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Autore: CisdaETS

Gli Stati Uniti revocano la taglia su Sirajuddin Haqqani: un segnale per l’Afghanistan?

gaeta.it, 28 marzo 2025, di Donatella Ercolano

La revoca della taglia di 10 milioni di dollari su Sirajuddin Haqqani da parte degli Stati Uniti segna un cambio strategico nelle relazioni con i talebani, puntando a possibili negoziati e stabilizzazione in Afghanistan.

La recente decisione degli Stati Uniti di revocare la taglia di 10 milioni di dollari sul ministro degli Interni afghano, Sirajuddin Haqqani, riaccende l’attenzione sulla complessa situazione politica in Afghanistan. Questa mossa segna un cambiamento significativo nelle relazioni tra Washington e Kabul, evidenziando una strategia pragmatica che tiene conto dei cambiamenti in corso nel paese, dal ritorno dei talebani al potere nell’estate del 2021.

La revoca della taglia e il pragmatismo americano
A pochi mesi dalla sua rielezione nel 2024, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sta adottando un approccio pragmatico nella sua politica estera, cercando di calcolare attentamente i costi e i benefici delle sue decisioni. La scelta di annullare la taglia su Haqqani, personaggio di spicco all’interno del governo talebano, potrebbe rivelarsi una mossa strategica per facilitare eventuali negoziati o aperture con i talebani. Nonostante questa decisione sembri rivelare una volontà di dialogo da parte degli Stati Uniti, i dettagli ufficiali di tali negoziati rimangono incerti. Ciò che è certo è che la somma non è più menzionata nel sito dell’FBI, evidenziando una chiara volontà di Washington di cambiare le carte in tavola.

Infatti, Haqqani è noto non solo per il suo attuale ruolo di potere, ma anche per il passato alla guida della rete terroristica che porta il suo nome. Questa rete ha compiuto numerosi attacchi contro le truppe americane, rendendo la decisione statunitense di rimuovere la taglia ancor più controversa. La domanda che molti si pongono è se questa manovra possa realmente portare a un miglioramento delle relazioni o se, invece, si tratta solo di un tentativo di ottenere vantaggi immediati sul terreno.

Il viaggio dell’inviato americano e le prime aperture
Questa decisione è stata accompagnata da un’importante visita di Adam Boehler, funzionario americano responsabile per gli ostaggi, che ha recentemente visitato Kabul per trattare la liberazione di un cittadino statunitense detenuto dai talebani dal 2022. Questo incontro rappresenta il primo viaggio di un rappresentante statunitense in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe avvenuto nell’agosto del 2021. È possibile che le condizioni per la liberazione dell’ostaggio includessero anche la richiesta di una riduzione della pressione internazionale nei confronti del governo talebano.

È interessante notare che, già a gennaio di quest’anno, l’amministrazione Biden aveva facilitato uno scambio di prigionieri, dimostrando una certa propensione a discutere con i talebani. Le recenti mosse di Trump potrebbero quindi inserire un segmento in questi sviluppi, favorendo il dialogo in un contesto complesso come quello afghano.

Il quadro politico interno e le dinamiche tra i talebani
Guardando alla situazione interna dell’Afghanistan, Sirajuddin Haqqani si sta sempre più posizionando come una figura di mediazione all’interno dei talebani, contrapposta a quelle più intransigenti del leader Hibatullah Akhundzada. La revoca della taglia potrebbe quindi essere interpretata come una strategia americana per alimentare le divisioni all’interno del movimento fondamentalista, che non è così monolitico come potrebbe apparire. Questo approccio potrebbe servire da leva per ottenere concessioni sul piano delle trattative, come evitare che il paese diventi una piattaforma per attacchi contro gli Stati Uniti.

Ad ogni modo, le preoccupazioni per la sicurezza degli Stati Uniti rimangono una priorità. Trump sembra intenzionato a mantenere questa attenzione, accentuando la necessità di risultati tangibili come la liberazione di ostaggi e la gestione delle minacce provenienti dall’Afghanistan.

Le opportunità nel settore minerario afghano
Un ulteriore aspetto da considerare è la questione delle vaste risorse minerarie dell’Afghanistan, che rappresentano un potenziale interesse economico per gli Stati Uniti. Recentemente, il ministero afghano delle Miniere ha riportato notevoli investimenti da parte di paesi vicini come Uzbekistan, Cina e Iran, per un valore complessivo di otto miliardi di dollari. Con i talebani al potere, queste nazioni stanno accedendo a contratti che, per ora, sembrano esclusi agli Stati Uniti.

Trump potrebbe essere interessato a rientrare in questo mercato, cercando di ottenere una quota nei lucrative settori estrattivi. La situazione attuale sembra interrogativa sul reale coinvolgimento degli Stati Uniti in Afghanistan, ma la rivisitazione della strategia potrebbe preludere a un’assunzione di responsabilità che abbia come obiettivo la stabilizzazione del paese e la garanzia di interessi americani.

La revoca della taglia su Haqqani rappresenta quindi un cambiamento significativo, non solo diplomatico ma anche sul piano geopolitico. Il tempo dirà se questa mossa porterà a reali cambiamenti nelle dinamiche di potere in Afghanistan e nelle relazioni con gli Stati Uniti.

