piuttosto, il movimento curdo sta esplorando opzioni basate sulle esperienze e sulle condizioni odierne, guardando avanti per capire quali tattiche si adattino meglio al movimento e ai suoi popoli. Come ha affermato Hozat: «Per un movimento che invoca una politica democratica, le armi sono ora un ostacolo. Vogliamo rimuovere questi ostacoli con serietà e responsabilità».

Il Gruppo per la Pace e la Democrazia e la leadership del movimento curdo non sono certo i primi a concludere che sono necessarie nuove metodologie per le nuove condizioni che stanno affrontando.

Nel 2018, il Fronte Polisario del Sahara Occidentale ha contribuito a coordinare la conferenza Sahara Rise, che ha riunito diversi settori della società saharawi per esaminare e orientare le loro politiche verso la resistenza civile nonviolenta.

Dopo decenni di resistenza multiforme che si è orientata fortemente verso la guerriglia urbana, i militanti portoricani associati ai movimenti armati sono diventati più aperti al potere strategico dell’azione diretta nonviolenta e della disobbedienza civile. Nelle parole dell’ex prigioniera politica portoricana Alejandrina Torres, “Ogni periodo storico attraversa delle fasi, e noi dobbiamo crescere e svilupparci in risposta ai tempi”.

L’iniziativa del gruppo curdo contemporaneo è diversa solo per intensità e precisione pragmatica. Ha iniziato questa nuova fase con una serie di conversazioni e azioni diffuse che guardano con attenzione al futuro. In una valutazione dell’autrice e attivista olandese Fréderike Geerdink, l’atto unilaterale di cessate il fuoco del 2025 è ben lungi dall’essere un segno di resa, sconfitta o debolezza, ma semplicemente il riconoscimento che lottare per la libertà con le armi militari “non è più ‘logico’” nel periodo attuale.

Affinché questo esperimento con mezzi non violenti funzioni al meglio, il movimento curdo spera che le sue azioni per “una pace onorevole” non siano un’iniziativa unilaterale. Qualunque sia la risposta delle forze avversarie, le azioni di luglio si sono intraprese in risposta a una valutazione delle esigenze della popolazione. Come ha affermato l’attivista curda Nilüfer Koç, portavoce della Commissione per le relazioni estere del Congresso nazionale curdo:

“Dobbiamo andare avanti con speranza”.

Gli atti di disarmo diretto dell’11 luglio nella regione montuosa del Kurdistan iracheno danno concrete ragioni di nuova speranza al popolo curdo e a tutti noi.

*Fonte: Waging Nonviolence, 15 luglio 2025

Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis

L’esodo invisibile degli afghani cacciati dall’Iran, 500mila da giugno

Il manifesto, 17 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Iran-Afghanistan Il pretesto: sono «collusi con il nemico sionista». Ogni giorno dal posto di confine più trafficato passano da 35mila a 50mila persone

Teheran mostra i muscoli e rispedisce in patria centinaia di migliaia di afghani, innescando una bomba demografica e sociale che l’Emirato islamico, il governo dei Talebani, non è in grado di gestire, e che qualunque governo avrebbe difficoltà a governare.

DA DIVERSE settimane l’Iran ha intensificato un processo avviato da mesi: dopo la guerra lampo con Israele, in qualche modo approfittando di una crisi che è economica oltre che politica e militare, ha accelerato le deportazioni dei migranti afghani, considerati una minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza interna. Almeno cinquecentomila quelli rispediti oltre confine da inizio giugno, soprattutto attraverso le province afghane di Herat e di Nimruz, 1 milione e trecentomila dall’inizio dell’anno, con la minaccia di rimpatriarne altrettanti. Gli afghani sono accusati di «collusione con il nemico sionista», di fornire informazioni a Israele, di violare le leggi sull’immigrazione, di gravare sulle casse dello Stato o di commettere crimini.

Accuse ingiuste, ma sufficienti a scatenare un flusso migratorio senza precedenti, anche in chiave storica: l’Iran è infatti, insieme al Pakistan, il Paese che negli ultimi 4 decenni più ha accolto la diaspora afghana, diventando una destinazione prioritaria soprattutto per quegli afghani che cercavano e cercano maggiore sicurezza economica e, dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, in alcuni casi anche sicurezza fisica, incolumità personale. Ogni giorno, nel posto di confine più trafficato, Islam Qala, che divide la città iraniana di Mashad da quella afghana di Herat, si registrano dai trentamila ai cinquantamila attraversamenti. Numeri impressionanti, che hanno spinto Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul, a visitare Islam Qala due giorni fa.

OTUNBAYEVA ha richiamato alle proprie responsabilità la comunità internazionale: «L’enorme volume di ritorni, molti di questi bruschi e involontari, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme in tutta la comunità globale. È una prova della nostra umanità collettiva. L’Afghanistan, già alle prese con la siccità e una crisi umanitaria cronica, non può assorbire questo shock da solo», ha detto Otunbayeva nel corso della visita, accompagnata dalle autorità di fatto. Ha poi lanciato un appello ai donatori: «Non voltatevi dall’altra parte. I rimpatriati non devono essere abbandonati».

Il suo appello finirà pressoché nel vuoto, come quello, di poche ore prima, di Tom Fletcher, il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu. Dopo una recente visita nel Paese, il suo ufficio ha rivolto un nuovo appello finanziario per soddisfare i bisogni primari della popolazione afghana e per un Paese dove, ha ricordato Fletcher, «in pochi mesi sono stati chiusi 400 presidi sanitari» per mancanza di fondi. Ma i soldi faticano ad arrivare. Spesso con il pretesto che al governo ci sono i Talebani, la cui macchina della diplomazia si è attivata per provare a convincere Teheran a rallentare i rimpatri. L’Iran, da parte sua, non fa altro che replicare quanto fa da poco meno di due anni Islamabad.

IL GOVERNO pachistano dalla fine del 2023 ha già rimpatriato 1 milione di persone, considerate senza documenti validi (parte dei quali nata in Pakistan), nell’ambito di un ambizioso piano di rimpatri forzati la cui seconda fase è iniziata l’1 aprile. Un piano usato anche come leva negoziale con il governo di Kabul, che è già alle prese con una profondissima crisi umanitaria: sono 23 milioni gli afghani che, secondo le agenzie dell’Onu, hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere.

Senzatetto a casa: i rimpatriati si scontrano con gli affitti alle stelle e la negligenza dei talebani

KabulNow, 18 luglio 2025, di Maisam Iltaf

Quando l’anno scorso Ghulam Farooq ha affittato una modesta casa nella provincia occidentale di Herat, in Afghanistan, credeva di aver trovato stabilità per la sua famiglia. Oggi, quel senso di sicurezza è svanito. Il suo padrone di casa, emigrato in Iran, è tornato e ha intimato a Farooq di andarsene immediatamente.

