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Autore: CisdaETS

Lettera di Kongra-Star a Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siriakongra Star


Kongra-Star, 11 dicembre 2024

La Siria si trova in una fase critica e i recenti sviluppi richiedono una risposta internazionale efficace per evitare il caos e raggiungere una transizione politica completa e sostenibile. In questo contesto, sottolineiamo la necessità di lavorare in conformità con la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce il quadro giuridico delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica che ponga fine alle sofferenze del popolo siriano e rispetti i diritti di tutti i suoi componenti. Riteniamo che un elemento essenziale per costruire una Siria democratica e stabile sia garantire la partecipazione delle donne siriane in tutte le fasi di un processo politico basato sulla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle donne, la pace e la sicurezza.

La Siria oggi affronta una serie di sfide serie, a partire dall’escalation militare in corso, in particolare con i ripetuti attacchi da parte della Turchia sulla Siria settentrionale, come possiamo osservare a Manbij. Questi attacchi non solo minano la sicurezza, ma provocano anche sfollamento di migliaia di persone e rafforzano l’attività delle cellule dormienti dell’ISIS, che rappresentano una minaccia a livello locale, regionale e internazionale.

Le persone che vivono in condizioni drammatiche nei campi profughi a nord di Aleppo (Shehba) dal 2018 a seguito dell’occupazione turca di Afrin, sono state sfollate con la forza per la seconda volta. Questi sfollati, soprattutto donne e bambini, vivono in condizioni umanitarie catastrofiche, poiché ancora non sono arrivati aiuti internazionali e l’Amministrazione Autonoma Democratica nord-est della Siria deve affrontare questa sfida da sola. Gli sforzi profusi dall’Amministrazione Autonoma e da iniziative comunitarie per far fronte all’aggravarsi della crisi non sono sufficienti e si rende indispensabile un rapido intervento internazionale.

Questa crisi è particolarmente dura per le donne e i bambini, che subiscono maggiormente il peso degli attacchi e della violenza. In quanto organismo internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali avete la responsabilità di adottare misure decisive e immediate per contenere la situazione ed evitare un ulteriore deterioramento.

Vi chiediamo pertanto di:

  1. Esercitare pressioni immediate sulla Turchia per fermare gli attacchi e l’escalation.

Chiediamo alle Nazioni Unite di agire urgentemente per esercitare pressioni sulla Turchia e sui gruppi armati che sostiene affinché cessino i ripetuti attacchi militari nella Siria settentrionale, per garantire la protezione della popolazione civile e preservare la sicurezza regionale. Questi attacchi non solo minacciano la stabilità della Siria, ma contribuiscono anche all’aggravarsi della crisi umanitaria e allo sfollamento di migliaia di civili. Chiediamo anche l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Shehba che permettano agli aiuti umanitari di raggiungere le persone colpite e fornire protezione ai civili intrappolati nelle aree colpite.

  1. Mantenere la sicurezza regionale e impedire il ritorno dei gruppi terroristici.

Chiediamo un’azione internazionale decisiva per prevenire la ricomparsa di gruppi terroristici come l’ISIS nelle aree di escalation. Questi gruppi stanno usando l’attuale caos per espandere le loro operazioni e rappresentano una grave minaccia alla sicurezza regionale e internazionale.

  1. Avviare la soluzione politica in conformità con la risoluzione 2254.

Garantire l’accelerazione dei negoziati politici sotto la supervisione delle Nazioni Unite e fornire meccanismi chiari per gestire la transizione in modo equo e sostenibile. Concentrarsi sulla protezione dell’unità e della sovranità della Siria e garantire i diritti di tutte le componenti etniche, religiose e culturali del paese, nonché i diritti delle donne.

  1. Garantire l’inclusione delle donne nella nuova costituzione siriana in linea con la risoluzione 1325.

Garantire la partecipazione delle donne a tutte le fasi dei negoziati e della transizione politica per assicurare il loro ruolo attivo nella costruzione della pace e della giustizia sociale. Rafforzare le misure per proteggere le donne dalla violenza e dallo sfruttamento e sostenere le donne nei ruoli di leadership nella fase successiva.

  1. Affrontare il problema degli sfollati forzati e proteggere gli sfollati.

Fornire un sostegno urgente agli sfollati di Afrin e di altre aree e garantire il loro ritorno sicuro alle loro zone di origine. Fornire protezione internazionale per porre fine alle violazioni e garantire la sicurezza nel nord della Siria.

