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Autore: CisdaETS

Afghanistan, i Talebani ritornano alle origini. Vietato pubblicare immagini di esseri viventi sui media: “Contrarie alla legge islamica”

ilfattoquotidino.it

In Afghanistan sarà vietato per i media locali pubblicare immagini di esseri viventi. Proprio come nel 1996. Lo ha annunciato il portavoce del Ministero per la Promozione delle Virtù e la Prevenzione del Vizio, Saiful Islam Khyber. La nuova misura, ha fatto sapere il Ministero, sarà introdotta in tutto il Paese gradualmente, ma “non c’è posto per la coercizione nella sua implementazione”, ha aggiunto facendo notare che dovranno essere le autorità talebane a “convincere i cittadini” che pubblicare immagini di esseri viventi è contrario all’Islam. L’ultima affermazione fatta dal ministro, secondo cui non sarà necessario l’uso della violenza, vuol trasmettere una certa clemenza da parte dei Talebani ma la realtà è ben diversa. Secondo quanto riportato da Adnkronos, nella provincia di Ghazni, alcuni funzionari del ministero hanno già convocato i giornalisti locali per metterli al corrente della decisione e hanno consigliato ai fotoreporter di scattare foto da più lontano e di filmare meno eventi “per prendere l’abitudine”. L’implementazione della nuova norma è iniziata nella “roccaforte talebana meridionale di Kandahar e nella vicina provincia di Helmand e procederà gradualmente”, ha concluso Khyber. Ma, nonostante la dichiarazione, molti giornalisti della zona hanno riferito di non aver ricevuto alcuna comunicazione a riguardo.

Il nuovo provvedimento si colloca nel quadro della nuova legge sui media redatta affinché essi si conformino e non contraddicano in alcun caso la Sharia – ovvero la legge islamica – che è in vigore nel Paese. Il testo, che ha lo scopo dichiarato di “combattere il vizio e promuovere la virtù” è composto, come riporta Associated Pressche ha potuto visionarlo, da 114 pagine e 35 articoli riguardanti aspetti della vita quotidiana come i trasporti pubblici, la musica e le celebrazioni.Durante il primo regime talebano, durato dal 1996 sino al 2001, venne imposto il divieto di pubblicare immagini che ritraessero esseri viventi. L’imposizione ha le sue radici in un principio religioso islamico denominato aniconismo. Generalmente associato al mondo dell’arte, sulla base di tale principio è considerato haram, ossia vietato, rappresentare Dio. Quindi il principio alla base della decisione dei Talebani è questo: creare e pubblicare immagini rende gli uomini degli idolatri, dei politeisti. L’idolatria secondo l’interpretazione più radicale della dottrina islamica costituisce il primo peccato dell’uomo. Nel testo sacro del Corano, però, non è espresso alcun divieto esplicito al riguardo. Il divieto di adorare divinità all’infuori di Dio nella rigida visione wahhabita – quella su cui si basa l’interpretazione talebana – si affianca al principio che proibisce ogni forma di culto rivolta a figure umane. In ragione di questo, per esempio, furono proprio i Talebani a causare una delle perdite artistico-culturali più gravi dal secondo Dopoguerra: la distruzione dei Buddha di Bamiyan del VI secolo.A tre anni dal loro insediamento al potere, la situazione in cui versa il paese sembra peggiorare di mese in mese. Ad oggi, nonostante l’Emirato islamico non sia formalmente riconosciuto, la normalizzazione dei rapporti con attori regionali e internazionali sta permettendo agli esponenti politici talebani di consolidare politiche sempre più stringenti che rafforzano il regime autoritario. Il Paese sta inoltre attraversando una delle crisi umanitarie più intense degli ultimi anni. Ha un’economia fragile e a livello sociale, la discriminazione di genere è ormai istituzionalizzata. Ogni possibilità di opposizione da parte dei più moderati, aperti verso un dialogo con l’Occidente, appare sfumata. Sin dal suo insediamento, l’attuale Guida Suprema dell’Afghanistan, lAmir ul-muminin Haibatullah Akhundzada, ha predisposto un controllo capillare sulla popolazione civile e questo ha contribuito a limitare e danneggiare i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti dai trattati internazionali.

Secondo quanto riportato da ISPI, un report redatto da Unama – la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan – intitolato De Facto Authorities Moral Oversight in Afghanistan Impacts on Human Rights, nel periodo compreso tra il luglio del 2021 e il marzo del 2024 sono stati registrati almeno “1.033 casi documentati diapplicazione della forza e violazione delle libertà personali, con danni fisici e mentali, con un impatto discriminatorio sulle donne, contribuendo a creare un clima di paura”.

Ad oggi, nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere, l’Afghanistan è al 178esimo posto su 180. Quando i Talebani hanno ripreso il controllo del Paese, l’Afghanistan contava 8.400 lavoratori nei media. Oggi sono solo 5.100, tra cui 560 donne. La stretta annunciata dai Talebani va a sommarsi a una serie di limitazioni introdotte nel corso degli ultimi mesi. Solo qualche settimana fa, per esempio, è arrivato l’annuncio di una nuova legge che ha imposto alle donne il divieto di parlare in pubblico perché non solo il corpo, ma anche la voce femminile deve essere considerata come qualcosa di intimo e, per questo, non rivelata agli estranei. E ancora, la messa al bando delle arti marziali perché ritenute troppo violente e non conformi ai precetti islamici o il divieto della riproduzione musicale.

 

Nove testate internazionali accusano l’Ue di finanziare deportazioni di massa dalla Turchia verso Siria e Afghanistan

EUNEWS, 11 ottobre 2024, di Simone De La FeldL’inchiesta, coordinata dalla piattaforma investigativa Lighthouse Reports, svela l’enorme macchina con cui le autorità turche attuano vere e proprie deportazioni forzate dei profughi afghani e siriani. Bruxelles, accusata di finanziare il sistema e “chiudere un occhio”, risponde: “Turchia è partner chiave”

Bruxelles – Una nuova inchiesta giornalistica smaschera la complicità – o almeno la negligenza, se si vuole essere in buona fede – dell’Unione europea nelle sistematiche deportazioni di centinaia di migliaia di rifugiati afghani e siriani dalla Turchia verso i paesi d’origine. Nove testate internazionali, coordinate dalla piattaforma investigativa Lighthouse Reports, hanno ascoltato testimoni, raccolto prove visive e documenti in Turchia e a Bruxelles, rivelando non solo che le infrastrutture di detenzione ed espulsione sono foraggiate con denaro dell’Ue, ma che le istituzioni europee “sono consapevoli di finanziare questo sistema, ma scelgono di chiudere un occhio”.

I giornalisti di El PaísDer SpiegelPoliticoEtilaat RozSIRAJNRCLe Monde e l’italiana L’Espresso, hanno seguito l’enorme flusso di risorse – oltre 10 miliardi di euro, dal 2015 a oggi – che l’Ue ha stanziato per fare della Turchia una zona cuscinetto per impedire a milioni di rifugiati in fuga dalle persecuzioni dei talebani e dalla guerra civile in Siria di raggiungere l’Europa. E hanno scoperto 30 centri di espulsione realizzati e finanziati dall’Ue, utilizzati dalle forze di sicurezza turche per imprigionare e deportare con la forza centinaia di migliaia di persone. A supporto, l’indagine ha affiancato immagini di attrezzature finanziate dall’Ue utilizzate dalla polizia di Ankara per condurre arresti di massa nelle città turche e deportazioni in Siria. Incluso un bus con tanto di bandiera a 12 stelle stampata sulla fiancata.

Fondi utilizzati per ampliare i sistemi di rilevamento delle impronte digitali e che vengono ora utilizzati per “rintracciare e prelevare i migranti per strada”, oppure per dotare i centri di espulsione “di filo spinato e muri più alti”. Ai detenuti viene “spesso negata” l’assistenza legale, sono stipati in centri sovraffollati e con condizioni igienico sanitarie pessime. Sono sottoposti ad “abusi e persino a torture”. Secondo le testimonianze di 37 persone detenute in 22 diversi centri di espulsione finanziati dall’Ue, molti vengono costretti con la violenza a firmare documenti in cui dichiarano di voler tornare volontariamente nei Paesi da cui sono fuggiti.

L’inchiesta riporta inoltre le testimonianze di funzionari dell’Ue in Turchia e di ex personale dei centri di espulsione, supportate da rapporti e documenti ufficiali di Ankara e Bruxelles. Per 20 volte, denuncia Lighthouse Reports, le richieste alle agenzie dell’Ue di libertà di informazione per accedere ad alcuni documenti “sono state rifiutate con la motivazione che avrebbero potuto danneggiare le relazioni con la Turchia”. Dopo aver parlato con diversi diplomatici e funzionari europei sia a Bruxelles sia in Turchia, non c’è più alcun dubbio: “L’Ue è consapevole di finanziare questo sistema abusivo, e il suo stesso personale ha lanciato l’allarme al suo interno, eppure gli alti funzionari scelgono di chiudere un occhio“.

Un atteggiamento che, stando a quanto rivelato dalla stessa Lighthouse Reports la scorsa primavera, ma anche dal The Guardian e addirittura dalla Corte dei Conti europea, i vertici delle istituzioni europee stanno adottando anche nei confronti delle violazioni dei diritti umani in Tunisia e in Libia. L’accusa è inquietante: sette diplomatici europei in Turchia, che lavorano per l’Ue o per i suoi Stati membri, avrebbero dichiarato di essere a conoscenza delle deportazioni forzate di siriani e delle terribili condizioni all’interno dei centri. Mentre secondo un ex funzionario dell’Ue queste questioni sarebbero state “sistematicamente cancellate” dalle relazioni annuali dell’Ue sulla Turchia.