“Da un mese il mio padrone di casa è tornato e mi ha detto di cercare un’altra casa”, ha raccontato Farooq a KabulNow. “Ho dovuto chiudere la mia attività per cercare un alloggio, ma non c’è niente di disponibile. E se c’è una casa disponibile, l’affitto è tre volte più alto di prima”.

La situazione di Farooq riflette le difficoltà di migliaia di rimpatriati e inquilini locali, mentre le deportazioni da Iran e Pakistan aumentano, spingendo il già fragile mercato immobiliare afghano sull’orlo del baratro. Herat, centro urbano e nodo di transito chiave, è diventato il punto zero di questa crisi.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) segnala che oltre 1,2 milioni di migranti sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025 – oltre 574.000 solo dall’Iran questo mese, molti dei quali sono entrati attraverso il valico di frontiera di Herat, a Islam Qala. La maggior parte di loro sono donne e bambini.

La portata di questo rimpatrio è senza precedenti, rendendolo uno dei più grandi spostamenti di popolazione di quest’anno. I centri di assistenza a breve termine e le infrastrutture locali, già indeboliti da anni di conflitto e mancanza di finanziamenti, sono sovraffollati.

Gli affitti salgono alle stelle, la disponibilità diminuisce

Gli agenti immobiliari locali affermano che la domanda è salita alle stelle. Qader (pseudonimo), che gestisce un’agenzia immobiliare, spiega che le richieste giornaliere da parte di famiglie disperate superano di gran lunga gli annunci disponibili.

“Ricevo più di 100 clienti al giorno, ma non ho immobili da offrire”, dice Qader. “Una casa che prima costava 3.000-4.000 afghani ora costa 7.000. Case che costavano 10.000 afghani ora costano 15.000-20.000.”

Altri rapporti confermano un aumento del 40-50% degli affitti nelle principali città a seguito di restituzioni di massa.

L’OIM afferma che oltre 1,2 milioni di migranti afghani sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025. Foto d’archivio
Questo ha lasciato le famiglie locali a basso e medio reddito a dover pagare un prezzo troppo alto, poiché molti rimpatriati arrivano esausti e a mani vuote. Hamidullah, deportato dall’Iran, ha descritto il calvario:

Sono tornato 20 giorni fa. Le mie cose sono al sole a casa di mio fratello. Una casa che prima costava 4.000 afghani ora ne costa 6.000-7.000. A nessuno importa della nostra lotta. Lo stress e l’incertezza sono insopportabili.

Il crollo del mercato immobiliare è solo la punta dell’iceberg. L’economia afghana, paralizzata dall’isolamento internazionale e dal ritiro degli aiuti dopo la presa del potere da parte dei talebani, ha tassi di disoccupazione superiori al 30%, secondo la Banca Mondiale. Senza lavoro, i rimpatriati non solo non hanno un tetto, ma anche una speranza.

Gli effetti a catena sono disastrosi. Le famiglie che hanno venduto i propri beni o contratto prestiti per emigrare ora si trovano ad affrontare debiti crescenti. Gli arrivi basati sulla comunità, come Ghulam e Hamidullah, dipendono da servizi di assistenza sovraffollati, ma i finanziamenti rimangono limitati. La Croce Rossa avverte che entro la fine del 2025 potrebbero arrivare fino a un altro milione di rimpatriati dall’Iran.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto un coordinamento con i Talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. I paesi donatori rimangono riluttanti a finanziare programmi che potrebbero legittimare l’autorità dei Talebani, mentre le rigide politiche del regime, come le restrizioni all’occupazione femminile, erodono ulteriormente la fiducia.

Di conseguenza, gli sforzi di reintegrazione si basano su aiuti umanitari a breve termine: pacchi alimentari, assistenza medica di base e rifugi temporanei nelle zone di confine. Queste misure tampone rappresentano solo la superficie di un problema che, avvertono gli esperti, potrebbe destabilizzare i centri urbani.

La risposta vuota dei talebani

Sotto la pressione dell’opinione pubblica, le autorità talebane affermano di monitorare il mercato degli affitti e di aver messo in guardia i proprietari contro “aumenti ingiustificati degli affitti”. Manifesti a Herat invitano i residenti a denunciare i proprietari che sfruttano gli immobili. Ma per gli inquilini, questi avvertimenti suonano vuoti.

“Nessuno osa lamentarsi”, ha detto un residente di Herat. “Se segnaliamo un proprietario, verremo sfrattati immediatamente o subiremo abusi. Non c’è alcuna tutela legale per gli inquilini”.

Il Ministero dello Sviluppo Urbano, sotto il regime talebano, ha annunciato piani per progetti di edilizia popolare nel 2022, ma non si sono registrati progressi visibili. I funzionari citano la mancanza di fondi, ma gli analisti sostengono che il problema risieda nella governance: l’isolamento dei talebani dalla finanza internazionale ha impedito al regime di finanziare iniziative di edilizia popolare o di pianificazione urbana su larga scala.

“I talebani non hanno né le risorse né le competenze tecniche per gestire una crisi di questa portata”, ha affermato un urbanista di Kabul. “Si sono concentrati quasi esclusivamente sulla sopravvivenza politica e sul controllo religioso, non sullo sviluppo delle infrastrutture”.

In città come Herat, gli uffici comunali operano con personale ridotto e budget ridotti al minimo. Non esistono programmi strutturati per il controllo degli affitti, né sussidi per i rimpatriati, né un quadro giuridico per prevenire gli sfratti forzati.

Implicazioni umanitarie

La crisi immobiliare di Herat rispecchia le tendenze nazionali. A Kabul, un’indagine di Salam Watandar ha mostrato che i costi degli affitti sono aumentati del 40% in tre anni a causa dell’ondata di rimpatri e del deterioramento delle condizioni economiche. In tutto l’Afghanistan, l’UNHCR e altre agenzie avvertono dell’imminente “crisi dimenticata”, con la diminuzione delle risorse.

Dal 2023, questo afflusso senza precedenti, aggravato dalle deportazioni da Iran e Pakistan, ha messo a dura prova la capacità di risposta umanitaria dell’Afghanistan. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), oltre 23,7 milioni di persone – più della metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria nel 2025, con i rimpatri forzati che aggiungono ulteriore pressione a risorse già ridotte.

L’UNHCR conferma che ben 1,6 milioni di rimpatriati, compresi quelli provenienti dal Pakistan, hanno messo a dura prova le comunità. Le organizzazioni umanitarie sottolineano che decine di migliaia di famiglie sono ora senza casa, senza riparo, acqua o assistenza sanitaria, mentre la malnutrizione e le malattie mentali sono in aumento.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto il coordinamento con i talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. Foto: UNAMA
L’ONU ha chiesto un urgente sostegno internazionale.