Afghanistan: 2,2 milioni di ragazze senza istruzione scolastica

Unicef, 24 marzo 2025

Dichiarazione della Direttrice generale dell’UNICEF, Catherine Russell, nel terzo anniversario del divieto di istruzione secondaria per le ragazze in Afghanistan.

«Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ricorrono tre anni dall’inizio del divieto di istruzione secondaria per le ragazze. Questa decisione continua a danneggiare il futuro di milioni di ragazze afghane. Se il divieto persisterà fino al 2030, oltre quattro milioni di ragazze saranno private del diritto all’istruzione oltre la scuola primaria. Le conseguenze per queste ragazze – e per l’Afghanistan – sono catastrofiche.

Il divieto ha un impatto negativo sul sistema sanitario, sull’economia e sul futuro della nazione. Con un minor numero di ragazze che ricevono un’istruzione, le ragazze affrontano un rischio più elevato di matrimonio precoce, con ripercussioni negative sul loro benessere e sulla loro salute. Inoltre, il Paese subirà una carenza di operatori sanitari qualificati. Questo metterà in pericolo delle vite.

Con un numero inferiore di medici e ostetriche, le ragazze e le donne non riceveranno le cure mediche e il sostegno di cui hanno bisogno. Si stima che ci saranno 1600 morti materne in più e oltre 3500 morti infantili. Questi non sono solo numeri, ma vite perse e famiglie distrutte.

Per oltre tre anni, i diritti delle ragazze in Afghanistan sono stati violati. Tutte le ragazze devono poter tornare a scuola subito. Se a queste ragazze capaci e brillanti continuerà a essere negata l’istruzione, le ripercussioni dureranno per generazioni. L’Afghanistan non può lasciare indietro metà della sua
popolazione.

All’UNICEF, il nostro impegno nei confronti dei bambini afghani – ragazze e ragazzi – rimane incrollabile. Nonostante il divieto, abbiamo garantito l’accesso all’istruzione a 445 000 bambini attraverso l’apprendimento comunitario, il 64% dei quali sono bambine. Stiamo anche potenziando le insegnanti donne per garantire che le ragazze abbiano modelli di ruolo positivi.

Continueremo a sostenere il diritto di ogni ragazza afghana a ricevere un’istruzione, ed esortiamo le autorità de facto a revocare immediatamente questo divieto. L’istruzione non è solo un diritto fondamentale; è la via per una società più sana, stabile e prospera.»

Una lotta per mantenere viva la speranza: come resistono le donne afghane?

Zahra Nader, Zan Times, 7 marzo 2025

L’11 febbraio ho partecipato a un evento di poesia organizzato da un gruppo di donne in Afghanistan. Sono stata invitata al loro incontro su Google Meet da un’organizzatrice che mi ha anche aggiunta al suo gruppo WhatsApp. L’incontro di poesia era programmato per iniziare alle 21:00 ora locale.

“A causa dell’interruzione di corrente e della lenta connessione a Internet, inizieremo alle 22:00. Sappiamo che la maggior parte di voi non ha elettricità”, ha scritto un organizzatrice sul gruppo WhatsApp, avvisando del ritardo le 368 partecipanti, tutte donne, la maggior parte delle quali vive in Afghanistan.

Alle 22:00 in Afghanistan, mi sono unita all’incontro online. Quella sera, c’erano circa 13 partecipanti, tra cui due organizzatrici, Hijrat e Tahera. Sebbene non si fossero mai incontrate di persona, avevano gestito il loro club del libro online su WhatsApp per tre anni.

Nuovi modi per resistere

Hijrat, che vive nel nord dell’Afghanistan, ha creato il club del libro WhatsApp per promuovere una cultura della lettura tra le giovani durante la pandemia di COVID-19. “È stato un modo per tenerle motivate ​​quando tutti i centri educativi erano in lockdown”, ha detto Hijrat, 23 anni, ex insegnante universitaria, in un’intervista telefonica. Ha pubblicato l’idea di formare un club del libro online sulla sua pagina Facebook e presto si sono iscritte 100 partecipanti, tra cui Tahera, l’altra organizzatrice di quella serata di poesia a febbraio. Dopo che i talebani hanno preso il potere e hanno gettato le donne in un ulteriore isolamento proibendo loro il diritto al lavoro e all’istruzione, le donne hanno deciso di concentrarsi sul mantenere viva la speranza tra le sue partecipanti, che ora sono 370.

Spostarsi online è un modo per le donne in Afghanistan di evitare scontri sempre più pericolosi con i talebani. È anche un modo per organizzarsi, incoraggiarsi a vicenda e resistere agli editti draconiani del regime. La maggior parte delle attiviste ha spostato le proprie organizzazioni online, comprese molte delle donne manifestanti con cui ho parlato negli ultimi 19 mesi. Tuttavia, anche Internet non è completamente sicuro. Alcune sono state costrette a chiudere i propri account sui social media dopo aver notato che la loro presenza online era sorvegliata o che i loro account erano stati hackerati .

Eppure, hanno trovato nuovi modi per resistere. Un mese dopo che i talebani hanno preso il potere, due sorelle si sono rivolte a Internet per far sentire la propria voce: hanno scritto e interpretato ballate di speranza e disperazione che sono diventate virali sui social media. Hanno persino indossato il burqa per mantenere anonima la propria identità. “Questa è la nostra lotta segreta”, mi ha detto una delle sorelle . “Anche da sotto il burqa, abbiamo il coraggio e il potere di far sentire la nostra voce”, ha detto l’altra sorella.