Da Bruxelles, un muro di gomma. Interpellata sulle denunce di Lighthouse Reports, la portavoce della Commissione europea, Ana Pisonero, ha dichiarato che “la Turchia rimane un partner chiave sulla migrazione e un Paese candidato”, e che “l’Ue riconosce gli sforzi compiuti dalla Turchia nell’accogliere 3,6 milioni di rifugiati“. La risposta è sempre la stessa, che si tratti di Turchia, Tunisia o Libia: “I finanziamenti europei forniti per i centri di espulsione e per l’assistenza al rimpatrio volontario sono nel pieno rispetto degli standard europei e internazionali”, e la responsabilità di indagare sulle accuse di violazioni ce l’hanno le autorità nazionali. “Esortiamo la Turchia a farlo”, ha aggiunto Pisonero.

[N.d.R] per ulteriori info v. anche: The EU is helping Turkey forcibly deport migrants to Syria and Afghanistan

Le milizie democratiche e popolari di Shengal

Contropiano, 10 ottobre 2024, di Carla Gagliardini

Baghdad. Una parte della popolazione ezida del distretto di Shengal, in Iraq, dopo il genocidio dell’agosto del 2014, ha deciso di applicare il paradigma del confederalismo democratico, nato da un lungo studio e un’approfondita riflessione del leader curdo Abdullah Ochalan, rinchiuso nella prigione di massima sicurezza sull’isola di Imrali, in Turchia, dove si trova dal 1999.

I miliziani del Califfato hanno attaccato il 3 agosto del 2014 la popolazione ezida di questa zona e grazie a un accordo siglato con il Partito Democratico del Kurdistan (KDP), di cui oggi si trova conferma su molta stampa, soprattutto internazionale, l’ingresso nei villaggi ezidi non ha incontrato alcun ostacolo, essendosi i peshmerga del KDP dileguati e, di fatto, consegnando la popolazione nelle mani dei terroristi jihadisti.

Non potendo assistere impotenti allo sterminio della propria gente, gli uomini della comunità hanno imbracciato le poche armi che erano a loro rimaste, dopo le requisizioni dei giorni precedenti proprio ad opera dei peshmerga.

Gli jihadisti hanno catturato migliaia di donne e bambini, ucciso uomini ragazzi e donne anziane, secondo una procedura studiata a tavolino.

Appena due mesi dopo quell’aggressione, sull’onda di un forte senso di ribellione verso le atrocità che si stavano consumando, è nato il primo Consiglio delle unità di resistenza ezide maschili, le YBS (Yekineyen Berxwedana Sengale), costituito da cinque uomini, ma anche da una donna avente funzione di riserva. Tra i fondatori si ritrovano tre figure molto importanti per gli ezidi: Shaid Saed, Shaid Zaley e Shaid Dijwar, diventati martiri e onorati dal loro popolo.

Nei primi mesi del 2015 sono invece nate le unità di resistenza femminili YJS (Yekineyen Jinen Ezidxan). Alla fine dello stesso anno si è poi svolto il primo congresso di tutte le unità di resistenza per eleggere il nuovo Consiglio, formato da tre uomini e due donne ai quali si affiancano sedici membri supplenti, chiamati a ricoprire il ruolo dei componenti nel caso dovessero cadere per mano nemica. I caduti delle YBS e delle YJS non sono stati vittime solo dell’Isis poiché anche la Turchia le ha prese di mira, continuando ancora oggi con attacchi volti a uccidere i vertici e i loro membri.

Le unità di resistenza ezide hanno lottato insieme alle YPG e YPJ del Rojava e alle HPG, ala armata del PKK. Questa stretta vicinanza ha consentito il confronto politico sui principi che reggono la struttura sociale, politica e militare del confederalismo democratico, tra i quali si trovano l’emancipazione della donna e l’autodifesa.

Sorte prima della fondazione dell’Amministrazione autonoma, forma di governo che una parte della popolazione ezida si è data nel distretto di Shengal e costituitasi quando le prime famiglie hanno fatto rientro dai campi profughi, dove avevano trovato riparo fuggendo dall’Isis, le unità di resistenza ezide hanno il compito di proteggere la popolazione e la stessa Autonomia.

Per questo nel 2022 sono intervenute quando l’esercito del governo federale è arrivato fino a Khanasur e a altri villaggi con l’obiettivo di smantellare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma. Allo stesso modo non consentono l’implementazione dell’Accordo di Shengal che sancisce, tra le altre previsioni, il loro scioglimento e l’inserimento dei loro membri nell’esercito iracheno, avendo ormai radicata la convinzione che il popolo ezida possa sopravvivere ai continui tentativi di genocidio nei suoi confronti solo applicando l’autodifesa.

Alle unità di resistenza è proibita una forma di intervento di carattere offensivo perché la loro azione si fonda sulla realizzazione di una società dove i popoli costruiscono relazioni di rispetto e collaborazione su un piano di parità, senza negare a nessuno il diritto all’esistenza e alla propria autodeterminazione.

Partendo da questi presupposti, la struttura militare è sì piramidale, come avviene in tutti gli eserciti del mondo, incluso quello del PKK, ma prevede il superamento di alcune regole che costruiscono barriere e gerarchie troppo rigide, allontanando l’idea di un esercito popolare che, al contrario, deve essere fortemente in sintonia con il proprio popolo. Per questa ragione, ad esempio, è bandito il saluto militare, strascico di una vecchia retorica che allontana piuttosto che avvicinare.

L’aspetto democratico più significativo delle YBS e delle YJS è dato dall’elezione dei membri del Consiglio da parte delle loro assemblee. Questi non sono dunque nominati da apparati o strutture di governo. Attraverso un procedimento di autocandidature, a cui viene affiancato una discussione e un controllo serio sulle motivazioni e le capacità di ciascuno, vengono scelti dall’organismo assembleare i rappresentanti che formeranno il Consiglio.

Le YBS e le YJS collaborano in ogni aspetto della vita militare e operano congiuntamente, senza nessuna distinzione. Il ruolo della donna all’interno delle unità di resistenza è l’espressione evidente della realizzazione di due dei pilastri del confederalismo democratico perché oltre ad essere perfettamente integrata all’interno della struttura militare, in modo paritario rispetto agli uomini, realizza la propria emancipazione con un nuovo protagonismo che la mette in prima linea nell’elaborazione delle decisioni e nella difesa del proprio popolo.

Un balzo in avanti per una società che dichiara apertamente che, prima dell’attacco dell’Isis, la donna viveva all’ombra dell’uomo in ruoli puramente marginali. Così, nell’applicare il confederalismo democratico, mentre le riunioni delle YJS vengono convocate esclusivamente da una comandante, quelle delle YBS invece possono essere indette tanto da un comandante quanto da una comandante.

Le unità di resistenza rappresentano un esercito formato non per coscrizione, verso la quale nel corso della storia, soprattutto sotto l’Impero ottomano, gli ezidi si sono ribellati, ma piuttosto un esercito che accoglie chi si riconosce nei suoi principi, ispirati al confederalismo democratico, e volontariamente decide di contribuire alla difesa del proprio popolo.

Per gli ezidi che sostengono l’esperienza dell’Amministrazione autonoma di Shengal, le YBS e le YJS sono i loro figli e le loro figlie, senza alcuna distinzione. Il rapporto creatosi tra le unità di resistenza e la comunità, che reclama il diritto alla pace e all’esistenza, è di una profonda interconnessione che induce a pensare che si tratti realmente di un esercito popolare e democratico.

Originariamente le unità di resistenza, nella lotta contro l’Isis, hanno ricevuto il contributo economico proveniente dalla Resistenza del Rojava. Successivamente è stato il governo centrale a farsi carico del costo della loro struttura, per poi cancellarlo in un secondo momento. Oggi le unità di resistenza vivono principalmente grazie alle rimesse dall’estero di familiari e altri ezidi che si riconoscono nel progetto dell’Amministrazione autonoma, anche se vi sono membri che decidono di rinunciare allo stipendio, considerano la loro adesione come un dovere irrinunciabile verso la c. File di giovani ezidi chiedono di potersi arruolare ma molte domande vengono respinte poiché a inoltrarle sono minorenni.

Su questa forma organizzata di autodifesa il popolo ezida di Shengal investe molto sapendo che la propria sopravvivenza dipende anche dalla sua capacità di organizzarsi rispetto alle pretese dei tanti attori regionali, il KDP in primo luogo ma anche il governo federale, e internazionali, la Turchia soprattutto, che vogliono non solo cancellare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma di Shengal ma anche ridurre al silenzio il popolo ezida che resiste.

L’Afghanistan di fronte alla Corte internazionale di Giustizia?

Rachele Reid, ANN, 3 ottobre 2024

Cosa aspettarsi da una contestazione legale delle violazioni dei diritti delle donne da parte dell’Emirato?

Il governo dell’Afghanistan è stato avvertito che le sue violazioni dei diritti delle donne scateneranno un deferimento alla corte suprema delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia (ICJ), a meno che non modifichi le sue politiche. L’iniziativa, presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi e sostenuta da altri 22 stati, si concentra sulle presunte violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario. Secondo le procedure della corte, al governo afghano viene offerta la possibilità di risolvere la controversia, in caso contrario, l’ICJ si occuperà del caso. Un portavoce dell’Emirato islamico ha immediatamente respinto le accuse. Sebbene la corte non abbia potere di esecuzione, non è priva di mordente e una sentenza contro l’IEA potrebbe portare a ulteriori sanzioni contro l’Emirato, nonché a pressioni politiche su quegli attori inclini alla normalizzazione. Rachel Reid fornisce una panoramica del processo, del suo potenziale impatto e delle insidie.