“Senza un intervento immediato – iniziative per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili, creazione di posti di lavoro e sostegno sociale – milioni di persone rischiano di essere spinte ancora più in basso nella povertà”, ha avvertito un funzionario dell’OIM sul campo.

Gli esperti affermano che la soluzione sostenibile risiede nello sviluppo edilizio su larga scala e nella regolamentazione del mercato degli affitti, misure che richiedono risorse, governance e cooperazione internazionale, tutti aspetti che rimangono irraggiungibili sotto il regime talebano. Nel frattempo, le deportazioni da Iran e Pakistan non accennano a rallentare.

Se le deportazioni continueranno, gli esperti avvertono che i centri urbani afghani potrebbero collassare sotto il peso del fenomeno, causando disordini sociali e sfollamenti. I rimpatriati indifesi potrebbero tentare di migrare nuovamente, alimentando flussi irregolari e instabilità.

Per Farooq, Hamidullah e innumerevoli famiglie, il futuro è pieno di rischi.

“Tutto ciò che vogliamo è un tetto sopra la testa”, sussurrò Hamidullah a bassa voce. “Siamo tornati in patria, ma siamo ancora senza casa.”

[Trad. automatica]

L’amministrazione Trump sta per incenerire 500 tonnellate di cibo di emergenza

The Atlantic, 14 luglio 2025, di Hana Kiros

Per mesi i dipendenti federali avevano lanciato l’allarme: i biscotti ad alto contenuto energetico sarebbero andati sprecati.

A cinque mesi dall’inizio dello smantellamento senza precedenti dei programmi di aiuti esteri, l’amministrazione Trump ha dato ordine di incenerire il cibo invece di inviarlo alle persone all’estero che ne hanno bisogno. Quasi 500 tonnellate di cibo di emergenza – sufficienti a sfamare circa 1,5 milioni di bambini per una settimana – scadranno domani, secondo attuali ed ex dipendenti governativi a conoscenza diretta delle razioni. Entro poche settimane, mi hanno detto due di queste fonti, il cibo, destinato ai bambini in Afghanistan e Pakistan, diventerà cenere. (Le fonti con cui ho parlato per questo articolo hanno chiesto l’anonimato per timore di ripercussioni professionali.)

Verso la fine dell’amministrazione Biden, l’USAID ha speso circa 800.000 dollari per i biscotti ad alto contenuto energetico, mi hanno detto un dipendente attuale e un ex dipendente dell’agenzia. I biscotti, che contengono il fabbisogno nutrizionale di un bambino sotto i 5 anni, sono una soluzione temporanea, spesso utilizzata in situazioni in cui le persone hanno perso la casa a causa di un disastro naturale o sono fuggite da una guerra prima che le organizzazioni umanitarie riuscissero ad allestire una cucina per accoglierle. Erano conservati in un magazzino di Dubai e dovevano essere destinati ai bambini quest’anno.

Da gennaio, quando l’amministrazione Trump ha emesso un ordine esecutivo che ha bloccato praticamente tutti gli aiuti esteri americani, i dipendenti federali hanno inviato ai nuovi leader politici di USAID ripetute richieste di spedizione dei biscotti finché erano utili, secondo i due dipendenti di USAID. USAID ha acquistato i biscotti con l’intenzione di farli distribuire dal Programma Alimentare Mondiale e, in circostanze precedenti, il personale di carriera avrebbe potuto consegnarli all’agenzia delle Nazioni Unite di propria iniziativa. Ma da quando il Dipartimento per l’Efficienza Governativa di Elon Musk ha sciolto USAID e il Dipartimento di Stato ha assorbito l’agenzia, nessun denaro o voce di aiuto può essere trasferita senza l’approvazione dei nuovi responsabili degli aiuti esteri americani, mi hanno detto diversi dipendenti attuali ed ex dipendenti di USAID. Da gennaio a metà aprile, la responsabilità è ricaduta su Pete Marocco, che ha lavorato in diverse agenzie durante la prima amministrazione Trump; poi è passata a Jeremy Lewin, un laureato in giurisprudenza sulla ventina, originariamente nominato dal DOGE e ora ricopre incarichi sia presso USAID che presso il Dipartimento di Stato. Due dipendenti dell’USAID mi hanno detto che i membri dello staff che hanno inviato le note per richiedere l’autorizzazione a trasferire il cibo non hanno mai ricevuto risposta e non sapevano se Marocco o Lewin le avessero mai ricevute. (Il Dipartimento di Stato non ha risposto alle mie domande sul perché il cibo non fosse mai stato distribuito.)

A maggio, il Segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato ai rappresentanti della Commissione Stanziamenti della Camera che avrebbe garantito che gli aiuti alimentari raggiungessero i destinatari previsti prima di deteriorarsi. Ma a quel punto, l’ordine di incenerire i biscotti (che ho poi esaminato) era già stato inviato. Rubio ha insistito affinché l’amministrazione si assumesse la responsabilità americana di continuare a salvare vite umane straniere, anche attraverso gli aiuti alimentari. Ma ad aprile, secondo NPR , il governo statunitense ha eliminato tutti gli aiuti umanitari all’Afghanistan e allo Yemen, dove, secondo il Dipartimento di Stato, fornire cibo rischia di avvantaggiare i terroristi. (Il Dipartimento di Stato non ha fornito alcuna giustificazione analoga per il ritiro degli aiuti al Pakistan). Anche se l’amministrazione non fosse stata disposta a inviare i biscotti ai Paesi originariamente previsti, altri luoghi – ad esempio il Sudan, dove la guerra sta alimentando la peggiore carestia mondiale degli ultimi decenni – avrebbero potuto trarne beneficio. Invece, i biscotti nel magazzino di Dubai continuano ad avvicinarsi alla data di scadenza, dopo la quale il loro contenuto di vitamine e grassi inizierà a deteriorarsi rapidamente. A questo punto, la politica degli Emirati Arabi Uniti impedisce persino che i biscotti vengano riutilizzati come mangime per animali.

Nelle prossime settimane, il cibo verrà distrutto con un costo di 130.000 dollari per i contribuenti americani (oltre agli 800.000 dollari utilizzati per acquistare i biscotti), secondo gli operatori umanitari federali con cui ho parlato, attuali ed ex. Un attuale membro dello staff di USAID mi ha detto di non aver mai visto così tanti biscotti distrutti nei suoi decenni di lavoro negli aiuti umanitari esteri americani. A volte il cibo non viene conservato correttamente nei magazzini, oppure un’alluvione o un gruppo terroristico complica le consegne; questo potrebbe comportare, al massimo, la perdita di qualche decina di tonnellate di alimenti fortificati in un anno. Ma molti degli operatori umanitari con cui ho parlato hanno ribadito di non aver mai visto prima il governo statunitense rinunciare semplicemente a cibo che avrebbe potuto essere utilizzato con successo.