Finora, Hijrat e Tahera sono riuscite a mantenere la loro comunità online al sicuro. Nel loro gruppo WhatsApp, gestiscono un club del libro settimanale. I suggerimenti su quale libro leggere provengono da chiunque nel gruppo. Quindi, le organizzatrici selezionano una rosa di quattro titoli. Le partecipanti  decidono la selezione finale votando in un sondaggio online. La scorsa settimana, è stato selezionato “Three Daughters of Eve” di Elif Shafak, ottenendo 46 voti su 66.

Sebbene il gruppo WhatsApp sia solitamente chiuso alla chat, tranne che per le amministratrici, ogni giovedì viene attivata la funzione di chat per consentire a tutte di condividere i propri pensieri e le proprie critiche sul libro della settimana. Il gruppo è anche il luogo in cui condividono le loro parole scritte, esprimono i loro sentimenti riguardo alle opinioni altrui e, naturalmente, le loro poesie, oltre alla serata mensile di poesia.

Condividere una risata per resistere

“La nostra serata di poesia online è uno spazio in cui si incontrano donne provenienti da diverse parti dell’Afghanistan. Recitiamo poesie e condividiamo una risata per superare questa oscurità”, spiega Hijrat.

Quel sabato di febbraio, prima dell’inizio della serata di poesia, c’è stato un momento di confronto generale per verificare le condizioni di tutte le partecipanti. Una cosa era chiara: tutte erano felici di poter superare le interruzioni di corrente e le connessioni internet lente per partecipare all’incontro.

A turno, hanno recitato le loro poesie preferite, comprese alcune opere originali delle componenti del gruppo. Tra i brani in programma c’erano anche quelli di Simin Behbahani, la più famosa poetessa iraniana, e di Mehdi Akhavan-Salis. I temi delle loro opere hanno avuto un forte impatto sulle loro vite: esperienze di ingiustizia, appelli alla resistenza e desiderio di reagire.

Una partecipante, che non ha indicato la propria provincia, ha letto una poesia appena scritta da sua zia:

“Nella città della rabbia e dello spargimento di sangue, la vita continua! Non ce ne andiamo perché la nostra vita è qui! Anche se le chiudiamo la porta in faccia, essa è ancora dall’altra parte della porta!”.

“Non ti ho mai visto, ma amo la tua voce”, ha detto una delle partecipanti dopo che la lettrice ha terminato il suo turno. Oltre che per la poesia, erano lì per sostenersi a vicenda. Il messaggio che si sono scambiate dopo ogni citazione sembra essere il filo conduttore che le ha sostenute.

“Considerata la situazione, questa è l’unica cosa che possiamo fare ora. Siamo un gruppo di donne accomunate dalla passione per la letteratura e la poesia, quindi ci riuniamo e leggiamo”, ha detto Tahera, l’organizzatrice che vive a Kabul. “Questo è il nostro modo per evitare la disperazione”.

Alberto Cairo: “Il mio Afghanistan dimenticato”

Anna Spena, Vita, 19 marzo 2025

Il fisioterapista Alberto Cairo vive nel Paese dal 1990. Ha ridato braccia e gambe a 240mila mutilati. È stato il protagonista di uno degli incontri organizzato durante la fiera “Fa’ la cosa giusta!”. «È un Paese che mi ha fatto innamorare», racconta. «Mettere una protesi non è la parte più difficile del lavoro, reinventare la vita di qualcuno lo è. Ma ora ha la percezione che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan»

Si è appena conclusa la ventunesima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili quest’anno organizzata nella nuova sede di Fiera Milano Rho, a ingresso libero per tutti. Tre giorni di dialoghi, confronti e approfondimenti per far crescere la fiducia – il filo rosso di questa edizione – e costruire un mondo più giusto e una società più coesa per tutti. 52.200 visitatori, 400 relatori, 400 relatori, 300 incontri e workshop per adulti e bambini.

Tra gli incontri, moderato dalla giornalista Laura Silvia Battaglia, anche quello con il fisioterapista Alberto Cairo, 73 anni. Dal 1990 vive stabilmente in Afghanistan. Per oltre 30 anni ha guidato i centri per la riabilitazione della Croce Rossa internazionale, assistendo oltre 200mila persone con disabilità vittime della guerra. Ha contribuito a sviluppare e migliorare i servizi di riabilitazione del Paese, e a offrire percorsi di studio, lavoro e sport per molti riabilitati.

Oggi abita in un quartiere popolare di Kabul, è ancora consulente per i programmi di reinserimento sociale della Croce Rossa e continua ad assistere i pazienti anche a domicilio. È stato testimone della guerra civile del 1992, della presa del potere da parte dei talebani, dell’invasione americana del 2001 fino alla ritirata del 2021 e del ritorno al governo dei talebani. È presidente della ong Nove, Caring Humans (presente in fiera), che dal 2013 opera in Afghanistan con diversi progetti, soprattutto per le donne e per le persone con disabilità.