La mossa di portare l’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia potrebbe essere rivoluzionaria: la CEDAW è in vigore da oltre 40 anni, ma mai prima d’ora la corte è stata chiamata a esaminare la presunta violazione della stessa da parte di uno Stato.[1] L’iniziativa è stata annunciata da quattro ministri degli esteri in un evento collaterale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2024 in un discorso emozionante del ministro tedesco, Annalena Baerbock, che ha descritto le restrizioni sulle donne e le ragazze afghane.

Non ti è permesso andare al liceo. Non ti è permesso fare sport. Non ti è permesso viaggiare. Non ti è permesso lavorare. Prendere l’autobus. Parlare con un uomo o un ragazzo. Vedere un medico da sola. Sembra una prigione. Ma questa è la realtà per le donne e le ragazze in Afghanistan dal 2021. In Afghanistan, i talebani stanno togliendo ogni ultimo brandello di libertà alle donne e alle ragazze. E ora hanno persino vietato alle donne di parlare in pubblico. In tedesco, abbiamo un’espressione per questo: “mundtot”. Letteralmente significa “bocca morta”. Uccidere qualcuno, uccidendo la sua voce. Questo è ciò che sta accadendo in questo momento. [2]

Nell’annunciare la loro iniziativa, i quattro stati hanno accusato il governo afghano di essere responsabile di “discriminazione di genere sistematica”, come delineato [qui]sul sito web del Ministero degli Esteri australiano. Elencava un’ampia gamma di restrizioni: “Le donne e le ragazze afghane vengono socialmente, politicamente, economicamente e legalmente emarginate. La cosiddetta legge “vizio e virtù” recentemente promulgata cerca di mettere a tacere metà della popolazione e di cancellare donne e ragazze dalla vita pubblica”.

I quattro paesi coinvolti – Australia, Canada, Germania e Paesi Bassihanno effettivamente avvisato l’Emirato islamico dell’Afghanistan (IEA) che intendono intraprendere un’azione legale presso la Corte internazionale di giustizia, se non cambia le sue politiche. In una dichiarazione pubblicata dal governo australiano, hanno invitato “l’Afghanistan e le autorità de facto dei talebani” a cessare le violazioni dei diritti umani delle donne e delle ragazze e “a rispondere alla richiesta di dialogo per affrontare le preoccupazioni della comunità internazionale su questa questione”, comprese le raccomandazioni fatte attraverso il processo di revisione periodica universale delle Nazioni Unite.[3] Oltre al loro evento collaterale a New York e alle dichiarazioni ai media, AAN ha capito che è stata data una notifica formale ai funzionari dell’IEA.

Come da tradizione, i funzionari dell’IEA hanno respinto le accuse di discriminazione, come si legge in un tweet del vice portavoce Hamdullah Fitrat:

L’Emirato islamico afgano è accusato di violazione dei diritti umani e di apartheid di genere da parte di alcuni paesi e fazioni. I diritti umani sono protetti in Afghanistan e nessuno è discriminato. Sfortunatamente, sono in corso tentativi di diffondere propaganda contro l’Afghanistan su richiesta di un certo numero di donne per far apparire la situazione negativa.

I leader dell’IEA sono costantemente orgogliosi delle loro politiche sulle donne. Nel suo messaggio di Eid al-Adha del giugno 2023, ad esempio, il leader supremo Mullah Hibatullah Akhundzada ha affermato (come riportato dall’AP ) :

È stato ripristinato lo status della donna come essere umano libero e dignitoso e tutte le istituzioni sono state obbligate ad aiutare le donne a garantire il matrimonio, l’eredità e altri diritti.

Considerata la posizione dell’Emirato secondo cui ciò che altri vedono come restrizioni alle libertà e al comportamento delle donne sono in accordo con la legge divina e, in ogni caso, sono una questione interna in cui gli altri paesi non hanno il diritto di interferire, sembra quasi inevitabile che la Corte internazionale di giustizia alla fine si occuperà del caso. Se ciò dovesse accadere, sarebbe la prima volta che un paese viene citato in tribunale per discriminazione contro le donne.

 

Come funziona la Corte internazionale di giustizia?

La Corte internazionale di giustizia, spesso chiamata “Corte mondiale”, è il braccio giudiziario delle Nazioni Unite. Risolve le controversie legali tra stati in conformità con il diritto internazionale, oltre a fornire pareri consultivi su questioni legali sottopostegli da organi e agenzie delle Nazioni Unite*.* I paesi possono presentare un caso alla CIG contro un altro paese firmatario, che verrà esaminato dai suoi 15 giudici , che provengono da tutto il mondo. Le decisioni sono vincolanti, ma la corte non ha un proprio potere di esecuzione, di cui parleremo più avanti. Sommariamente, la CIG ha sede all’Aia nei Paesi Bassi, che ospita anche la Corte penale internazionale (CPI), una corte completamente separata che si occupa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio da parte di individui, non di stati.

L’iniziativa della Corte internazionale di giustizia si concentra sulle violazioni della CEDAW, in pratica una carta dei diritti delle donne, di cui l’Afghanistan è diventato parte nel 2003. Le convenzioni sono firmate dai paesi, non dai governi, quindi rimangono in vigore indipendentemente dai cambiamenti di governo. Quindi, sebbene l’Emirato senza dubbio metterà in discussione la giurisdizione della CEDAW, rimane vincolato da essa ai sensi del diritto internazionale. È degno di nota che nessuno dei paesi che hanno preso questa iniziativa si è rivolto all'”Emirato islamico dell’Afghanistan” nelle proprie dichiarazioni, scegliendo invece di fare riferimento alle “autorità di fatto” o ai talebani. Hanno anche cercato di sottolineare, nelle parole del ministro degli esteri tedesco nella dichiarazione citata in precedenza:

[C]on questo, non stiamo riconoscendo politicamente i Talebani come il governo legittimo dell’Afghanistan. Tuttavia, sottolineiamo che le autorità de facto sono responsabili del rispetto e dell’adempimento degli obblighi dell’Afghanistan ai sensi del diritto internazionale.

La possibilità che portare l’IEA alla Corte internazionale di giustizia possa contribuire al suo riconoscimento di fatto è stata una preoccupazione sollevata dalle donne nelle consultazioni tenutesi negli ultimi due anni (come quella organizzata dall’Afghanistan Human Rights Coordination Mechanism nel gennaio 2024, a cui ha partecipato l’autore). Parwana Ibrahimkhail Nijrabi, una delle donne che ha guidato le proteste in Afghanistan dopo la caduta della Repubblica islamica, ora in esilio, ha dichiarato ad AAN: “L’iniziativa della Corte internazionale di giustizia è uno sforzo prezioso e importante, a patto che non si traduca nel riconoscimento dei talebani”. Nijrabi aggiunge: “In qualsiasi processo correlato a questa iniziativa, è essenziale che alle donne, vittime dei crimini dei talebani, venga assegnato un ruolo attivo e significativo”.

Per i governanti dell’Afghanistan, tuttavia, sembrerà senza dubbio ingiusto che siano vincolati da un trattato che non hanno firmato, in particolare quando gli stati querelanti non riconoscono l’Emirato come governo dell’Afghanistan. Ciò mette l’IEA in difficoltà: senza riconoscimento, non può rappresentare lo stato dell’Afghanistan per ritirare o applicare riserve alle convenzioni internazionali. Allo stesso tempo, per ricevere il riconoscimento, è possibile che, tra le altre cose, debba smettere di violare la CEDAW.

L’IEA potrebbe, tuttavia, trovare una certa simpatia tra alcune nazioni musulmane, alcune delle quali hanno scelto di non ratificare la CEDAW, mentre altre lo hanno fatto con riserve (in un’analisi della CEDAW in Medio Oriente e Nord Africa condotta da Amnesty International nel 2021, dei 14 firmatari della regione, otto avevano espresso riserve alla luce di quelle che consideravano parti incompatibili con la legge della sharia).[4] Quando il governo afghano ad interim ratificò il trattato nel 2003, fu il primo paese musulmano a farlo (piuttosto “inaspettatamente” secondo questa revisione accademica, CEDAW e Afghanistan , che rileva un contesto in cui il nuovo governo era sotto pressione per dimostrare un impegno per l’uguaglianza di genere). È anche sorprendente che gli Stati Uniti stessi non abbiano mai ratificato la CEDAW, sostenendo che l’IEA avrebbe simpatizzato con la sovranità legale, intrecciata con alcuni “valori familiari” conservatori (riassunti in questo articolo di Heinrich Böll “CEDAW e USA: quando la fede nell’eccezionalismo diventa esemplarismo”).

 

Quanto tempo potrebbe durare un procedimento legale?

Ci sono due fasi prima che la corte possa intervenire: negoziazione e arbitrato, come stabilito dall’articolo 29 della Convenzione . L’IEA è stata informata e invitata a risolvere le presunte violazioni della CEDAW e ora devono esserci segnali di un “genuino tentativo” di risolvere la situazione attraverso la negoziazione. Non è previsto alcun periodo di tempo per questa fase.[5] La seconda fase, l’arbitrato, ha una finestra di sei mesi. Se l’Emirato non risponde o l’arbitrato non riesce a risolvere la controversia, il caso andrà di fronte alla corte.