I biscotti di emergenza destinati alla distruzione rappresentano solo una piccola frazione del tipico investimento annuale degli Stati Uniti in aiuti alimentari. Nell’anno fiscale 2023, USAID ha acquistato oltre 1 milione di tonnellate di cibo da produttori statunitensi. Ma il crollo degli aiuti esteri americani aumenta la posta in gioco di ogni perdita. In genere, i biscotti sono la prima cosa che gli operatori del Programma Alimentare Mondiale consegnano alle famiglie afghane costrette a lasciare il Pakistan e a tornare nel loro Paese d’origine, afflitto da anni da una grave malnutrizione infantile. Ora il WFP può sostenere solo un afghano su 10 che ha urgente bisogno di assistenza alimentare. Il WFP stima che, a livello globale, 58 milioni di persone siano a rischio di fame estrema o di carestia perché quest’anno non ha i fondi per sfamarle. Secondo i calcoli di uno degli attuali dipendenti di USAID con cui ho parlato, il cibo destinato alla distruzione avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno nutrizionale di ogni bambino che affronta un’insicurezza alimentare acuta a Gaza per una settimana.

Nonostante le ripetute promesse dell’amministrazione di continuare gli aiuti alimentari e la testimonianza di Rubio, che non avrebbe permesso che il cibo esistente andasse sprecato, altri prodotti alimentari potrebbero presto esaurirsi. Centinaia di migliaia di scatole di paste alimentari di emergenza, già acquistate, stanno attualmente accumulando polvere nei magazzini americani. Secondo gli inventari USAID di gennaio, oltre 60.000 tonnellate di cibo – in gran parte coltivato in America e già acquistato dal governo statunitense – erano all’epoca depositate in magazzini in tutto il mondo. Tra queste, 16.000 tonnellate di piselli, olio e cereali, immagazzinate a Gibuti e destinate alla distribuzione in Sudan e in altri paesi del Corno d’Africa. Un’ex funzionaria di alto livello dell’Ufficio per l’Assistenza Umanitaria di USAID mi ha detto che, quando ha lasciato il suo incarico all’inizio di questo mese, sembrava che si fosse spostata solo una minima parte del cibo; uno degli attuali dipendenti USAID con cui ho parlato ha confermato la sua impressione, sebbene abbia osservato che, nelle ultime settimane, piccole spedizioni hanno iniziato a lasciare il magazzino di Gibuti.

Tali operazioni sono più difficili da gestire per USAID oggi rispetto allo scorso anno, perché molti degli operatori umanitari e degli esperti della catena di approvvigionamento che un tempo coordinavano la distribuzione di cibo americano alle persone affamate in tutto il mondo non hanno più il lavoro. Il mese scorso, gli amministratori delegati delle due aziende americane che producono un altro tipo di cibo di emergenza per bambini malnutriti hanno entrambi dichiarato al New York Times che il governo sembrava incerto su come spedire il cibo già acquistato. Né, mi hanno detto, hanno ricevuto nuovi ordini. (Un portavoce del Dipartimento di Stato mi ha detto che il dipartimento ha recentemente approvato ulteriori acquisti, ma entrambi gli amministratori delegati mi hanno detto di non aver ancora ricevuto gli ordini. Il Dipartimento di Stato non ha risposto ad ulteriori domande su questi acquisti). Ma anche se l’amministrazione Trump decidesse domani di acquistare altri aiuti alimentari – o semplicemente distribuire ciò che il governo possiede già finché il cibo è ancora utile – potrebbe non essere più in grado di garantire che qualcuno li riceva.

[Trad. automatica]

Il Regno Unito ha evacuato segretamente migliaia di persone dall’Afghanistan

Il Post, 15 luglio 2025

A partire dalla primavera del 2024 il Regno Unito ha avviato un programma finora segreto con cui ha accolto migliaia di persone afghane che volevano scappare dal paese dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, nell’agosto del 2021, e il ritorno al potere dei talebani. L’esistenza del programma è stata resa nota solo oggi: tutte le informazioni in merito sono state per anni riservate per via dell’ordine di un tribunale.

L’inizio del programma è legato a un fatto successo a febbraio del 2022: un funzionario del ministero della Difesa britannico rese pubblici per errore dati e informazioni sensibili su quasi 19mila persone afghane che avevano collaborato in qualche modo con il governo britannico, e che dopo il ritorno dei talebani avevano fatto domanda per essere trasferite dall’Afghanistan al Regno Unito (l’esercito britannico arrivò in Afghanistan nel 2001 al fianco di quello statunitense, e se ne andò nel 2021).

Il governo britannico, allora guidato dai Conservatori, apprese dell’errore ad agosto del 2023, quando le informazioni di alcune persone afghane coinvolte nella fuga di dati iniziarono a comparire online. A quel punto il governo decise di avviare un programma di ricollocamento segreto, chiamato Afghan Relocation Route (ARR), per timore che qualcuna tra le persone citate potesse subire ripercussioni.

Il ministero della Difesa britannico ottenne da un tribunale un’ingiunzione di non pubblicazione: in sostanza venne vietato parlare del caso, e come detto sia l’errore del funzionario sia il programma di ricollocamento sono rimasti segreti fino a oggi, quando l’ordine è stato sollevato. Nel frattempo è stata condotta un’indagine commissionata dal ministero, secondo cui la pubblicazione di quei dati non ha messo particolarmente a rischio i cittadini afghani coinvolti.

Finora il programma segreto ha facilitato l’arrivo nel Regno Unito di 4.500 persone, tra collaboratori afghani e i loro familiari, ed è costato circa 400 milioni di sterline (460 milioni di euro). Altre 2.400 persone hanno già avviato le pratiche per trasferirsi e lo faranno a breve: in totale il costo dell’operazione è stimato in 850 milioni di sterline, quasi un miliardo di euro. L’attuale governo, dei Laburisti, ha detto di aver interrotto il programma, quindi non saranno più accettate nuove richieste.

Nessuno vuole più i rifugiati afghani, i Paesi che li ospitano vogliono rimpatriarli: rischio crisi umanitaria

Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2025, di Davide Cancarini

Pakistan, Iran e Tagikistan (ma ci sta pensando anche la Germania) impongono il rimpatrio di migliaia di afghani, mentre i Talebani faticano a gestire l’emergenza

Il governo dei Talebani in Afghanistan sta ottenendo importanti successi diplomatici e una crescente legittimazione regionale che ha portato addirittura la Russia a riconoscere ufficialmente il regime che guida Kabul, primo Paese al mondo a compiere questo passo controverso. Se da un lato quindi le cancellerie dell’area approfondiscono la propria relazione con il movimento fondamentalista, dall’altro alcune di esse stanno stringendo le maglie nei confronti dei rifugiati afghani.