“Un paese che mi ha fatto innamorare”

La scelta di vivere a Kabul «è una storia lunga», racconta. «Io sono laureato in legge e per un periodo della mia vita ho fatto l’avvocato, ma non ero contento. All’inizio la fisioterapia era un hobby, poi è diventata il mio mestiere. Volevo fare un’esperienza in Africa, solo una per capire se potevo essere utile con il mio lavoro. Sono stato due anni e mezzo a Juba, nel Sud Sudan. Mi sono innamorato del lavoro del fisioterapista in posti non facili, dove potevi fare la differenza. Una volta tornato ho contattato la Croce Rossa per iniziare a lavorare con loro, ero stato riassegnato all’Africa. Due settimane prima della partenza mi chiamano per dire “Non vai in Africa, ma in Afghanistan”. Sono partito nel 1990 e non sono più tornato».

Un Paese «che mi ha fatto innamorare. Io in Afghanistan ricevo molto di più di quello che do. Se facciamo un bilancio vinco io, non gli afghani purtroppo», dice. «Anche se ho visto e vedo ancora oggi cose bruttissime». Il lavoro di Cairo è passato attraverso tante fasi. «Quando sono arrivato nel 1990 facevo riabilitazione ai feriti di guerra, persone che avevano perso braccia e gambe. Ma io i feriti di guerra non li avevo mai visti prima. Mettere le protesi in Afghanistan non è difficile, la maggior parte delle persone che perde un arto è giovane, ha tutta la vita davanti. La strada del recupero è l’unica possibilità».

Quindi per Cairo la cura non è stata la parte più complicata: «le persone tornavano, ci dicevano “grazie per la protesi, grazie per quello che avete fatto. Ma adesso che ne sarà di me?” Insomma ci chiedevano un reinserimento sociale e inclusione. Devo ripeterlo: curare non è la parte più difficile, reinventare la vita di qualcuno lo è. Mettere insieme i pezzi di anima di cuore che si sono rotti con le mine antiuomo lo è. Ridare alle persone un ruolo dignitoso in società è molto più complesso perché bisogna tener conto delle aspirazioni di quella persona, della comunità in cui vive. Ci sono mille cose che devono essere messe insieme». E quindi «la scuola, i corsi di formazione, i micro prestiti, trovare un lavoro. Per dimostrare che questa cosa era possibile abbiamo cominciato a dare lavoro e a formare solo persone con disabilità.

Nei sette centri in cui lavoravo sono impiegate 850 persone, 800 hanno una disabilità. Medici, infermieri, addetti alle pulizie, guardiani. Questa cosa aiuta molto perché è un segno. Fa capire che la vita non finisce con la disabilità. L’Afghanistan poi è una barriera architettonica naturale: se non cammini, se non sei forte, la vita diventa particolarmente difficile».

 

Essenziale trasmettere positività

In questi anni per Cairo non sono mancati i momenti di scoraggiamento: «Però ho imparato», racconta, «anche quando vedi i pazienti che continuano ad arrivare e tu non sai da che parte cominciare, a pensare “questa persona adesso non ha le gambe, ma tra un mese o due camminerà di nuovo“. Pensare in maniera positiva e trasmettere questa positività è essenziale».

Nel 2010 l’incontro con dei ragazzi che gli hanno fatto una richiesta: «che all’inizio mi sembrava fuori posto», dice. «Mi chiesero “Perché non fate qualcosa per il nostro tempo libero?”. Ecco l’Afghanistan è un Paese difficilissimo, dove manca tutto. Pensare al tempo libero mi sembrava un lusso. I ragazzi chiedevano soprattutto di partecipare ad attività sportive. Organizzammo qualche partita di calcio, ma nel calcio bisogna saper correre e molti di quei ragazzi vivevano su una sedia a rotelle. Allora qualcuno suggerì la palla a canestro. Non ero ancora convinto ma poi ho capito che lo sport è un diritto, e dopo un lungo momento di cecità sono stati gli afghani stessi a risvegliarmi e mi sono deciso ad ascoltare quello che loro dicevano, quello che loro chiedevano. Vi assicuro che anche nel settore umanitario, molto spesso, pensiamo che le nostre opinioni, le nostre idee, siano quelle giuste, e invece no. Io a volte ci definisco “colonialisti umanitari”. Comunque, per fortuna, mi sono lasciato convincere e abbiamo iniziato con la pallacanestro in carrozzina. Ho visto in quei giovani una trasformazione fisica e psicologica incredibile».

Quando i talebani hanno ripreso il controllo del Governo i fondi della cooperazione destinati al Paese sono diminuiti. «La gente pensa che i fondi vadano ai talebani, ma invece no. Vanno alle organizzazioni. Ma da qui, dal Paese, la percezione è che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan. Questa è una fase molto triste. Ci sono così tante guerre. Ucraina, Sudan, Gaza…Chiudete gli occhi, mettete un dito sopra la carta geografica e trovate una guerra. Credo ci sia anche una stanchezza proprio dei donatori».

30° anniversario della Dichiarazione di Pechino, lo storico raduno di donne che ha innervosito il governo cinese

Isabel Choat, The Guardian, 3 marzo 2025

Nel 1995, 30.000 donne provenienti da tutto il mondo si sono riunite nei pressi di Pechino, creando un momento fondamentale per il movimento a favore dei diritti delle donne. Alcune di coloro che erano presenti riflettono su ciò che è stato raggiunto da allora

Nel settembre del 1995, decine di migliaia di donne provenienti da tutto il mondo si riunirono in una sonnolenta cittadina a circa 60 km a nord di Pechino. Il piano originale prevedeva di incontrarsi nella capitale, ma le autorità cinesi, innervosite da un numero così elevato di donne, avevano insistito perché rimanessero a distanza di sicurezza dalla città nell’insediamento di Huairou, in gran parte ancora in costruzione.