Una volta che un caso arriva in tribunale, le sentenze definitive possono richiedere anni.[6] Tuttavia, le decisioni provvisorie, o “misure provvisorie”, possono essere emesse nel giro di settimane o mesi. Ad esempio, in un caso presentato dal Sudafrica il 29 dicembre 2023 contro Israele, accusato di aver violato la Convenzione sul genocidio nella Striscia di Gaza, la Corte internazionale di giustizia ha emesso misure provvisorie entro 28 giorni. È probabile che i quattro Paesi coinvolti nel caso afghano richiedano misure provvisorie alla presentazione della denuncia contro l’Emirato.

 

Quale impatto può avere il tribunale?

La Corte internazionale di giustizia è limitata a emettere ordini, come l’istruzione di conformità con gli obblighi internazionali.[7] Per la maggior parte, gli stati aderiscono alle decisioni della Corte internazionale di giustizia, anche se ci sono molti esempi di stati che le ignorano.[8] L’istruzione di conformità potrebbe sembrare una prospettiva relativamente benigna per l’IEA, che è abituata a essere punita per violazioni del diritto internazionale. Tuttavia, gli ordini della Corte internazionale di giustizia sono legalmente vincolanti e la mancata osservanza potrebbe comportare un deferimento ad altre entità delle Nazioni Unite, in particolare al Consiglio di sicurezza.

La politica del Consiglio di sicurezza non è mai semplice. Non ci sono garanzie che sosterrebbe la corte nell’applicare misure contro l’IEA. Non solo gli Stati Uniti sono un astenuto della CEDAW, ma un altro membro permanente, la Cina, non ha accettato l’articolo 29 della CEDAW, la disposizione che consente alla corte di intervenire quando gli stati hanno una controversia sulla CEDAW.

Detto questo, un certo numero di funzionari dell’IEA sono già soggetti a sanzioni del Consiglio di sicurezza, quindi è possibile che vengano imposte ulteriori sanzioni e/o meccanismi di controllo. È qui che iniziano a vedersi i potenziali denti di questa iniziativa: l’Emirato vorrebbe che i divieti di viaggio fossero allentati, non che venissero imposte ulteriori sanzioni. Vuole anche il riconoscimento dell’ONU con tutto ciò che ne consegue, tra cui prendere il posto dell’Afghanistan all’Assemblea generale dell’ONU e far riconoscere i suoi diplomatici nelle capitali di tutto il mondo. Anche le misure provvisorie della Corte internazionale di giustizia potrebbero quindi rappresentare un ostacolo alle ambizioni dell’Emirato.

L’altro modo in cui la Corte internazionale di giustizia ha un impatto è sul comportamento di altri stati. Il clamore che ha circondato un altro esame della Corte internazionale di giustizia, relativo a Israele e alla sua occupazione della Palestina (in seguito a questa richiesta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2022), mostra le potenziali ramificazioni del coinvolgimento della corte. La corte ha stabilito nel luglio 2024 che l’occupazione a lungo termine del territorio palestinese da parte di Israele era “illegale” e equivaleva a un’annessione di fatto, aggiungendo che Israele stava violando il divieto internazionale di segregazione razziale e apartheid.

Israele stesso ha ignorato la corte, accusandola di antisemitismo (vedi questa dichiarazione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu), ma la sentenza della corte ha delle ramificazioni per altri stati che potrebbero comportare sanzioni, embarghi sulle armi, così come altre relazioni diplomatiche ed economiche. C’erano state precedenti richieste da parte del Consiglio per i diritti umani e degli esperti delle Nazioni Unite per un embargo sulle armi contro Israele, che erano rimaste inascoltate. Ma scoprendo che Israele ha violato le protezioni dei diritti umani contro l’apartheid, la Corte internazionale di giustizia ha fatto pressione non solo su Israele ma, come ha affermato il Direttore esecutivo di Human Rights Watch, Tirana Hassan : “La corte ha attribuito la responsabilità a tutti gli stati e alle Nazioni Unite di porre fine a queste violazioni del diritto internazionale”. Ciò include coloro che sono firmatari del Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite e della Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid . In questo articolo di opinione , “Perché sarà difficile ignorare la sentenza della Corte internazionale di giustizia contro le politiche di insediamento di Israele”, si analizza come una sentenza della Corte internazionale di giustizia potrebbe esercitare pressione sugli stati affinché agiscano, e in questa dichiarazione degli esperti delle Nazioni Unite che invita altri stati ad agire. In un altro caso portato dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dal Nicaragua, che mirava a fermare le vendite di armi tedesche a Israele , la corte ha scelto nel febbraio 2024 di non emettere misure provvisorie (ritenendo che le vendite di armi tedesche erano, di fatto, diminuite), ma i giudici non hanno archiviato il caso e sembra che la Germania possa, in risposta, aver fermato le vendite di armi.[9] Sono in corso una serie di altri sforzi legali per fermare le esportazioni di armi a Israele, tutti rafforzati dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia.[10]

L’effetto domino di una sentenza della Corte internazionale di giustizia (ICJ) – o anche di misure provvisorie – dovrebbe, almeno, far riflettere l’IEA. Se si scoprisse che l’IEA ha violato la CEDAW, una sentenza o una misura forte della corte potrebbe avere ripercussioni sul modo in cui i paesi di tutto il mondo e le organizzazioni internazionali interagiscono con essa.

 

Chi c’è dietro l’iniziativa

Mentre Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi sono stati al centro dell’attenzione quando è stata annunciata questa mossa, l’iniziativa è stata il culmine di quasi tre anni di advocacy da parte di difensori dei diritti delle donne afghani e internazionali, che hanno incluso l’identificazione dei paesi disposti a presentare un reclamo presso la corte.[11] L’Open Society Justice Initiative ha lavorato dietro le quinte a questa iniziativa per tre anni (come affermato in questo tweet ), incluso fornire questo utile briefing sul processo e ospitare consultazioni con le donne afghane. Tra i sostenitori afghani, Shaharzad Akbar, direttore esecutivo di Rawadari ed ex presidente della Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan (AIHRC), ha detto ad AAN che spera che “finalmente le donne in Afghanistan possano vedere che non sono dimenticate”. Shukria Barakzai, ex membro del parlamento e ambasciatrice in Norvegia, è una co-fondatrice della Coalizione delle donne afghane per la giustizia, che è stata impegnata nell’advocacy su una serie di iniziative di giustizia, incluso il supporto al percorso della Corte internazionale di giustizia. Barakzai ha detto ad AAN che “anche con questo semplice annuncio, ciò dimostra ai talebani che saranno ritenuti in qualche modo responsabili”.

I paesi che hanno presentato la denuncia alla Corte internazionale di giustizia, tuttavia, sono tutt’altro che ideali per alcuni sostenitori. Tutti e quattro gli stati che hanno sponsorizzato l’iniziativa in precedenza hanno sostenuto la Repubblica islamica e avevano truppe sul campo in Afghanistan; l’IEA li considererà attori intrinsecamente ostili. Inoltre, sebbene il Ministero degli esteri tedesco abbia affermato che i suoi “partner” includevano “quelli del mondo islamico”, l’elenco dei 22 stati che hanno sostenuto l’iniziativa comprendeva solo un paese a maggioranza musulmana: il Marocco.[12] Dato che l’Emirato afferma che le sue politiche su donne e ragazze sono ordinate dalla sharia, questo non è l’ideale. Infine, come notato sopra, la Germania stessa è stata coinvolta in una tesa disputa presso la Corte internazionale di giustizia per i suoi stretti rapporti con Israele nonostante le violazioni dei diritti palestinesi da parte di quello stato, il che ne mina la legittimità, sia in termini di rispetto del diritto internazionale dei diritti umani sia nel guidare un’azione legale che affronterà l’interpretazione della legge divina dell’IEA. Barakzai afferma che questo bagaglio è una vera preoccupazione per l’Afghanistan Women’s Coalition for Justice, ma che l’organizzazione sta cercando di ottenere maggiore sostegno dagli stati musulmani, da importanti studiosi islamici e dall’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC).

 

Altre vie legali perseguite

La Corte internazionale di giustizia non è l’unica proposta che utilizza il diritto internazionale per sfidare l’Emirato sulle sue politiche su donne e ragazze. Nel febbraio 2023, il relatore speciale, Richard Bennett, ha chiesto alla Corte penale internazionale di considerare il crimine di persecuzione di genere nella sua indagine sull’Afghanistan.[13] La Corte penale internazionale ha compiuto passi da gigante per migliorare il suo track record nell’indagine e nel perseguimento dei crimini di genere negli ultimi anni e nel dicembre 2022 ha rilasciato una nuova politica sulla persecuzione di genere, un anno dopo ha rilasciato una politica rivista sui crimini di genere.[14]

Se si seguisse questa strada, il caso sarebbe contro individui all’interno della leadership dell’IEA, non contro l’Afghanistan, come stato, in contrasto con l’iniziativa della Corte internazionale di giustizia.[15] Finora, però, il procuratore capo della CPI ha detto poco in pubblico sulla sua indagine sull’Afghanistan, con grande frustrazione delle vittime che hanno già sofferto anni di ritardo (la corte ha iniziato il suo esame preliminare della situazione in Afghanistan nel 2006, ma è stata autorizzata a indagare solo nel 2022).[16] Il procuratore aveva già deciso che avrebbe indagato solo sui presunti crimini dei Talebani e dell’ISKP, “de-prioritarizzando” quelli presumibilmente perpetrati dalle ex forze della Repubblica, dagli eserciti internazionali o dalla CIA.