  1. Aumentare gli aiuti umanitari.

Fornire assistenza umanitaria urgente alle aree che ospitano persone sfollate, in particolare nel nord-est della Siria, per alleviare la pressione sulle infrastrutture e soddisfare i bisogni di base. Sviluppare un piano delle Nazioni Unite per fornire assistenza a lungo termine che contribuisca alla ricostruzione e alla stabilizzazione.

Il popolo siriano ha sofferto per anni sotto il flagello della guerra e del conflitto, e la pace e la stabilità possono essere raggiunte solo attraverso una soluzione politica giusta e democratica che metta l’interesse del popolo al di sopra di tutto e garantisca che tutte le componenti, soprattutto le donne, siano coinvolte nella definizione del futuro del paese.

Cordiali saluti

Kongra Star

9 dicembre 2024

Scarica la lettera in inglese

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

Afghanistan deferito alla Corte Penale Internazionale

La Corte penale internazionale (CPI) ha ricevuto un deferimento formale da sei Stati parte (Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico) che sollecitano l’avvio di indagini sui crimini contro donne e ragazze in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, ha annunciato giovedì il procuratore della CPI Karim AA Khan KC

Siyar Sirat,  AMU Tv, 29 novembre 2024

Nel loro deferimento, le nazioni hanno espresso profonda preoccupazione per il deterioramento delle condizioni dei diritti umani in Afghanistan, in particolare per quanto riguarda donne e ragazze, e hanno chiesto che questi presunti crimini fossero esaminati nell’ambito dell’indagine in corso della CPI sulla situazione nel paese.

“Ciò riflette l’impegno più ampio del mio ufficio nel perseguire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di genere, incluso il crimine contro l’umanità della persecuzione per motivi di genere”, ha affermato Khan in una dichiarazione.

L’indagine della CPI sull’Afghanistan è stata autorizzata per la prima volta a marzo 2020, dopo anni di esame preliminare sui presunti crimini commessi nella regione dal 1° maggio 2003. L’indagine si è ampliata per includere accuse di discriminazione sistematica e persecuzione di donne e ragazze, crimini legati al conflitto armato e reati commessi sul territorio di altri stati membri della CPI.

L’indagine ha subito dei ritardi a seguito delle sfide del precedente governo afghano, ma è stata ripresa nell’ottobre 2022. Khan ha sottolineato che da allora l’ufficio del procuratore ha compiuto “progressi molto considerevoli” nelle indagini sui crimini di genere e ha espresso fiducia che risultati tangibili saranno annunciati presto.

Sebbene i dettagli specifici dell’indagine rimangano riservati, Khan ha elogiato il deferimento come un’importante dimostrazione di determinazione internazionale nell’affrontare le atrocità in Afghanistan. Ha inoltre sottolineato la necessità di cooperazione e risorse da parte degli stati membri della CPI per garantire la responsabilità.

“Plaudo al coraggio e alla determinazione di tutti coloro che ci hanno sostenuto e continuano a collaborare con noi nella conduzione di questa indagine”, ha affermato Khan.

L’attenzione della CPI sulla persecuzione di genere è in linea con la sua più ampia missione di affrontare i crimini ai sensi dello Statuto di Roma, che consente agli Stati membri di deferire casi in cui sembrano essere stati commessi crimini di competenza della CPI, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione è stata rilasciata in vista della riunione dell’Assemblea degli Stati parte della CPI della prossima settimana, durante la quale gli Stati membri dovrebbero discutere delle indagini in corso e delle risorse necessarie per gli sforzi di accertamento delle responsabilità.

La desolante realtà degli afghani che tornano in patria: la condizione delle donne non li interessa

Arrivano dall’estero per la prima volta dal ritorno dei talebani al potere. Il Washington Post ha raccolto testimonianze: sono colpiti dalla sicurezza o dai nuovi centri commerciali, c’è disinteresse per i diritti negati. Luca Lo Presti (Pangea) a Huffpost: “Fuori da Kabul non si incontra mai una donna per strada, ma ai maschi non importa. I talebani vogliono accreditarsi all’estero, mostrando il volto di un governo libertario, che consente di vivere meglio di prima”