La sfiducia del governo era profonda: gli alberghi furono dotati di coperte extra nel caso in cui le donne avessero deciso di inscenare una protesta improvvisa e nuda, gli spostamenti tra Pechino e Huairou furono sottoposti a stretto controllo e le piogge fuori stagione furono attribuite a una concentrazione di donne mestruate.

Ma né il tempo né i dispetti hanno potuto smorzare gli animi in quello che si è rivelato un evento straordinario: il Forum delle ONG sulle donne.

Organizzato parallelamente alla Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle Donne, tenutasi presso il Centro Congressi Internazionale di Pechino, il Forum ha accolto 30.000 leader femministi, sostenitrici dei diritti, attiviste indigene, rappresentanti di ONG e accademiche provenienti da 180 Paesi.

Si è trattato del più grande raduno internazionale di donne mai visto al mondo e di un momento fondamentale per il movimento per i diritti delle donne. “Pechino è stato il culmine di anni di lavoro. Come ha affermato la scrittrice femminista Bell Hooks: «Abbiamo cercato di passare dall’essere ai margini al centro, ed è stato così emozionante». Così dice Charlotte Bunch, direttrice del Center for Women’s Global Leadership della Rutgers University negli Stati Uniti.

Le partecipanti hanno camminato nel fango nella città ancora in costruzione e partecipato a eventi di networking e di strategia nelle tende; si sono inzuppate mentre viaggiavano in autobus turistici scoperti per raggiungere la conferenza ufficiale delle Nazioni Unite a Pechino. Ma tutto ciò ha accresciuto il senso di cameratismo.

Nel corso dei 11 giorni di lavori sono stati discussi e dibattuti temi quali l’affermazione dei diritti delle donne come diritti umani, la violenza contro le donne, i diritti riproduttivi e il benessere delle bambine. Il risultato è stata la storica Dichiarazione e Piattaforma d’azione di Pechino, un documento che copre 12 aree critiche e che, a 30 anni di distanza, rimane il progetto storico per l’uguaglianza di genere.

“È stato incredibile: donne di ogni età, colore della pelle, disabilità e razza che lottavano per l’uguaglianza e lo facevano in modo molto organizzato e coordinato. Avevamo una strategia di advocacy e tutta questa energia che ci dava la sensazione di essere potenti – e siamo davvero riuscite a influenzare l’agenda”, racconta Ana Cristina González, che all’epoca aveva 27 anni, si era appena specializzata in salute riproduttiva ed era parte della delegazione latinoamericana.

“Mi ha fatto sentire che quello che sognavo era possibile. Quell’incontro ha segnato tutta la mia carriera e il mio impegno femminista”, aggiunge.

Una trasformazione personale e politica

La sensazione che Pechino abbia rappresentato una trasformazione, sia personale che politica, è stata ribadita da innumerevoli donne, molte delle quali sono diventate leader del movimento femminile. “L’atmosfera era incredibile. Non mi ero mai seduta con qualcuno proveniente dal Tibet o dal Medio Oriente: c’era eccitazione e la sensazione che avremmo potuto ottenere molto”, racconta Lydia Alpízar Durán, co-direttrice esecutiva di IM-Defensoras, una rete latinoamericana di difensori dei diritti delle donne. “A Pechino abbiamo fatto molto. Al di là dell’accordo governativo, abbiamo dato vita a un movimento globale di donne. Pechino ha catalizzato molti processi”.

Non è stato affatto facile. Mesi di preparazione sono stati dedicati alle strategie nazionali e regionali per garantire che l’agenda riflettesse le richieste della base; i dibattiti sono stati accesi e lunghi. Il testo della dichiarazione è stato analizzato parola per parola fino a raggiungere un accordo. Le autorità cinesi non tolleravano le proteste pubbliche, ma quando le donne pensavano di essere ignorate trovavano il modo di mostrare la loro disapprovazione: a un certo punto la delegazione latinoamericana ha bloccato le scale mobili del centro congressi.

La femminista indiana Gita Sen, fondatrice di Developing Alternatives with Women for a New Era (Dawn), racconta: “Uno dei momenti più importanti è stato quando è arrivato l’allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn.

Wolfensohn era considerato più liberale dei presidenti che lo avevano preceduto, sua moglie era considerata una femminista. Credo che pensasse di ricevere le congratulazioni, ma è stato colto di sorpresa: tutte gli urlavano: “Sai cosa hai fatto alle nostre vite? Tu e il FMI ci state distruggendo”. Penso che sia rimasto davvero scioccato, ma è tornato sui suoi passi e ha cercato di ammorbidire alcune delle politiche della banca”.

Quando, nel 1995, Hillary Clinton, moglie dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, pronunciò il suo discorso a Pechino dichiarando che “i diritti delle donne sono diritti umani, una volta per tutte”, il mondo ascoltò, ma il merito va alle migliaia di donne che negli anni precedenti avevano lavorato instancabilmente nei loro Paesi e alle principali conferenze delle Nazioni Unite, tra cui Vienna nel 1993 e Il Cairo nel 1994.

“Fino al 1980, gli eventi delle donne erano marginali e non erano considerati al centro di nulla di ciò che le Nazioni Unite facevano. E oggi siamo nella fase di contraccolpo verso tutto quello che stavamo portando avanti”, afferma Bunch.