Non si sa se abbia scelto di includere il crimine contro l’umanità della persecuzione di genere come parte della sua indagine. Potrebbe essere che abbia già richiesto l’autorizzazione ai giudici della Camera preliminare della CPI per i mandati di arresto per questo crimine. I mandati possono essere emessi “sotto sigillo” (cioè, in segreto) per aumentare le prospettive di arresto dei sospettati (sebbene dati i divieti di viaggio e la limitata mobilità della dirigenza dell’IEA, le possibilità di arrestare individui mentre visitano un paese amico della CPI siano già scarse). Oppure la corte potrebbe decidere, se incriminasse, che sarebbe meglio rendere pubblici i mandati, con la speranza che ciò abbia un effetto deterrente sull’IEA a vantaggio delle donne e delle ragazze afghane.

Parallelamente alla spinta per procedimenti legali contro l’Emirato per discriminazione di genere attraverso la Corte internazionale di giustizia e forse la Corte penale internazionale, da marzo 2023 un gruppo di importanti difensori dei diritti umani afghani e iraniani ha guidato una campagna per stabilire un nuovo crimine di “apartheid di genere“. Il crimine internazionale di apartheid è definito nello Statuto di Roma come “atti disumani” commessi “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime”. Il nuovo crimine amplierebbe la definizione di apartheid per includere sia il genere che le gerarchie razziali.

Creare nuovi crimini internazionali non è rapido o semplice, ma una possibile via per farlo è un nuovo trattato autonomo sui crimini contro l’umanità (allineandolo ai trattati sui crimini di guerra e sul genocidio). Questo processo sta procedendo a rilento, ma ha molti ostacoli e anni davanti a sé (vedi questo articolo su “Aggiungere genere all’apartheid nel diritto internazionale”).

Conclusione

Nel breve termine, le donne e le ragazze afghane non possono aspettarsi alcun beneficio immediato dall’iniziativa della Corte internazionale di giustizia, come ha riconosciuto il Ministero degli esteri tedesco nel suo annuncio:

Sfruttare le possibilità della convenzione sui diritti delle donne non cambierà la situazione in Afghanistan oggi. Ma dà speranza alle donne afghane. Vi vediamo, vi sentiamo. Parliamo per voi quando siete messe a tacere.

I diritti delle donne e delle ragazze afghane sono stati menzionati costantemente dai diplomatici e nei forum internazionali da quando l’IEA è tornata al potere nell’agosto 2021, con ripetute richieste all’Emirato di invertire le proprie politiche. Tuttavia, gli editti ufficiali che limitano donne e ragazze si sono solo inaspriti. Nel frattempo, nota Akbar, “la normalizzazione continua”. L’iniziativa di portare l’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia potrebbe “come minimo”, afferma, “ritardare il loro riconoscimento e la loro normalizzazione”.

Spesso gli attivisti si chiedono se un’ulteriore pressione internazionale su donne e ragazze potrebbe portare a un perverso inasprimento delle restrizioni da parte dell’IEA. Quando gli è stato chiesto se fosse un rischio, Barakzai ha preso fiato. “Possono peggiorare ulteriormente? Non possiamo respirare ossigeno direttamente. Non possiamo nemmeno ridere a casa nostra a voce alta. Cosa c’è di peggio?”

A cura di Kate Clark

Multe e carcere ai barbieri afghani

Crescono le minacce e le restrizioni ai barbieri nella provincia di Herat: i talebani avvisano che commineranno multe e carcere

8AM Media, 30 settembre  2024

Dopo che i talebani hanno imposto severe restrizioni ai cittadini, i loro militanti hanno picchiato molti residenti di Herat per essersi rasati la barba o tagliati i capelli in pubblico. I barbieri maschi sono tra coloro che sono stati ripetutamente arrestati e imprigionati in container dal Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio per aver rasato o rifinito la barba dei loro clienti. Alcuni barbieri riferiscono che, oltre agli insulti e alle umiliazioni, la polizia morale dei talebani li ha avvertiti che chiunque disobbedisca ai loro ordini verrà multato di 10.000 afghani e imprigionato.

Diversi barbieri di Herat affermano che il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio dei talebani ha emesso degli avvertimenti dopo aver distribuito avvisi e aver monitorato regolarmente il loro lavoro. È stato detto loro che se tagliano i capelli in stile “occidentale” o se sistemano la barba, saranno multati e imprigionati.

I barbieri di Herat riferiscono che questa direttiva è stata emessa verbalmente nei giorni scorsi dalla Polizia morale dei talebani durante le loro ispezioni. Secondo i barbieri, gli esecutori talebani li hanno avvertiti di non toccare la barba dei loro clienti e di tagliare i capelli solo in modo “semplice”.

Homayoun, un barbiere di Herat con anni di esperienza, afferma che le restrizioni dei talebani hanno danneggiato gravemente la sua attività, lasciandolo esausto. Aggiunge di essere stato ripetutamente insultato e umiliato dagli esecutori dei talebani e che questa situazione in peggioramento sta diventando sempre più insopportabile.

Lui dice: “I talebani hanno reso la vita molto difficile a tutti. Questa non è la via di Dio. Hanno messo un avviso nel nostro negozio e vengono ogni settimana a controllare se tagliamo i capelli alla moda o tocchiamo la barba di qualcuno”.

Frustrato, Homayoun aggiunge: “Queste restrizioni hanno causato una perdita significativa di clienti. La polizia morale dei talebani è arrivata e ha insistito affinché tagliassimo i capelli solo in modo semplice. Sottolineano che se i capelli sono acconciati o delineati, saremo multati e imprigionati. Mi hanno schiaffeggiato di fronte ai clienti tre volte e mi hanno umiliato”.

Shafiq, un altro barbiere di Herat, afferma che gli esecutori dei talebani lo hanno avvertito che se disobbedisce ai loro ordini, verrà multato e imprigionato. Aggiunge che le ispezioni quotidiane dei talebani hanno causato un forte calo dei suoi clienti.

“Qualche giorno fa, diversi esecutori sono venuti a controllare il mio lavoro”, ricorda Shafiq. “Avevo semplicemente tagliato i capelli a un cliente, ma mi hanno detto con rabbia che ora che gli infedeli [il precedente governo e gli stranieri] se ne sono andati, sto ancora seguendo le loro abitudini. Mi hanno avvisato, dicendo che tutti i barbieri sono stati informati: se tagli i capelli in stile occidentale o rifinisci la barba, sarai multato di 10.000 afghani e incarcerato per sei mesi”.

Shafiq esprime preoccupazione per l’aumento delle restrizioni alla sua attività, notando che, secondo il quotidiano Hasht-e Subh, quasi 10 barbieri di Herat sono stati picchiati dai Talebani negli ultimi quattro mesi.

Da quando hanno implementato la loro “Legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio”, i talebani hanno inasprito le restrizioni sui cittadini, privando gli uomini del diritto di decidere come prendersi cura di barba e capelli. La legge considera la cura di capelli in stile occidentale simile all’infedeltà e impone agli uomini di farsi crescere la barba non più corta di un pugno.

Il leader supremo dei talebani ha ratificato la “Legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” del gruppo in una prefazione, quattro capitoli e 35 articoli. Questa legge si applica a tutti gli individui in Afghanistan, compresi gli stranieri, senza eccezioni.

Migranti afghani in Iran intrappolati in un ciclo di paura e sopravvivenza

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 30 settembre 2024

Gli afghani fuggiti in Iran per mettersi in salvo dopo la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani nel 2021 affermano di subire  molestie e xenofobia crescenti da quando l’Iran si è impegnato a procedere con le deportazioni di massa dei migranti irregolari.

Il capo della polizia iraniana Ahmad-Reza Radan ha dichiarato in un’intervista questo mese che “quasi due milioni di stranieri illegali saranno deportati dall’Iran” nei prossimi sei mesi. Una campagna del genere porterebbe a una media di oltre 80.000 deportazioni a settimana.

 

Bahara. Molestie sul lavoro e razzismo

La migrante afghana Bahara*, 26 anni, vive nella capitale iraniana Teheran da tre anni da quando ha lasciato l’Afghanistan. Teme che la repressione dei migranti vulnerabili stia causando un aumento dello sfruttamento da parte dei datori di lavoro iraniani.

Il suo capo, proprietario di una sartoria di Teheran, le suggerì di “diventare la sua ragazza e godersi la vita in Iran”. Dopo aver rifiutato la sua proposta, fu costretta a cambiare posto di lavoro e il suo stipendio fu ridotto da 9 milioni di toman (213 dollari USA) al mese a 7 milioni (166 dollari USA). Per motivi di sicurezza, non ha rivelato il nome del negozio.

Bahara ha affermato che le molestie si sono estese oltre il posto di lavoro.

“Un giorno, ero seduta in un minibus quando una donna iraniana di mezza età mi ha chiesto di cederle il posto. Mentre stavo per protestare, un altro passeggero maschio ha detto: “Una afghana osa obiettare?

Bahara ha affermato che, secondo la sua esperienza, avrebbe potuto essere arrestata o deportata se avesse protestato contro tale trattamento, quindi non ha avuto “altra scelta che rimanere in silenzio”.

Prima che i talebani prendessero il controllo dell’Afghanistan nell’agosto 2021, Bahara lavorava nel teatro e nel cinema nella capitale Kabul. La maggior parte dei suoi colleghi è riuscita a ottenere visti per la Francia dopo la caduta di Kabul, ma lei ha perso la possibilità di scappare perché non aveva il passaporto.