A iniziare quasi due anni fa è stato il Pakistan, gigante asiatico che confina con l’Afghanistan e che ospita, o forse sarebbe meglio dire ospitava, circa 4 milioni di rifugiati provenienti dal Paese vicino. Molti di essi erano presenti sul territorio pachistano da ben prima dell’agosto 2021 e dal ritorno al potere dei Talebani. D’altronde, i motivi per fuggire non sono mancati nel corso dei decenni, tra l’invasione sovietica, vari round di regimi teocratici controllati dagli Studenti coranici e la ventennale operazione militare statunitense lanciata dopo l’11 settembre 2001. Islamabad a un certo punto ha deciso di dire stop, accusando i cittadini afgani presenti sul proprio territorio – regolarmente o meno – di compiere attentati e in generale di destabilizzare il già fragile equilibrio interno. Trovare numeri precisi non è un’impresa semplice, ma dall’inizio del 2025 sarebbero più di 800mila le persone rimandate in Afghanistan dal Pakistan.

Nel corso del tempo anche l’Iran, altro Paese che confina con il territorio afgano, si è accodato e Teheran aveva dato come scadenza il 6 luglio per il rimpatrio dei più di 4 milioni di individui di origine afghana presenti nel Paese. Tra inizio giugno e inizio luglio ecco quindi un altro esodo: l’Onu ha quantificato in circa 450mila persone il flusso di migranti rispediti in Afghanistan, una situazione che il regime dei Talebani fa sempre più fatica a gestire.

Molto meno rilevante in termini numerici, ma comunque significativo della tendenza in atto, è il caso del Tagikistan. Il governo di Dushanbe ha appena annunciato di aver stabilito un orizzonte temporale di quindici giorni per consentire agli afghani presenti sul territorio della piccola repubblica centro asiatica, geograficamente contigua all’Afghanistan, di andarsene. In questo caso, data anche la grande chiusura e il controllo capillare sul Paese da parte del regime che guida il Tagikistan, si parla di circa 9mila persone.

⁠ Addirittura, anche la Germania, attraverso il suo ministro degli Interni, ha annunciato la possibilità di stabilire un canale di dialogo diretto con il regime di Kabul per trovare il modo di deportare dalle città tedesche almeno i cittadini afghani condannati per varie fattispecie criminali.

Gli ufficiali talebani stanno chiedendo a gran voce che il ritorno dei rifugiati avvenga in maniera progressiva, sia perché questi grandi flussi mettono ulteriore pressione sulla già disastrata situazione sociale interna, oltre a causare una crisi umanitaria di proporzioni immani, sia per i possibili contraccolpi economici. Molti afghani, infatti, hanno abbandonato il Paese di origine anche alla ricerca di migliori condizioni economiche e con le rimesse inviate in patria hanno a lungo garantito una forma di sostentamento per le proprie famiglie. Dal ritorno al potere dei Talebani, anche per le sanzioni internazionali, le rimesse sono costantemente calate e questa situazione potrebbe portare al loro definitivo crollo. Di contro, per il movimento fondamentalista stabilire delle modalità certe di rimpatrio ed ergersi a interlocutore legittimo può rappresentare una vittoria sul fronte politico e del riconoscimento internazionale così tanto ricercato.

Da molte parti si stanno alzando voci contro le espulsioni di massa di persone che rischiano sia di perdere tutto quello che erano faticosamente riuscite a costruirsi nei Paesi d’accoglienza, sia di trovare una situazione interna disastrosa o addirittura essere perseguitati per la loro opposizione al regime teocratico afgano. Difficilmente però il flusso si interromperà. Per Paesi come il Pakistan e l’Iran è infatti molto semplice additare i rifugiati afgani come responsabili di molti dei problemi interni che li affliggono e, attraverso le espulsioni e in assenza di soluzioni strutturali, alleggerire almeno in parte la crisi sociale che attanaglia i rispettivi contesti. Le espulsioni possono anche essere usate come merce di scambio con i Talebani che potrebbero essere spinti a garantire concessioni di varia natura a Islamabad e Teheran a fronte dello stop ai rimpatri. Tutto questo sempre e solo sulla pelle dei cittadini afghani.

Il sogno digitale di Afsaneh per le donne afghane: «Online torniamo libere»

Avvenire, 11 luglio 2025, di Antonella Mariani

Il Premio della Fondazione Avvenire a una giovane informatica di Herat: al via il progetto per la produzione di cavi Usb

«Quando ho letto la mail non ci credevo. Ho controllato cento volte: pensavo che avessero sbagliato persona… ». E invece no: non c’era nessun errore. Proprio lei, Afsaneh Arsin, fondatrice della prima tech company al femminile di Herat, è la beneficiaria del Premio speciale che la Fondazione Avvenire ha voluto aggiungere al Woman Business Prize indetto da Nove Caring Humans per incoraggiare e sostenere l’imprenditoria delle donne nel Paese più misogino del mondo, l’Afghanistan. E così Afsaneh avrà il suo assegno per avviare lo spin off della sua Armis Tech: un’attività di produzione di cavi Usb. Sarà la prima sul suolo afghano, perché finora tutta la componentistica è d’importazione cinese o pachistana.

Afsaneh è laureata in Informatica, ha 29 anni, 4 sorelle e un fratello e due genitori che l’hanno sempre supportata. Quando i taleban hanno conquistato il Paese, nell’estate 2021, cacciando le forze di sicurezza occidentali e segregando progressivamente le donne in casa, già da due anni aveva fondato la Armis Tech Tecnology Services Company: una sorta di grande internet point nella terza città dell’Afghanistan, in cui i clienti possono trovare connessione stabile per navigare online, riparare i loro cellulari o computer e seguire corsi di vario tipo, organizzati anche in remoto. Armis Tech offre servizi di web marketing, sviluppo di software, creazione di siti web, montaggio di video… Oggi gli uffici sono frequentati solo da donne, perché ogni interazione tra i due sessi è proibita al di fuori delle mura domestiche.

In video collegamento con Avvenire, Afsaneh sottolinea quanto sia importante padroneggiare la tecnologia per le ragazze e le donne afghane, estromesse dall’istruzione e dal lavoro dalle rigide leggi dell’Emirato islamico. «Dal 2021 non posso più avere clienti uomini, né partecipare a fiere specializzate. Non posso girare per le strade se non accompagnata da mio padre o da mio fratello. Le limitazioni sono tantissime, ogni giorno è peggiore del precedente».