Bunch era una delle donne che idearono la campagna di 16 giorni di attivismo [contro la violenza di genere] nel 1991. Tra loro c’era anche Everjoice Win, una zimbabwese che lavorava per i diritti delle donne dal 1989. Entrambe le donne andarono a Pechino.

“Ho spesso descritto i primi anni ’90 come l’epoca d’oro dell’organizzazione transnazionale: c’erano questi spazi – Messico, Cairo, Vienna e Pechino – e alcune di noi hanno partecipato a tutte e quattro le conferenze ONU. Ma non si trattava solo di partecipare, bensì di avere un programma collettivo per influenzare il progresso dei diritti delle donne.  Tutte avevamo uno scopo e degli obiettivi”, racconta Win.

Il piano in 12 punti ha galvanizzato governi e società civile e, nel 2015, ha dato vita agli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite. “I governi hanno aderito all’agenda di Pechino come le anatre all’acqua, con delle limitazioni. Il mainstreaming di genere è diventato l’approccio preferito dai governi”, aggiunge Win, che nel 2002 è diventata la prima responsabile dei diritti delle donne di Action Aid.

“Abbiamo messo i diritti delle donne al centro dell’agenda di Action Aid, utilizzando alcuni degli strumenti che avevamo ottenuto durante il processo di Pechino. Una volta compreso il concetto di mainstreaming di genere, siamo riuscite a influenzare la leadership dell’organizzazione, assicurandoci che le donne ricoprissero ruoli di responsabilità”.

Il bilancio sull’uguaglianza di genere

La prossima settimana a New York, la Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile (CSW) celebrerà il 30° anniversario della dichiarazione di Pechino.

Lunedì, il Segretario generale dell’ONU, António Guterres, aprirà l’incontro con un discorso sullo stato globale della parità di genere. La dichiarazione si baserà su un rapporto sui progressi compiuti, aggiornato con le informazioni fornite da 159 governi, e riconoscerà i miglioramenti. Oggi, 122,4 milioni di ragazze sono fuori dalla scuola, un dato in calo rispetto ai 124,7 milioni del 2015. La mortalità materna è diminuita da 339 a 223 decessi ogni 100.000 nati vivi tra il 2000 e il 2020. Dal 1995, la percentuale di donne nei parlamenti è più che raddoppiata, passando dall’11% al 27%. I Paesi hanno anche continuato a eliminare le leggi discriminatorie nei confronti delle donne.

Questi bilanci sull’uguaglianza di genere vengono redatti ogni cinque anni, ma quest’anno il senso di urgenza è maggiore, perché, nonostante i miglioramenti in alcune aree, le “crisi a cascata”, tra cui il disastro climatico, gli shock economici, l’aumento dei conflitti e il declino della democrazia, fanno sì che la visione della Piattaforma d’azione – e degli SDG 2030 – rimanga un sogno irraggiungibile.

In questo contesto instabile, si registra un aumento del sentimento e dell’azione contro le donne, alimentato da governi autoritari e dai social media. “Il crescente malcontento è stato rafforzato dallo svuotamento dei meccanismi politici, delle istituzioni e dei processi che la Piattaforma d’azione di Pechino aveva incaricato di promuovere per l’uguaglianza di genere”, si legge nel rapporto.

Il fatto che il Centro per la famiglia e i diritti umani (C-Fam), di destra e antiabortista, tenga la propria conferenza di due giorni in parallelo alla CSW, in una sede di fronte al quartier generale delle Nazioni Unite, è la prova di un movimento antidiritti più strategico, meglio finanziato e più intelligente. Come molte organizzazioni antifemministe, utilizza il linguaggio dello sviluppo femminile per affermare di “dare potere alle donne”, ma allo stesso tempo accoglie con favore la chiusura di USAid da parte del Presidente Donald Trump, che avrà conseguenze devastanti per donne e ragazze.

“A mio avviso, stiamo vivendo una trasformazione epocale”, afferma l’accademica brasiliana Sonia Corrêa, co-presidente di Sexuality Policy Watch. “Non ci sono soluzioni facili. Lo stato del mondo è un problema molto difficile, le condizioni sono determinate dalle forze neofasciste al potere in quello che è ancora uno degli imperi del mondo”.

Potrebbe significare che quest’anno non ci sarà alcun accordo intergovernativo al CSW se gli USA lo bloccano, crede Corrêa. “Non ho bisogno di spiegare quanto profondamente l’estrema destra odi l’ONU”.

“È un momento preoccupante”, concorda Win. “La domanda è: gli altri imiteranno il tiranno arancione – mi rifiuto di usare il suo nome – facendo quello che fa lui o [lo] contrasteranno?”

Ma se il panorama politico contemporaneo è molto diverso dall’“epoca d’oro” degli anni Novanta, caratterizzata dalla fiducia nella democrazia, nel multilateralismo e nelle istituzioni, le lezioni apprese da Pechino sono ancora rilevanti, affermano le donne che erano presenti.

“Non possiamo dimenticare che siamo state noi a respingere un mondo diseguale, un mondo che abbiamo respinto e trasformato. Abbiamo passato anni a spiegare e mostrare al mondo che c’erano disuguaglianze e che volevamo migliorare. Stiamo lottando per le democrazie, quindi non possiamo chiederci solo cosa fare in risposta a una determinata situazione, ma cosa fare in generale”, afferma González, che ora dirige Causa Justa, il gruppo che ha guidato la campagna per la depenalizzazione dell’aborto in Colombia, una battaglia vinta nel 2022.