“Tutti i miei sforzi per lasciare l’Afghanistan e unirmi ai miei colleghi sono stati vani. Sono persino andata all’aeroporto, ma non mi è stato permesso di entrare perché non avevo il passaporto”, ha detto.

Bahara ha tentato più volte di lasciare l’Afghanistan attraverso vie sicure e legali, ma alla fine si è rassegnata a indossare il burqa e introdursi clandestinamente in Iran.

Ora lotta per vivere, nella paura costante.

“Per me, come migrante afghano, Teheran non è molto diversa da Kabul governata dai talebani. Forse a Kabul mi sarebbe già successo qualcosa, a Teheran il processo è più graduale”, ha detto Bahara.

 

Fatima. Sfruttamento, fame e umiliazioni

Fatima*, 31 anni, a Teheran con la madre e il fratello, sta vivendo sfide simili sul posto di lavoro, dove la sua situazione viene sfruttata per costringerla a lavorare molte ore per una paga misera.

Tre quarti del suo stipendio mensile di 10 milioni di toman (237 dollari) vengono utilizzati per pagare l’affitto, lasciando a lei e alla sua famiglia solo 3 milioni per le spese di sostentamento.

“L’esistenza dei migranti vede anche giorni di fame”, ha affermato.

“Un giorno ero così debole per la fame che ho chiesto a una ragazza iraniana di comprarmi del pane. Oggi, sette mesi dopo, l’umiliazione di quel giorno è ancora viva.”

Il posto di lavoro e l’ambiente esterno alla casa sono sempre pieni di discriminazioni e insulti, ha detto Fatima.

“Ogni giorno mi trovo ad affrontare incontri spiacevoli con le persone e rimango semplicemente in silenzio.”

Fatima era un’impiegata governativa prima del ritorno dei talebani e ha lasciato l’Afghanistan dopo la sua caduta. Preferisce non rivelare il suo precedente posto di lavoro.

Fatima ha affermato che suo fratello è così paralizzato dalla paura di essere deportato e da altre molestie che ormai non esce quasi più di casa.

“L’ultima volta che mio fratello è tornato a casa, sanguinava dalla testa e dal viso. Gli iraniani lo avevano picchiato così forte che gli sono serviti 17 o 18 punti di sutura”, ha detto Fatima.

Suo fratello è stato aggredito a luglio, in concomitanza con le proteste nel distretto 15 di Teheran, dove i residenti avevano scandito “Morte agli afghani” in risposta alle accuse secondo cui un giovane afghano aveva ucciso un iraniano.

 

Aumentano gli immigrati e le tensioni

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, l’Iran ha assistito a un notevole afflusso di migranti afghani.

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR ha stimato che circa 4,5 milioni di cittadini afghani vivano attualmente in Iran. Tuttavia, le agenzie di stampa iraniane hanno lanciato il numero fino a 6 milioni o 8 milioni.

La loro presenza importante a Teheran ha intensificato le tensioni interne, spingendo molti cittadini iraniani a chiederne l’espulsione.

A maggio, il Ministero degli Interni iraniano ha riferito che negli ultimi 12 mesi sono stati deportati in Afghanistan 1,3 milioni di migranti clandestini.

Secondo quanto riportato di recente dalla BBC Persian, ogni giorno vengono deportati dall’Iran almeno 3.000 migranti, compresi quelli con residenza legale.

Sia Bahara che Fatima temono di tornare in Afghanistan, ma si sentono spinte al limite della loro sopravvivenza in Iran.

Bahara ha detto che non sarebbe stata al sicuro a Kabul, ma ha anche detto: “Sono tre anni che sopravvivo, vivendo la mia vita come una creatura senza scopo [a Teheran]”.

Fatima si sente sopraffatta dal modo in cui viene trattata a Teheran.

Ho subito così tanti insulti e umiliazioni che preferirei tornare in Afghanistan e farmi uccidere”.

*Nota: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

Le sfide della scuola online per le ragazze afghane

Le ragazze afghane che studiano online hanno ora un’altra preoccupazione: i loro diplomi sono validi?

Farhiya è una diciannovenne di Kabul. Era al 9° anno in una scuola pubblica quando lei e centinaia di migliaia di altre ragazze furono costrette a rimanere a casa dopo che i talebani avevano ripreso il potere. “La presa del potere da parte dei talebani, la chiusura delle scuole e questo cambiamento improvviso che mi ha tolto molte opportunità mi hanno causato una grave depressione”, racconta allo Zan Times. “Ma a marzo 2023, i miei amici mi hanno informato di una scuola online chiamata Gawharshad Begum e mi sono subito iscritta”.

Poiché i talebani avevano continuato a promuovere le ragazze nelle scuole pubbliche a classi superiori senza che frequentassero le lezioni nelle scuole pubbliche nel 2021 e nel 2022, Farhiya è andata all’undicesimo anno quando ha ripreso gli studi. Trascorre tre o quattro ore al giorno frequentando le lezioni sul suo smartphone e computer tramite Google Meet e prevede di diplomarsi al dodicesimo anno a gennaio 2025. Farhiya vede l’istruzione online come la sua unica opportunità, nonostante l’incertezza sulla validità dei suoi certificati per le studentesse.

La scuola online ha le sue sfide. “Il costo di Internet è uno dei miei più grandi problemi”, afferma Farhiya. “Uso il Wi-Fi, ma a volte è lento e l’audio si interrompe e si interrompe. Oppure non riesco a partecipare alle lezioni a causa delle interruzioni di corrente”. Trova anche stancanti le ore passate seduta davanti a un computer o a fissare lo schermo di un telefono. Al contrario, l’istruzione di persona consentiva un contatto diretto con gli insegnanti, il che l’aiutava nell’apprendimento, nota.

Il padre di Farhiya, Younos, 50 anni, sostiene la sua famiglia di nove membri con il suo lavoro, impiegato presso un’azienda privata. Nonostante le pressioni finanziarie sulla loro famiglia, stanzia circa 2.000 afghani al mese per Internet di Farhiya. Younos è contento che sua figlia possa continuare la sua istruzione, affermando: “Riduciamo il cibo e le necessità quotidiane, quindi paghiamo Internet e le permettiamo di frequentare le sue lezioni”.

Il 14 agosto 2024, durante un programma in diretta su Ariana News TV in Afghanistan, un conduttore ha chiesto a Mawlawi Abdul Kabir, vice primo ministro dei talebani, informazioni sulla scolarizzazione delle ragazze, che termina con la sesta elementare. Dopo aver riso, ha detto che i talebani non sono contrari all’istruzione delle ragazze nel quadro della legge islamica e che le ragazze possono studiare nelle scuole religiose. “Alle ragazze è consentito studiare dalla prima alla sesta elementare, ma per ora, le classi superiori, comprese le scuole medie e superiori e le università, sono chiuse”, ha aggiunto. “L’Emirato islamico non ha approvato una legge che stabilisca che le scuole rimarranno chiuse in modo permanente”.

 

Un percorso alternativo: studiare online

L’impatto di tre anni di chiusura è grave. Gli ultimi rapporti dell’UNESCO mostrano che i talebani hanno privato 1,4 milioni di ragazze in Afghanistan di opportunità educative. Per trovare un percorso alternativo per l’istruzione delle ragazze, alcuni attivisti dell’istruzione in Afghanistan hanno creato scuole online. Il numero di ragazze in grado di iscriversi a queste scuole è sconosciuto, ma a causa del costo di Internet, è probabile che si tratti di una piccola quota di ragazze che dovrebbero essere in classe.

Zohal è una studentessa di 8° grado in una scuola online chiamata Azadi. La quindicenne vive con la sua famiglia povera nella provincia di Balkh e vuole ottenere una borsa di studio per studiare psicologia dopo la laurea. Prima che i talebani prendessero il potere, il padre di Zohal era un medico che lavorava per una ONG internazionale. Ora è disoccupato e la madre di Zohal deve mantenere la loro famiglia di sette membri. “Viviamo in una vecchia casa di fango ereditata da mio nonno. Non possiamo nemmeno permetterci di dipingere la casa. Le nostre condizioni economiche sono pessime”, spiega Zohal. “Mia madre copre le mie spese di Internet con il suo lavoro di cucito. I miei genitori dicono sempre che faranno tutto il necessario per finanziare la mia istruzione, anche se non abbiamo niente da mangiare”.

Come Farhiya, Zohal si preoccupa di come continuare la sua istruzione dopo essersi diplomata al 12° anno: “Nonostante continui i miei studi online, la mia preoccupazione più grande è che ci verranno rilasciati certificati riconosciuti solo dalla scuola online stessa, ma che non saranno accettati né all’interno né all’esterno del paese. Se ciò accadesse, non sarei in grado di ottenere una borsa di studio o un lavoro e non mi permetterebbero nemmeno di sostenere l’esame di ammissione all’università in Afghanistan”.

Per questo rapporto, Zan Times ha intervistato 10 studenti che frequentano scuole online nelle province di Kabul, Nangarhar, Balkh, Herat e Ghazni. Otto hanno espresso preoccupazioni sulla validità dei loro certificati di laurea dalle scuole online, mentre i restanti due hanno affermato che sfuggire alla depressione ed essere costretti a casa era più importante che avere un certificato, almeno per ora. Nove studenti si sono lamentati dell’elevato costo di Internet richiesto per frequentare lezioni online, mentre hanno anche notato che altre sfide includono scarse velocità di Internet, interruzioni di corrente e una mancanza di comunicazione diretta con gli insegnanti.