Silvia Renda, HUFFPOST, 29 novembre 2024

Per le strade di Kabul non si trova una carta per terra. I muri anti-esplosione sono stati smantellati, rivelando la presenza di alberi di melograno, ora maturi. Le bancarelle dei mercati offrono una ricca scelta di prodotti ortofrutticoli. Nuovi centri commerciali ospitano negozi di moda dal gusto occidentale. È un volto diverso, inatteso ed entusiasmante della città, per chi l’aveva conosciuta prima del ritorno dei talebani. Sono afghani di nascita con passaporto oggi straniero, che in numero crescente stanno ritornando in visita nel paese e raccontano sorpresi il cambiamento della città. Quello che non notano, o che ad alcuni non interessa notare, è che le strade sono tenute così pulite sfruttando il lavoro dei carcerati o contando sulla paura di un popolo timoroso di punizioni severe. Che se percepiscono maggiore sicurezza, è sicuramente anche perché il pericolo prima era in gran parte costituito dagli attacchi dei talebani stessi, oggi al potere. Che le bancarelle saranno anche piene di prodotti, ma povere di acquirenti, perché non possono permettersi quel cibo. Che nei centri commerciali vedere una donna passeggiare è veramente raro.

Il Washington Post ha raccolto le testimonianze di afghani con passaporti e visti stranieri rientrati nel paese per fare visita ai parenti, per la prima volta da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere. Nei loro racconti non c’è preoccupazione per le terribili restrizioni imposte alle donne, alle quali nel paese non è più concesso alcun diritto. Si meravigliano piuttosto del senso di sicurezza percepito per le strade, della possibilità di fare acquisti al nuovo duty-free dell’aeroporto o nei centri commerciali oggi ricchi di prodotti. Anche se la maggior parte dei residenti fatica a guadagnarsi da vivere, chiunque se lo possa permettere può scegliere tra una serie di ristoranti alla moda, molti così vuoti che ogni ospite ha un cameriere personale. Sono visitatori che spesso trascorrono così tanto tempo a casa dei parenti da non notare, o disinteressati a notare, la quasi totale assenza delle donne per le strade. Alcuni parenti in visita, scrive il Washington Post, vengono ingannati da quella che sembra un’applicazione poco severa delle regole, ignorando la strategia dei talebani: far rispettare le norme solo a intermittenza e confidare nella paura per ottenerne il rispetto.

“A Kabul si respira un’aria di sicurezza maggiore rispetto all’agosto 2021 semplicemente perché la guerra che era combattuta dai talebani non c’è più”, commenta ad HuffPost Luca Lo Presti, presidente di Pangea, associazione che si occupa dei diritti delle donne afghane, “L’economia della città sta ripartendo e questo ha fatto nascere centri commerciali con beni di lusso, strade più ordinate. C’è una percezione di ordine, pace e sicurezza sicuramente superiore rispetto a quella che si percepiva durante la presenza dei militari occidentali”. Allo stesso tempo, spiega Lo Presti, si è creata una forbice sociale ampissima: in questa economia, chi aveva i soldi si ritrova a essere ricchissimo, e chi non ne aveva si ritrova poverissimo: “La microeconomia non esiste più, non esistono le fasce medie della società. Gli impiegati statali hanno stipendi bassissimi che permettono a malapena di sopravvivere”.
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Comunicato di Rete Jin Milano sulla situazione in Siria

MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde e AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente

Rete Jin Milano, 5 dicembre 2024

Ci risiamo. Il giorno dopo che Israele ha piegato gli hezbollah libanesi si riaccende la questione siriana. Ricordate? Era l’agosto del 2014 quando l’Isis aveva attaccato Shengal, muovendosi poi dentro il Rojava, cercando di distruggere e umiliare l’esperimento del Confederalismo democratico invadendo il Nord-Est della Siria e attaccando la resistenza kurda e, soprattutto, le combattenti kurde: mutilate, violentate e vendute, una volta catturate, come schiave. Il prezzo pagato fu alto ma, allora, i terroristi dell’Isis furono sconfitti e le combattenti curde acclamate dalla stampa internazionale per averci salvato dall’orrore jihadista.

Il 2 dicembre 2024 dall’enclave jihadista di Idlib sono usciti, armati sino ai denti, i tagliagola che, in questi tempi di alleanze variabili, hanno conquistato la dignità di “ribelli”, e non perché abbiamo cambiato programma ma perché adesso chi li sostiene è palesemente la Turchia, con il beneplacito di USA e Israele. Hanno attaccato la città martire di Aleppo, preso TalRifaat e Hama. Dai media arrivano notizie di rapimenti di combattenti delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), caricate sui camion brutalmente e portate chissà dove, colpevoli di essere soggettività oppresse che hanno osato invece autodeterminarsi con la lotta.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che non ha mai smesso di vessare la zona autonoma dei kurdi, adesso, sconfitti gli hezbollah in Libano – ormai impossibilitati a dare sostegno alla Siria – prova a liquidare i kurdi per interposta persona dando il via libera ai gruppi jihadisti. Gli obiettivi che Erdogan vorrebbe raggiungere sono ambiziosi: impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord; tenere, quantomeno, sotto controllo i kurdi e, perché no, liberarsi dei milioni di profughi siriani spingendoli verso le terre del Rojava.