Ecco perché il mondo online – sempre che la connessione internet funzioni, che l’elettricità sia fornita regolarmente, e che si possegga un pc o uno smartphone – è l’unico che le donne possono frequentare liberamente e da cui possono trarre occasioni di lavoro e quindi di sopravvivenza. «Se abbiamo accesso alla tecnologia abbiamo accesso ai nostri diritti», spiega. Cioè studiare, lavorare, rendersi indipendenti. Due sorelle di Afsaneh studiavano ingegneria e medicina quando i taleban hanno proibito alle ragazze di frequentare l’università. Oggi per Armis Tech tengono lezioni online ad allieve che sperano così di cambiare il proprio futuro, sebbene stando chiuse in casa: corsi di ChatGpt e di marketing digitale, utile per chi vuole avviare una piccola attività commerciale e vendere online i propri prodotti. Le altre due sorelle insegnano da remoto inglese e francese, e in presenza insegnano alle donne a riparare cellulari e Pc.

«Le donne vengono qui, si aiutano tra loro, cercano online documenti e noi le aiutiamo a creare un proprio progetto imprenditoriale». Afsaneh pensa di essere un modello di ruolo per le ragazze afghane: «Nel mio Paese è tutto così difficile, ma io sono la prova che si può trovare una soluzione, che con le idee giuste e le giuste competenze le donne possono aprire strade per sé e per il Paese».

Ora Afsaneh, grazie anche al Premio assegnato dalla Fondazione Avvenire, progetta di aprire uffici della Armis Tech in diverse città afghane, per dare chance ad altre giovani donne, e di avviare una attività di produzione dei cavi Usb che le permetterà di assumere 20 dipendenti, reclutandole dalle comunità più svantaggiate. «Armis Tech si distingue come una pioneristica azienda tecnologica guidata da una donna. Ciò che la rende davvero eccezionale è la sua doppia missione: fornire servizi digitali di alta qualità e allo stesso tempo emancipare le donne delle comunità vulnerabili e marginalizzate», spiega Alessandro Belloli, direttore generale della Fondazione Avvenire. Attribuendo ad Afsaneh Arsin il Premio 2025, «riconosciamo la validità del suo modello di business, la sua leadership nel guidare cambiamenti positivi e l’impatto di Armis Tech nel promuovere un futuro più inclusivo per le donne afghane ». La giovane informatica di Herat, dal canto suo, ha una sola richiesta: «Non dimenticatevi di noi, siate la voce delle ragazze afghane».

 

Le forze talebane usano scosse elettriche sulle donne afghane sopra i vestiti

Rukhshana Media, 12 luglio 2025

Secondo quanto riportato da Rukhshana Media, le forze talebane stanno somministrando scosse elettriche alle donne per aver violato un obbligo così restrittivo sull’uso dell’hijab che impone loro persino di coprirsi il volto in pubblico.

Vittime e testimoni oculari hanno descritto donne rese incoscienti da scosse elettriche mentre resistevano ai tentativi della famigerata polizia morale afghana di arrestarle per il loro abbigliamento. Altri hanno riferito che i dispositivi erano ampiamente utilizzati nelle carceri femminili.

L’organizzazione per i diritti umani Amnesty International ha chiesto il divieto globale dei dispositivi che erogano scosse elettriche a contatto diretto, definendoli “intrinsecamente abusivi” e affermando che possono causare lesioni gravi e persino la morte. Gli standard internazionali per le forze dell’ordine stabiliscono che le scosse elettriche dovrebbero essere utilizzate solo come ultima risorsa e per autodifesa.

Nafisa*, 20 anni, stava comprando delle sciarpe invernali con sua sorella a Kabul lo scorso ottobre, quando le due sono state aggredite da quattro agenti della polizia morale talebana in uniforme. Uno di loro le ha chiesto perché non fosse vestita come sua sorella, che indossava un completo nero dalla testa ai piedi e una mascherina sul viso, poi le ha ordinato di salire in macchina. Terrorizzata, ha stretto forte la mano della sorella e ha cercato di resistere mentre una donna che lavorava con la polizia la trascinava via.

“Quando ho opposto resistenza, mi hanno dato la scossa elettrica. Dopo, non ricordo più nulla”, ricorda Nafisa, che è stata trattenuta per la notte in una cella di polizia fredda e buia con altre otto donne e tre ragazze.

Una giovane donna è stata picchiata e arrestata per essere vestita in modo inappropriato, nonostante indossasse abiti lunghi fino al ginocchio, un hijab inappropriato, un’altra per aver avuto contatti con un uomo con cui non aveva alcun legame di parentela. Altre sono state arrestate per aver mendicato per strada.

La sorella maggiore di Nafisa, Zohal*, 24 anni, balbetta nervosamente ricordando quel giorno. “Nafisa è caduta a terra davanti ai miei occhi e i talebani l’hanno trattata come un cadavere, l’hanno gettata in macchina e se ne sono andati”, racconta. “È stato il momento peggiore della mia vita e quei secondi mi sono sembrati ore. Ho continuato a chiedere aiuto alla gente, ma se ne sono andati. Nessuno ha osato dire una parola ai talebani”.

Entrambe le donne hanno dichiarato di essere rimaste traumatizzate dall’accaduto e hanno successivamente assunto antidepressivi per diversi mesi.

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Meno di un anno dopo il loro ritorno al potere nel 2021, i talebani hanno introdotto nuove e severe regole che impongono alle donne di coprirsi completamente indossando un burqa o un hijab completo con una mascherina per il viso e di non uscire se non in caso di assoluta necessità.

L’applicazione della legge è stata rigorosa e ha incluso arresti di massa, inizialmente in un’area della parte occidentale di Kabul, dominata dalla popolazione di etnia hazara, e poi in altre parti del paese, secondo una ricerca delle Nazioni Unite . Alcune donne sono state rilasciate dopo poche ore, ma altre sono rimaste in custodia per giorni o addirittura settimane, ha scoperto. Il loro rilascio è stato spesso subordinato alla promessa da parte dei parenti maschi di vigilare sul loro abbigliamento in futuro.

Una fonte che ha parlato con Rukhshana in condizione di anonimato ha ricordato di aver sentito le urla di una donna a un posto di blocco talebano in una zona centrale di Kabul. Si è precipitato verso la folla che si era radunata e ha visto una donna alle prese con la polizia morale, che stava cercando di trascinarla dentro un veicolo. Diversi uomini tra la folla hanno cercato di intervenire e liberare la donna, ma è stato intimato loro di non interferire con il lavoro del Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che controlla gli sforzi dei talebani per imporre la legge islamica in Afghanistan, ha riferito la fonte. Poi, uno degli agenti ha estratto un dispositivo dalla tasca e lo ha puntato al collo della donna, infliggendole scosse elettriche più volte fino a farla perdere conoscenza e cadere a terra. Quattro agenti di polizia l’hanno afferrata per braccia e gambe e hanno trascinato il suo corpo senza vita dentro il veicolo, ha ricordato.