Gli amministratori e gli insegnanti delle scuole online spiegano che continuano a istruire gli studenti, spesso senza il supporto finanziario o morale di organizzazioni internazionali o governi stranieri. Nella provincia di Balkh, Kamela, 22 anni, lavora in una scuola elementare pubblica e insegna in una scuola online nel suo tempo libero. Era al quarto anno di scienze alla Balkh University quando i talebani chiusero le università alle donne. Ha trascorso nove mesi imparando come diventare un’educatrice a distanza da un’organizzazione chiamata Intertek e ora insegna inglese, tedesco, turco e calligrafia agli studenti della scuola online Azadi. Non viene pagata per il suo lavoro: “Faccio volontariato in questa scuola e pago Internet e le spese con il mio stipendio di insegnante di scuola elementare. Siamo in difficoltà finanziarie, ma voglio sostenere le ragazze di questo paese insegnando loro il più possibile”.

Kamela spera che un giorno tutte le ragazze afghane potranno continuare la loro istruzione senza restrizioni, così da poter contribuire alla ricostruzione del loro Paese.

Selma è coinvolta nell’apprendimento online da due anni. “Nel 2022, ho capito che i talebani non hanno intenzione di riaprire le scuole secondarie e superiori per le ragazze, quindi ho deciso di fondare una scuola online”, afferma. Quella scuola è Gawharshad Begum. “Gli insegnanti lavorano volontariamente e gli studenti continuano la loro istruzione gratuitamente”. Dopo essere stata aperta per un anno, la scuola ha iscritto 550 studentesse, che vengono istruite in orari diversi durante il giorno da 50 donne che hanno un diploma di scuola superiore e una laurea triennale.

Studenti e insegnanti trovano la scuola di Selma tramite i social media. “Dopo aver esaminato i precedenti risultati accademici degli studenti, li inseriamo nei gradi appropriati”, spiega Selma. “Il curriculum segue il sistema del Ministero dell’Istruzione dell’era della Repubblica e tutte le materie scolastiche fanno parte del programma. Abbiamo tre o quattro ore di lezione al giorno, ma si tengono in orari diversi perché i nostri insegnanti sono impegnati con le loro attività quotidiane e offrono il loro tempo libero per questo”. Quelle lezioni e quegli esami online sono gestiti tramite piattaforme come Google Meet e Zoom, mentre gli studenti possono fare domande e inviare i compiti tramite gruppi WhatsApp e Telegram.

 

Sarà possibile laurearsi?

Sebbene Gawharshad Begum sia operativa da un anno, non ha ancora laureato studenti. Gli amministratori e gli insegnanti delle scuole online ammettono di non essere sicuri che qualcuno riconoscerà i loro diplomi. Come per molti problemi in Afghanistan, le preoccupazioni immediate (l’insegnamento alle ragazze) superano quelle a lungo termine.

Selma riconosce le preoccupazioni degli studenti sulla validità dei loro certificati di laurea: “Anch’io sono preoccupata perché i certificati sono riconosciuti solo dalla nostra scuola e non dal Ministero dell’Istruzione. Questi certificati potrebbero non essere validi per l’ammissione a università straniere o online”. A causa di sfide come i costi di Internet, le connessioni lente e le frequenti interruzioni di corrente, gli insegnanti registrano le lezioni e le condividono in gruppi, consentendo agli studenti di recuperare. “Capisco le difficoltà finanziarie degli studenti”, aggiunge Selma. “Anche io riesco a malapena a permettermi le spese di Internet, che pago con il mio stipendio da insegnante. La maggior parte degli studenti affronta gli stessi problemi perché non abbiamo alcun supporto finanziario”.

Farhiya teme che il suo certificato di laurea online non la aiuti a realizzare il suo sogno di studiare medicina: “Spero che quando mi laureerò, mi rilasceranno un certificato valido e utile. Questo certificato dovrebbe essere riconosciuto sia in Afghanistan che a livello internazionale, in modo che gli studenti possano usarlo per costruire un futuro più luminoso”. Farhiya nota che non pensava a questo problema quando si è iscritta per la prima volta alla scuola online: voleva solo evitare di essere costretta a casa. Ora, è diventata un’altra preoccupazione.

Sana Atef è lo pseudonimo di una giornalista freelance in Afghanistan. I nomi in questo articolo sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

I Talebani impongono nuove restrizioni ai media

Anche la libertà di informazione è sempre più sotto attacco nell’Afghanistan dei talebani

Ghulam Sirat e Masood Saifullah, Rawa News, 27 settembre 2024

Secondo l’Afghanistan Journalists Center (AFJC), un’organizzazione indipendente che sostiene i media e la libertà di stampa in Afghanistan, i talebani hanno recentemente imposto ulteriori restrizioni alle organizzazioni mediatiche in Afghanistan, proibendo di criticare le loro leggi e politiche e vietando la trasmissione di programmi politici in diretta.

L’AFJC ha affermato che, durante una riunione del 21 settembre, i talebani hanno dato istruzioni ai responsabili dei media che gli argomenti dei programmi politici devono essere prima approvati dai membri talebani.

I talebani hanno emanato nuove linee guida, intimando alle organizzazioni mediatiche di invitare solo ospiti approvati dal gruppo.

I talebani hanno fornito una lista di 68 esperti che approvano per apparire in programmi politici. Secondo le nuove linee guida, i funzionari talebani devono essere informati in anticipo se un ospite al di fuori della lista approvata dai talebani deve apparire in uno spettacolo.

“La linea guida rappresenta un nuovo tentativo di indebolire ed emarginare ulteriormente i media indipendenti”, ha affermato l’AFCJ in una nota, invitando i talebani ad astenersi dal sopprimere i media liberi.

 

L’erosione delle libertà civili in Afghanistan dopo la presa del potere da parte dei talebani

I talebani hanno continuato a imporre restrizioni alle organizzazioni mediatiche da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021, tra cui il divieto alle donne di mostrare il proprio volto in onda e di trasmettere musica.

In alcune province, anche le voci femminili sono bandite dai programmi di call-in. Il gruppo imprigiona inoltre regolarmente giornalisti e professionisti dei media che, secondo i talebani, agiscono contro “gli interessi nazionali e islamici in Afghanistan”.

I talebani hanno avvertito che se una qualsiasi delle nuove direttive verrà violata da un’organizzazione mediatica, il gruppo tratterà il conduttore del programma, il produttore, il direttore e gli ospiti “secondo le regole”.

Da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, il gruppo ha emanato 21 direttive volte a limitare le attività dei media, alcune delle quali possono essere considerate piuttosto bizzarre.

Una di queste direttive delle linee guida “vizio e virtù” dei talebani include il divieto di mostrare creature viventi in TV. Il gruppo non ha fornito dettagli su cosa significhi il divieto.

 

“Morte della libertà di parola” in Afghanistan

I giornalisti che lavorano in Afghanistan sono riluttanti a parlare perché temono di essere perseguiti dai talebani. Tuttavia, altri che sono riusciti a fuggire dal paese hanno criticato le nuove direttive.

“Questa direttiva è la morte della libertà di parola perché limita la libertà di stampa”, ha detto a DW Nawid Ahmad Barakzai, un giornalista afghano attualmente residente in Pakistan.

“I media in Afghanistan non possono più operare secondo i principi giornalistici”, ha affermato Barakzai, che ha lavorato in Afghanistan sotto il regime dei talebani prima di fuggire dal Paese.

Ha aggiunto che ai media in Afghanistan non è consentito riferire di “corruzione, immoralità, illegalità o violenza perpetrate dai talebani in passato”.

Un professionista dei media ha raccontato a DW che i talebani spesso impartiscono tali direttive durante incontri faccia a faccia con i responsabili dei media, che erano stati convocati presso il Ministero della cultura e dell’informazione dei talebani e informati delle nuove regole.

“I giornalisti devono ottenere l’approvazione dei talebani per cercare l’opinione pubblica sugli eventi”, ha detto Barakzai. Ha avvertito che se le nuove direttive fossero state implementate, i talebani avrebbero potuto usare i media afghani per la loro propaganda.

“I media afghani potrebbero diventare portavoce dei talebani”, ha affermato.

Da quando sono saliti al potere, la più grande pretesa dei talebani è stata quella di ripristinare la sicurezza in Afghanistan. Pertanto, il gruppo controlla rigorosamente quali notizie provengono dall’Afghanistan.

 

Censura ovunque in Afghanistan

Un giornalista che lavora in Afghanistan, che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonimo, ha dichiarato a DW che i talebani non consentono a nessun giornalista di fare reportage sulle scene del crimine, sulle esplosioni, sui furti o su altri incidenti.

Ha spiegato che le forze di intelligence dei talebani forniscono dettagli ai media “in qualunque modo ciò possa risultare loro utile”.

Il giornalista ha aggiunto che quando un organo di stampa vuole intervistare funzionari talebani, le domande devono essere condivise in anticipo con il dipartimento competente. Solo dopo che le domande sono state preparate in un modo che vada bene ai funzionari talebani, l’intervista può essere condotta.

Il giornalista ha affermato che, se dopo la registrazione e la messa in onda di un’intervista si verifica una reazione pubblica, i talebani chiedono conto all’organo di informazione.