Tutto ciò con piena soddisfazione di Benjamin Netanyahu che ha bisogno di smantellare la Siria per attaccare l’Iran, il colpo grosso da offrire in dono a Trump, una volta insediatosi come presidente, che chiuderà i suoi occhi e quelli del resto dei cosiddetti Paesi democratici sulla strage dei palestinesi.

Ci verrà detto, per addomesticare il nostro disgusto, che tutto ciò viene fatto per costruire la pace. Ma nessuna pace si costruisce sulle case distrutte, i corpi straziati e la prepotenza del più forte. Solo un progetto che prevede la costruzione di una società laica, democratica ed ugualitaria, dove cooperano tra loro etnie, confessioni, cultura e identità diverse, che rispetti la terra e che metta al centro del cambiamento la rivoluzione delle donne può portare pace in quell’area i cui confini sono stati tracciati, quasi ottant’anni fa, dall’Occidente colonialista solo per fomentare l’instabilità dell’area, sfruttarla e controllarla.

 

Diciamo BASTA MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde E AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente.

MOBILITIAMOCI per i territori autonomi del Nord-Est della Siria, affinchè delle valorose combattenti non debbano sacrificarsi a causa della nostra indifferenza.

Rete Jin Milano, 05 dicembre 2024

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

La giustizia della CPI deve rispondere alle richieste di tutte le vittime

 La Corte penale internazionale (CPI) deve dare priorità e accelerare l’erogazione della giustizia alle vittime dei crimini commessi dai talebani, nonché da altri attori in Afghanistan, prima della presa del potere nel 2021, ha affermato oggi Amnesty International, durante la conferenza annuale dell’Assemblea degli Stati parti della CPI, che quest’anno si tiene a New York dal 4 al 14 dicembre. 

Amnesty International, amnesty.org, 6 dicembre 2023

L’organizzazione chiede ulteriori progressi significativi nell’indagine della CPI in Afghanistan, attesa da tempo, che deve essere resa pubblica e trasparente per consentire la partecipazione significativa delle parti interessate locali, tra cui vittime e sopravvissuti. In particolare, la CPI deve far luce sui suoi progressi e, ove possibile, sui parametri generali dei casi sotto inchiesta.

“Una cultura di impunità per i crimini di diritto internazionale commessi in Afghanistan è stata prevalente per quasi mezzo secolo di conflitto. Mentre la decisione della CPI di riprendere le indagini lo scorso anno ha fornito una vera speranza a migliaia di vittime di crimini di diritto internazionale di ottenere l’accesso atteso da tempo alla giustizia, alla verità e alle riparazioni, l’ufficio del procuratore della CPI deve essere coerente nel dare seguito al suo impegno fornendo progressi nelle sue indagini”, ha affermato Smriti Singh, direttore regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

“Il paese rimane in crisi e la CPI è un’istituzione fondamentale nella ricerca della giustizia per tutte le vittime in Afghanistan. Per molte vittime la CPI rappresenta l’unica via concreta esistente per la giustizia e la fine dell’impunità.”

All’Assemblea degli Stati Parte, Amnesty International chiede inoltre agli Stati membri dello Statuto di Roma di garantire che la CPI disponga delle risorse necessarie per svolgere indagini efficaci sui crimini di diritto internazionale, tra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità come la persecuzione di genere. Tra questi rientrano quelli commessi contro donne e ragazze , sciiti-hazara o altre minoranze religiose , e quelli commessi nel contesto delle guerre in Afghanistan prima e dopo la presa del potere da parte dei talebani nel 2021. In modo cruciale, date le notevoli sfide nelle indagini in Afghanistan, gli Stati membri devono impegnarsi a rafforzare la loro cooperazione con le indagini della CPI sull’Afghanistan.

Inoltre, la CPI deve essere dotata di risorse finanziarie e tecniche adeguate per consentire alle vittime afghane di esercitare in modo significativo ed efficace i propri diritti presso la Corte.