Un altro testimone oculare ha descritto un incidente avvenuto nei pressi di un centro commerciale di Kabul, dove gli ufficiali talebani hanno utilizzato scosse elettriche per fermare una giovane donna che si rifiutava di salire sul loro veicolo.

“Resisteva molto, diceva ‘Non ci vado'”, ha detto il testimone. “Alla fine, le hanno dato una scossa elettrica. La poveretta è crollata a terra e l’hanno spinta violentemente dentro il veicolo. La polizia morale è terrificante.”

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Quasi tutte le donne e le ragazze che hanno avuto incontri con militari o agenti di polizia talebani affermano di aver subito violenze di qualche tipo. La nuova legge, ampiamente criticata, sulla Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio conferisce agli agenti ampia autorità di affrontare le donne in merito al loro abbigliamento e di infliggere punizioni immediate. Anche prima della sua introduzione, gli agenti talebani utilizzavano dispositivi per la scossa elettrica contro le donne, in particolare il 16 gennaio 2022, quando furono impiegati per disperdere una protesta pacifica di piazza .

Wahida Amiri, ex detenuta e attivista per i diritti delle donne di 33 anni, ha descritto l’incidente in un’intervista rilasciata a Rukhshana Media dopo l’accaduto.

“Le loro forze armate ci hanno circondato in uno spazio aperto e ci hanno fatto prigioniere”, ha detto. “Il trattamento riservato dai talebani alle manifestanti in strada è stato terrificante e orribile. Hanno usato gas lacrimogeni, sparato colpi in aria e usato scosse elettriche contro le donne”.

Sebbene l’uso di scosse elettriche contro manifestanti disarmati costituisca una chiara e grave violazione dei diritti umani, sembra che per gli ufficiali talebani l’utilizzo di tali dispositivi sia diventato una prassi routinaria. Non sembra esistere un protocollo formale o un sistema di responsabilità per il loro utilizzo, né alcuna supervisione per prevenirne gli abusi.

Rukhshana Media ha anche documentato casi di donne sottoposte a scosse elettriche in carcere. Nel 2022, Zarifa Yaqubi ha trascorso 41 giorni sotto la custodia delle forze talebane, che, a suo dire, l’hanno torturata per costringerla a confessare con l’uso di scosse elettriche e percosse con cavi.

Parwana Ibrahimkhil Najrabi, un’altra ex prigioniera talebana che ha trascorso almeno un mese in isolamento, ha affermato che il gruppo ha utilizzato scosse elettriche durante il suo arresto.

Per Nafisa, il danno è duraturo. Ricorda ancora la cella e si preoccupa per le altre donne con cui l’ha condivisa.

“Non so come andare avanti”, ha detto. “Credo di portarmi dietro la prigione talebana ovunque. Le scosse elettriche, la stanza fredda e buia, le molteplici accuse e le donne il cui destino è sconosciuto.”

Nota*: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

* Pubblicato in collaborazione con More to Her Story.

[Trad. automatica]

La Palla della Speranza: un inizio, non una fine

8AM.MEDIA, 12 luglio 2025, di Salonia Salahshoor 

Un modo delle donne per resistere [n.d.r.]

Il sole era impietoso, ci bruciava la pelle e ci imponeva la resa. Ma i nostri cuori battevano più forte. Ci spingevano a restare, a continuare a correre. Sussurrando: giocate di più, correte più veloci, ridete più forte. Perché non era solo un gioco, era un atto di resistenza. Ogni secondo trascorso su quel campo era tempo rubato, un frammento di libertà in un mondo che voleva silenzio e immobilità per noi.

Questa era solo la prima partita, una partita in cui non c’era nulla di pronto. Niente scarpe da ginnastica, niente uniformi adeguate, nemmeno un pallone decente. Raccogliemmo una vecchia palla di plastica semisgonfia e corremmo su un campo di cemento, duro e rovente sotto i nostri piedi. Indossavamo abiti lunghi, da tutti i giorni: i nostri chador e sandali economici. Ma a chi importava? Il solo fatto di essere riusciti a riunirci, al riparo da occhi indiscreti, era già una vittoria.

Il nostro gioco sembrava più una corsa caotica che un vero calcio. La palla continuava a sfuggirci di mano e a sbattere contro i muri. A volte, i nostri piedi si impigliavano nei vestiti e cadevamo. Ma ridevamo a crepapelle, dal profondo dell’anima. Era così che giocavamo, non nonostante il caldo, ma proprio per quello. Perché se riuscivamo a sopportare quello, potevamo sopportare qualsiasi cosa. Il sole picchiava dal cielo come se i suoi raggi cocenti stessero schiacciando il terreno screpolato sotto di noi. Anche solo respirare quell’aria secca e rovente era una battaglia. Ma niente di tutto ciò importava. Perché in quel giorno indimenticabile, giocammo a calcio per la prima volta. E non fu solo una partita: fu la prova vivente dello spirito indomito di ragazze che desideravano un campo tutto loro. Un campo che, sebbene lontano anni luce dagli stadi dei nostri sogni, era sacro per noi.

I talebani avevano costruito il loro campo: un mondo di aridità, restrizioni e controllo soffocante. Ma qui? Qui c’era il nostro campo. Un pezzo di terra rubato dove, per qualche ora, abbiamo scritto le nostre regole.

Correvamo con abiti lunghi che ci avvolgevano le gambe, con sandali con i tacchi alti che sprofondavano nel fango a ogni passo. Ridicolo? Forse. Ma la cosa veramente ridicola era l’idea che tessuti e scarpe potessero imprigionare la nostra gioia. Ogni caduta, ogni scoppio di risate che seguiva i nostri inciampi era un duro colpo in faccia a coloro che pensavano di poter dettare come ci muovevamo, come vivevamo. L’aria era densa di calore, ma le nostre risate erano fatte di libertà: la libertà delle ragazze in un paese chiamato Afghanistan. Non erano solo suoni; ogni risata, ogni grido di vittoria mentre la palla roteava in aria era un mattone nel mondo che stavamo costruendo. Un mondo in cui esistevamo con coraggio e senza scuse.

Non avevamo arbitri né tribune. Nessun trofeo ci aspettava. Ma nella nostra mente? Eravamo giganti. Ogni scatto dopo il pallone era una corsa verso qualcosa di più grande di noi. Con ogni passaggio, non stavamo solo giocando: stavamo riscrivendo la storia. Nella nostra immaginazione, quel terreno polveroso diventava uno stadio olimpico, echeggiando delle acclamazioni di migliaia di persone. Il pallone ai nostri piedi non era solo cuoio e aria: era speranza, una promessa e la prova che anche in una gabbia si possono spiegare le ali.