E’ confortante, dicono, allontanarsi dal caos e avere una visione più a lungo termine. Bunch dice: “Sono cresciuta negli anni ’50 e ho partecipato all’esplosione degli anni ’60; sì, ora il potere di Trump fa paura, ma ci sono alti e bassi e noi siamo in un periodo negativo. Le persone che combattevano il maccartismo avevano fiducia che ci sarebbe stato un momento diverso. Non intendo affatto smorzare l’energia dell’indignazione, ma nel periodo di crisi bisogna prepararsi ad andare avanti per quanto possibile. Viviamo in questo momento e dobbiamo impegnarci al massimo”.

O, come dice Win: “I cambiamenti arriveranno. Ma ricordiamo a noi stessi che il cambiamento non può essere preparato al microonde: il cambiamento deve essere cotto o arrostito, e il microonde non lo farà”.

Immaginare un Afghanistan senza Talebani è possibile

Zan Times, 8 marzo 2025

Il popolo afghano non è condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Accettare che la mullahcrazia talebana sia un destino inevitabile significa negarne al popolo  l’umanità, la capacità e il diritto a determinare il proprio destino

Quest’anno ricorre la quarta Giornata internazionale della donna in cui i talebani hanno imprigionato donne e ragazze afghane all’interno delle loro case. Da quando i talebani sono emersi come gruppo armato islamico nel 1994, sono diventati famosi per le loro politiche anti-donne.

Durante il loro primo periodo al potere, dal 1996 al 2001, hanno vietato l’istruzione e il lavoro delle donne e hanno sguinzagliato per le strade la loro zelante polizia religiosa, colpendo le donne con cavi se non erano accompagnate da un mahram o se non aderivano al codice di abbigliamento regressivo imposto dai talebani: le donne erano costrette a indossare burqa avvolgenti e scarpe che non facevano rumore.

Una progressione scioccante

Dal loro ritorno al potere nel 2021, i Talebani hanno perseguito senza sosta le stesse politiche misogine volte a rendere le donne invisibili, facendole sparire dalla vita pubblica e imprigionandole nelle loro case. Nella prima settimana di ritorno al potere, hanno imposto il divieto di lavoro per le donne nel settore pubblico. Nel primo mese, hanno imposto il divieto di istruzione per le ragazze oltre la sesta classe. Dopo quattro mesi, hanno imposto alle donne di viaggiare esclusivamente in compagnia di un mahram o di un accompagnatore maschio. Ogni giorno i Talebani introducono un nuovo decreto, un nuovo divieto o un’altra nuova restrizione nei confronti delle donne.

Proprio quando pensavamo di aver visto tutto, nell’agosto 2024 i Talebani hanno introdotto un altro decreto scioccante: il divieto di far sentire la voce delle donne in pubblico. Hanno dichiarato che la voce delle donne è aurat, qualcosa da nascondere. Questo decreto criminalizza di fatto il diritto delle donne di parlare in pubblico o di parlare con estranei.

I Talebani sono ancora insoddisfatti. Ritengono che la sharia non sia ancora stata pienamente applicata nel Paese. Il loro leader, il Mullah Hibatullah, giura regolarmente di creare le condizioni per un sistema islamico puro e di far applicare la sharia in modo completo. Il sistema talebano della sharia è caratterizzato da punizioni corporali, esecuzioni pubbliche e fustigazioni. Nonostante abbiamo già assistito a diverse esecuzioni pubbliche e a migliaia di fustigazioni, i Talebani hanno promesso al mondo che una brutalità ancora maggiore è in arrivo: Hibatullah ha giurato che le donne saranno presto lapidate pubblicamente.

Il nucleo centrale della leadership talebana insiste nel voler stabilire la propria società ideale, delineata nella Legge sul vizio e la virtù, che non solo vieta la voce delle donne ma anche le immagini e i video. È evidente che i Talebani stanno incontrando difficoltà nell’attuare pienamente le loro politiche, dato che non riescono nemmeno a metterle in atto all’interno dei loro ranghi e delle loro strutture.

Esiste un’ala moderata?

Il mullah Hibatullah si oppone regolarmente alla richiesta di scattargli foto, non permette a nessuno di farlo, perché la Legge sul vizio e la virtù vieta di rappresentare gli esseri viventi. Eppure diversi ministri posano regolarmente per foto e video da utilizzare a scopi di propaganda online. Queste contraddizioni hanno alimentato la speculazione sull’esistenza di un’“ala moderata” all’interno dei Talebani, che rappresenterebbe una “migliore speranza di cambiamento”.

All’interno e all’esterno dell’Afghanistan circolano da sempre voci secondo cui, se questi elementi “moderati” all’interno dei Talebani riuscissero a prendere il comando, a modificare le proprie politiche e a formare un “governo inclusivo”, il loro emirato diventerebbe accettabile.

Questa convinzione deriva dal presupposto che il popolo afghano sia condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Non riesce a immaginare uno scenario alternativo in cui la popolazione possa vivere in pace e in condizioni normali. Accettare che la mullahcrazia talebana sia il destino inevitabile del popolo afghano significa negarne l’umanità, la capacità e il diritto di determinare il proprio destino. Questa mancanza di speranza porta a un torpore intellettuale e a una sconfitta politica che prolungherà l’oppressione talebana.