“Una volta ho intervistato un membro dei talebani e, dopo la messa in onda, più di 50 membri dei talebani mi hanno chiamato chiedendomi perché non avessi rimosso la parte in cui il religioso sorrideva”, ha detto

 

Germania: rimpatrio forzato per afghani che hanno già scontato condanne con pene brevi

Angela DI Pietro 24 settembre 2024

Il 30 agosto un gruppo di 28 cittadini afghani è stato espulso dalla Germania e rimpatriato in Afghanistan. La stampa non ha riportato notizie di manifestazioni di protesta contro tale misura e i giornali sono quasi unanimi nella loro approvazione dell’azione del ministero dell’interno tedesco in collaborazione con la maggior parte dei Länder (11), affermando come siano stati espulsi criminali pericolosi già condannati e che avevano già scontata tutta o parte della pena; alcuni sono stati prelavati direttamente dal carcere.

In molti giornali vengono riportati i crimini di cui si erano macchiati (stupri, violenze a sfondo sessuale, assalti armati con coltello, mentre su un solo giornale si legge che alcuni avevano condanne per spaccio di droga). In realtà la maggior parte era stata condannata a pene relativamente brevi (2-5 anni), mentre dai titoli dei maggiori quotidiani si ha l’impressione che si trattasse di veri e propri pericoli pubblici. In particolare, viene dato risalto all’espulsione di un uomo che alcuni anni fa aveva partecipato a uno stupro di gruppo su una quattordicenne; in realtà però costui aveva già scontato la sua pena (aveva avuto soltanto 2 anni di reclusione).

Clima pesante per gli immigrati in una Germania che vira verso l’estrema destra

L’azione, che ha avuto luogo solo due giorni prima delle elezioni politiche nei Länder della Sassonia e della Turingia, sarebbe stata in realtà in preparazione da circa due mesi. La Germania si è avvalsa dell’appoggio del Qatar: l’aereo partito da Lipsia era del Qatar, e a bordo non c’erano forze di sicurezza tedesche ma qatariote. In questo modo la Germania può affermare di non aver trattato direttamente con i talebani e di non aver avuto nessun rapporto diretto con loro.

Il rimpatrio si inserisce in un clima nazionale nel quale l’immigrazione ed i problemi ad essa collegati sono diventati temi attuali e scottanti. In particolare, negli ultimi mesi l’opinione pubblica è stata scossa da due episodi di violenza di cui sono stati protagonisti dei rifugiati.   Alla fine di maggio a Mannheim durante una manifestazione anti-islam un afghano incensurato ha attaccato con un coltello alcune persone, uccidendo un poliziotto; bersaglio dell’attentato era un noto attivista di destra, che si preparava a fare un discorso. In quell’occasione il Cancelliere Scholz aveva parlato dell’intenzione di deportare gli autori di gravi crimini, anche se provenienti da paesi come Afghanistan e Siria.

Il 23 agosto a Solingen durante i festeggiamenti per il 650° anniversario della nascita della città un cittadino siriano armato di coltello ha ucciso tre persone e ne ha ferite altre otto “per vendicare i mussulmani in Palestina e ovunque”. Grandi polemiche ha suscitato il fatto che già nel 2023 l’attentatore avrebbe dovuto essere espulso e rimandato in Bulgaria in base agli accordi del Trattato di Dublino 3, ma che per motivi burocratici l’espulsione non aveva poi avuto luogo.

A seguito degli attentati, e soprattutto di quello del 23 agosto, è aumentata da più parti la pressione sul governo perché metta in atto politiche per limitare l’immigrazione e garantire la sicurezza del paese. Negli ultimi giorni, sempre sull’onda delle reazioni per l’attentato a Solingen, il governo tedesco ha approvato un pacchetto di misure per limitare il diritto d’asilo e da lunedì 16 settembre verranno ripristinati – per sei mesi – i controlli alle frontiere tedesche (scavalcando Schengen).

La Germania intende anche continuare la politica dei rimpatri forzati. In base a voci che la Ministra Federale dell’Interno Nancy Faeser non ha né confermato né smentito, la sua attuale visita in Uzbekistan assieme al Cancelliere Scholz avrebbe anche come obiettivo quello di rendere possibil rimpatri nel confinante Afghanistan evitando rapporti diretti con i talebani.

Nel frattempo, i partiti di opposizione utilizzano il tema dell’immigrazione per profilarsi e attaccare la politica del governo. Alle ultime elezioni europee il partito di estrema destra AfD, che fa dell’opposizione all’immigrazione uno dei temi centrali della propria politica, ha raggiunto il secondo posto in Germania con il 15,9% dei voti. Il crescente consenso per questo partito è stato rispecchiato anche dai risultati delle elezioni politiche del 1° settembre in Turingia ed in Sassonia, due soli giorni dopo il rimpatrio dei cittadini afghani: l’AfD è risultato il primo partito in Turingia e il secondo in Sassonia (per una manciata di voti), mentre ottimi risultati ha avuto anche il nuovo partito populista fortemente anti-immigrazione denominato Alleanza Sahra Wagenknecht.

Il fallimento dello stato di diritto

Mentre dal panorama politico non si sentono voci contrarie alle espulsioni, critiche decise sono arrivate dalle organizzazioni per i diritti umani.

La segretaria di Amnesty International Germania ha criticato l’espulsione verso un Paese che pratica la tortura e non rispetta i diritti umani, affermando che con le deportazioni in Afghanistan la Germania rischia di diventare complice dei talebani. Pro-Asyl, che teme che questi rimpatri passano essere un primo passo verso la normalizzazione dei rapporti con i talebani, ha parlato di “fallimento dello stato di diritto” e ha ricordato che in Afghanistan nel solo mese di giugno più di 60 persone sono state frustate con l’accusa di omosessualità. L’organizzazione umanitaria Medico International ha parlato di un governo che in un clima di populismo di destra va a caccia di voti “sulla pelle dei perseguitati”, ed ha ammonito che non si sa a cosa andranno incontro i deportati dopo il rientro in Afghanistan.

Che peccato, Meryl Streep!

cisda.it 26 settembre 2024

Il discorso di Meryl Streep all’ONU, che ha confrontato le donne afghane con un gatto o a uno scoiattolo, evidenziando come questi abbiano più libertà e considerazione di una donna oggi a Kabul, sicuramente è stato più efficace di mille dettagliate spiegazioni delle leggi talebane contro le donne che le organizzazioni per i diritti delle donne si prodigano di fare ovunque e appena possibile nel tentativo di spiegare alla comunità civile internazionale quanto sia terribilmente insopportabile la segregazione cui i talebani sottopongono le donne e le ragazze afghane. Uno splendido esempio di capacità di comunicazione, un modo semplice ma efficace di diffondere informazione, che colpisce l’immaginario e la sensibilità della gente semplice – e forse anche degli assuefatti addetti ai lavori.

Una capacità di sintesi e incisività che spesso manca a noi attiviste che lavoriamo a stretto contatto con le donne afghane, sopraffatte come siamo dal desiderio di raccontare con più dettagli possibili le torture, fisiche e psicologiche, cui le donne sono quotidianamente costrette a far fronte, cercando di riversare più storie possibili nei pochi stretti spazi di comunicazione che ci vengono concessi dalla grande informazione e dalla politica ufficiale, nel tentativo di dare voce alle dimenticate donne afghane per risarcirle di tutte le loro privazioni.

Discorso sapientemente costruito, quello di Meryl Streep, probabilmente preparato da abili esperti della comunicazione… ma privo del contatto reale con la popolazione e le donne afghane, un discorso scritto e pronunciato lontano dalla realtà e dalla storia politica dell’Afghanistan.

Perché se Meryl Streep e i suoi pr avessero una maggiore conoscenza di cosa pensano e cosa chiedono le donne che, rimaste in Afghanistan o costrette a fuggire via dal Paese, comunque combattono ogni giorno una battaglia di resistenza contro i fondamentalisti e i politici corrotti – battaglia che era già in atto durante la precedente repubblica – saprebbero che le leader citate nel discorso come paladine della libertà e dei diritti delle donne afghane e rappresentanti delle loro battaglie, sono invece considerate traditrici dei loro interessi.

E non erano sentite rappresentative neanche quando stavano in Afghanistan, proprio perché essendo leader nel governo repubblicano, retto da personaggi ex signori della guerra, corrotti e incapaci, godevano dei benefici, personali e famigliari, che derivavano dalle loro posizioni di potere. Per questo sono state contestate nel corso della loro carica politica da gruppi di cittadini e di attivisti che le hanno accusate di corruzione  o collusione con partiti fondamentalisti.

Nemmeno la loro disponibilità a partecipare ai colloqui di Doha del 2020 finalizzati a riportare al potere i talebani viene considerato un merito: non solo sono state semplicemente usate come bandiera di democrazia e uguaglianza senza che avessero nessun peso politico reale, erano semplice tappezzeria. Ma anche recentemente, in occasione della 3° Conferenza di Doha, sono state contestate perché favorevoli a un accordo con i talebani, un accordo che, con un riconoscimento ufficiale o di fatto, le riporti al potere in un impossibile governo inclusivo.

Perciò, che peccato, Meryl Streep… Non ti sei resa conto che, mentre ti spendevi in quello splendido esclusivo palco che è l’Onu con l’intenzione meritevole e sicuramente sentita di dare slancio alla difesa dei diritti delle donne afghane così ignominiosamente calpestati, stavi in realtà appoggiando la politica dei potenti stati che, mettendo in secondo piano i principi democratici e i diritti delle donne, preferiscono rassegnarsi al regime talebano fondamentalista, accettandolo come realtà di fatto, pur di normalizzare al più presto la politica e l’economia internazionale, e intanto si lavano la coscienza di fronte al mondo invitando alle loro parate internazionali donne importanti e famose che possano intercettare la sensibilità e l’attenzione dell’opinione pubblica mentre la politica vera opera altrove.

CISDA