Il tempo non è mai stato dalla nostra parte. L’orologio continuava a ticchettare, le ombre si allungavano. Un silenzioso avvertimento che tutto questo non sarebbe durato. Ma in quegli attimi fugaci, abbiamo costruito l’eternità. La palla che roteava in aria era un simbolo di vita in un mondo che ci voleva insensibili. Questo era più che football; questa era alchimia. Abbiamo preso la polvere, la paura e le regole fragili e le abbiamo trasformate in oro.

Nessuno ha battuto il tempo. Forse abbiamo giocato solo per venti minuti. Prima che qualcuno se ne accorgesse, prima che potesse sorgere qualche problema, prima che la nostra gioia diventasse un pericolo, abbiamo concluso la partita. Ma quei venti minuti sono stati sufficienti. Abbastanza per dimostrarci che, nonostante tutti i limiti, potevamo ancora creare momenti che ci appartenevano. Momenti semplici, eppure traboccanti di significato. Quel giorno non avevamo arbitri, spettatori e un campo vero e proprio. Ma ciò che avevamo era più prezioso di tutto ciò: la voglia di giocare. Anche sul cemento rovente, anche solo per pochi minuti, anche con ogni limite.

A partita finita, abbiamo lasciato il campo senza fiato, ma trasformati. Le nostre braccia erano intrecciate sulle spalle. Potevano prendere palla. Potevano scendere in campo. Ma non avrebbero mai potuto spegnere il fuoco che avevamo acceso nei nostri cuori. Perché la libertà non è un luogo, è un sentimento. E una volta che l’hai assaporata, anche solo per un attimo, la insegui per sempre. Quindi lasciali costruire recinti. Lasciali scrivere leggi. Continueremo a giocare. Continueremo a ridere. Continueremo a sognare stadi che un giorno saranno nostri.

Potete leggere la versione persiana della storia di questa donna afghana qui

[Trad. automatica]

 

CURDI-TURCHIA. Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora?

Pagine Esteri, 12 luglio 2025

Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – metà dei quali donne – hanno dato fuoco al proprio arsenale, suggellando con quel gesto la fine di una lotta armata durata oltre quarant’anni. Con le armi allineate in un grande calderone di metallo, i militanti, in uniformi beige, hanno consegnato simbolicamente un pezzo della propria identità e della loro esistenza.

Al centro della cerimonia Bese Hozat, comandante del PKK, che ha letto ad alta voce – prima in turco, poi in curdo – la dichiarazione con cui il movimento armato nato nel 1978 annunciava la sua trasformazione: «Distruggiamo volontariamente le nostre armi, in vostra presenza, come gesto di buona volontà e determinazione». Alle sue spalle i militanti più giovani, molti dei quali nati quando il conflitto era già in corso, e quelli dei funzionari dei servizi segreti turchi e iracheni, rappresentanti del governo regionale del Kurdistan, esponenti del partito filo-curdo turco DEM. Presenze che fino a pochi anni fa sarebbero state impensabili accanto a dirigenti del PKK.

Il processo di disarmo era stato annunciato pubblicamente già a maggio, dopo un appello di Abdullah Ocalan, storico leader del PKK detenuto dal 1999 nell’isola-prigione turca di Imrali. In un raro videomessaggio diffuso mercoledì scorso, Ocalan è tornato a parlare, invocando la creazione di una commissione parlamentare turca che supervisioni il disarmo e apra la strada a una pace duratura.

Un conflitto lungo quattro decenni
La nascita del PKK, nel 1978, fu la risposta di una generazione curda all’annichilimento delle istanze culturali e politiche nel sud-est della Turchia. La svolta armata arrivò nel 1984, con il primo attacco contro obiettivi militari turchi. Da allora, ondate di repressione, operazioni militari, controinsurrezioni e una diaspora curda sempre più politicizzata hanno accompagnato la storia del movimento. Negli ultimi anni, pressato militarmente, il PKK aveva arretrato oltreconfine, rifugiandosi in zone montuose nel nord dell’Iraq. È da lì che, paradossalmente, ora arriva il segnale più forte di cambiamento.

La portata di quanto accaduto ieri non si ferma al gesto simbolico del rogo delle armi. La fine delle ostilità tra il PKK e Ankara potrebbe incidere direttamente anche in Siria, dove milizie curde alleate del PKK, come le YPG, controllano ampie porzioni del nord-est del Paese. Gli Stati Uniti, che hanno sostenuto tali forze nella lotta all’ISIS, premono da mesi per una loro integrazione nella futura architettura di sicurezza siriana post- Bashar Assad, il presidente caduto a dicembre. Ankara, che ha sempre considerato le YPG un’estensione del PKK, potrebbe ora attenuare le proprie opposizioni.

Un processo fragile
Secondo fonti del governo turco, il disarmo rappresenta una «svolta irreversibile». I prossimi passi, dicono, includeranno la reintegrazione dei membri del PKK nella società turca, un’amnistia selettiva e programmi per la riconciliazione nelle province curde. Un processo che non sarà privo di ostacoli. All’interno del partito di governo e tra i vertici dell’apparato militare e giudiziario, rimane forte l’opposizione a qualsiasi concessione percepita come una “legittimazione” del PKK. Allo stesso tempo, esiste un’aspettativa crescente tra le comunità curde per riforme concrete: il riconoscimento della lingua curda nei programmi scolastici, la decentralizzazione amministrativa, la fine dello stato di emergenza de facto in molte province orientali.

Il partito DEM, che ha svolto un ruolo di mediazione nel processo e che ha ottenuto importanti successi alle recenti elezioni amministrative, ha già presentato una lista di richieste che includono la revisione delle leggi antiterrorismo e l’abolizione dei limiti alla partecipazione politica dei curdi. La loro posizione è chiara: la pace non potrà fondarsi soltanto sulla resa delle armi, ma dovrà costruirsi sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza.

Oltre il disarmo, una questione politica
Il disarmo del PKK segna un passaggio epocale, ma non rappresenta la conclusione della “questione curda” in Turchia. Come sottolineano numerosi osservatori, la vera sfida è politica. E la figura di Ocalan, pur detenuto da oltre venticinque anni, rimane centrale. La sua immagine, ben visibile alla cerimonia di Jasana, ha confermato che il suo ruolo simbolico non è venuto meno. Ma ora serve altro, soprattutto occorre verificare le reali intenzioni di Erdogan che riceve il “regalo” della fine della lotta armata del PKK offrendo in cambio garanzie vaghe su diritti fondamentali che i curdi reclamano da decenni. Uno dei pericoli è che il leader turco, liberatosi della spina nel fianco rappresentata dal PKK, usi il rafforzamento della sua leadership per portare avanti la sua politica ultranazionalista in forma più attenuata verso i curdi in patria e allo stesso tempo continui la linea del pugno di ferro contro gli altri curdi nella regione.