Dobbiamo quindi valutare la capacità di resistenza del nostro popolo e apprezzare e rafforzare i modi dinamici e creativi che hanno usato per sfidare i Talebani e mantenere viva la speranza. Dobbiamo anche capire che, a prescindere dalle loro piccole differenze interne, i Talebani sono un movimento e un’ideologia uniti dal desiderio di instaurare una tirannia teocratica. Questa tirannia è progettata per negare alle donne la loro umanità, discriminare le minoranze etniche e fare guerra al popolo, alla scienza e all’istruzione moderna.

Il governo talebano si basa essenzialmente sull’esclusione della popolazione. La loro dottrina prevede una società in cui solo il leader supremo detta le politiche pubbliche e sociali, mentre la popolazione rimane in silenzio e sottomessa. Tale impostazione è dunque in contrasto con gli interessi fondamentali della popolazione del Paese.

Nel celebrare la Giornata internazionale della donna di quest’anno dobbiamo riconoscere che i valori progressisti e democratici sono sotto attacco in tutto il mondo. Misoginia, transfobia, razzismo e fascismo sono in aumento. È importante ricordare a noi stessi che se non saremo vigili sui nostri diritti e sul nostro diritto di governarci da soli, ci saranno sempre forze pronte a toglierceli.

Pertanto, se il popolo afghano, in particolare le donne, vuole riaffermare la propria umanità, deve lavorare e pianificare per prendere in mano il proprio destino collettivo e costruire un Afghanistan pacifico e democratico al di là dei Talebani. Solo costruendo una società democratica e laica, il popolo afghano potrà ottenere pace, diritti umani e libertà.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità

Siria ultimo sangue

Enrico Campofreda dal Blog 12 marzo 2025

Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

dinamopress.it carla-gagliardini 14 marzo 2025

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan.

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita.

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale.

PROBLEMI E AMBIGUITÀ CHE RESTANO

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale.

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato?

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome.

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

Nella foto Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOAIsis

 

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il nuovo podcast che racconta la lotta delle donne afghane

pressenza.com 14 marzo 2025

“Vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore”

14 Marzo 2025 – Large Movements lancia su Spotify “Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il podcast che vuole riaccendere i riflettori su un paese in guerra per decenni, poi magicamente dimenticato dalla tragica data del 15 agosto 2021.

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan” è un viaggio tra le vicende storiche e il dramma umano che il conflitto afghano porta con sè. Attraverso 6 puntate, in uscita ogni sabato dall’8 marzo al 12 aprile, racconta la storia dell’avvento dei Talebani, dalle origini del gruppo, risalenti a più di 40 anni fa, fino alla situazione attuale in cui è costretta a vivere la popolazione, quella rimasta in Afghanistan e coloro che sono riusciti a essere evacuati.

“Con questo podcast vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore per il loro Paese. Vogliamo raccontare la storia delle donne afghane e delle numerose violazioni dei diritti umani che subiscono” dichiara Rainer Maria Baratti, Vicepresidente di Large Movements.

Il secondo episodio, intitolato “Strade interrotte verso l’equità di genere”, uscirà il 15 marzo e si concentrerà sulla condizione delle donne afghane dopo la presa di potere dei Talebani il 15 agosto 2021. Attraverso testimonianze dirette, il podcast mette in luce la repressione e le difficoltà quotidiane delle donne nel Paese, esplorando anche il ruolo delle organizzazioni internazionali impegnate a sostenere i loro diritti.

Nei successivi episodi, il podcast andrà ad esplorare anche il ruolo della comunità internazionale nella gestione delle varie fasi diplomatiche attraversate dal Paese nonché le motivazioni e gli interessi geopolitici che contribuiscono tuttora a rendere la situazione in Afghanistan di difficile soluzione.

Il podcast, scritto da Martina Bossi, Laura Sacher, Sara Massimi e Rainer Maria Baratti, con il contributo di Mattia Ignazzi, è frutto di un attento lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze. Alla produzione hanno collaborato Nove Caring Humans, mentre la registrazione e la post-produzione sono a cura di William Frezzotti.

L’obiettivo del progetto è offrire un racconto approfondito e umano di un Paese segnato dalla guerra, dando voce a chi vive ogni giorno le sue conseguenze. La serie si compone di sei episodi, in uscita ogni sabato fino al 12 aprile 2025.

Dove ascoltarlo: https://open.spotify.com/show/7slKxrlnBgLIx1zgYcvOfe?si=a217e89b6ce244ce

Sostieni il progetto: Un Paese in guerra è una produzione indipendente. È possibile supportare il lavoro di Large Movements APS partecipando al crowdfunding su www.largemovements.it/sostienici.

Large Movements APS è un’associazione che vuole decostruire le fake news sulla migrazione e promuovere la partecipazione di migranti e rifugiati nei dibattiti politici e nei progetti che li coinvolgono direttamente. Tutto questo tramite la divulgazione, la sensibilizzazione e la progettazione. L’obiettivo principale dell’associazione è informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per promuovere, influenzare e/o modificare le politiche pubbliche stimolando la partecipazione attiva sia della società che delle comunità di migranti, rifugiati e della diaspora.