Mentre la CPI è fondamentale per garantire la responsabilità in Afghanistan, sforzi complementari come la raccolta e la conservazione delle prove per futuri processi di responsabilità e procedimenti penali a livello nazionale in Afghanistan sono essenziali. Gli Stati che sono parte dello Statuto di Roma in particolare dovrebbero supportare tali sforzi complementari, anche esercitando la giurisdizione universale e supportando l’istituzione di un meccanismo di responsabilità internazionale indipendente, come presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

In precedenza, la decisione del Procuratore nel 2021 di deprioritizzare le indagini sui crimini presumibilmente commessi dall’esercito degli Stati Uniti e dalla CIA, nonché dalle ex Forze di sicurezza nazionali afghane (ANSF), aveva incontrato forti critiche. Questa decisione del Procuratore rischia di contribuire alla percezione di un sistema selettivo di giustizia internazionale, in cui gli interessi degli stati potenti hanno la priorità sugli interessi della giustizia per le vittime di crimini ai sensi del diritto internazionale.

“Amnesty International continua a chiedere di riconsiderare la decisione del Procuratore del 2021 di de-prioritizzare le indagini sui presunti crimini di guerra da parte degli Stati Uniti e delle ex forze nazionali afghane. Rimane una macchia sul volto della giustizia internazionale. Nessuna giustificazione per la “de-prioritizzazione” è accettabile. Nessuna vittima merita meno giustizia di altre”, ha affermato Smriti Singh.

“La popolazione afghana merita la fine dell’impunità e un percorso verso la giustizia, la verità e la riparazione”.

Contesto

L’Afghanistan è stato sottoposto a un esame preliminare pubblico da parte della CPI dal 2007 al 2017.

Nel 2023, Amnesty International ha documentato le restrizioni discriminatorie dei talebani sui diritti delle donne e delle ragazze sin dalla presa del potere nel 2021 che, sommate all’uso sistematico di violenza e abusi da parte dei talebani, possono costituire il crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Inoltre, ha documentato i crimini di guerra dei talebani e altre violazioni del diritto internazionale umanitario nel contesto del conflitto armato con il National Resistance Front nella provincia del Panjshir, incluso il crimine di guerra della punizione collettiva contro i residenti del Panjshir. Nel corso di molti anni, l’organizzazione ha anche documentato diversi casi di crimini di diritto internazionale commessi dalle  Forze nazionali afghane, dall’esercito degli Stati Uniti   e   dai talebani.

Proteste delle donne contro il divieto di istruzione medica

Giovedì un gruppo di donne e ragazze ha organizzato una protesta davanti all’ufficio del governatore talebano nella provincia occidentale di Herat, denunciando il recente divieto di partecipazione delle donne all’istruzione medica

Amu TV, M. Rahman Awrang Stanikzai, 5 dicembre 2024

Scandendo slogan come “l’istruzione è giustizia e apprendimento”, i dimostranti hanno descritto la direttiva come oppressiva e un duro colpo ai loro diritti fondamentali.

La decisione dei talebani di impedire alle donne di studiare presso istituti medici, compresi i corsi di ostetricia, ha suscitato ampie condanne da parte di organizzazioni internazionali, gruppi per i diritti umani ed ex funzionari afghani.

La Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha rilasciato una dichiarazione in cui ha avvertito che il divieto avrebbe avuto un “impatto negativo” sul sistema sanitario del paese e sullo sviluppo più ampio. Stephane Dujarric, portavoce delle Nazioni Unite, ha espresso grave preoccupazione, osservando che la direttiva si aggiunge alla litania di restrizioni imposte a donne e ragazze dal ritorno al potere dei talebani.

“Se implementata, la direttiva segnalata imporrebbe ulteriori restrizioni ai diritti delle donne e delle ragazze all’istruzione e all’accesso all’assistenza sanitaria”, ha affermato il signor Dujarric in una conferenza stampa mercoledì.

Il Comitato svedese per l’Afghanistan ha definito il divieto una “devastante battuta d’arresto” per l’accesso delle donne all’assistenza sanitaria essenziale, evidenziandone il potenziale di esacerbare il già terribile tasso di mortalità materna dell’Afghanistan. Secondo le stime delle Nazioni Unite, il tasso di mortalità materna del paese è tra i più alti al mondo, con oltre 600 decessi ogni 100.000 nati vivi, quasi tre volte la media globale.

Il ministro degli esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha condannato la politica, descrivendola come una mossa che “cancella letteralmente il futuro dell’Afghanistan”. In una dichiarazione, ha paragonato le condizioni delle donne afghane sotto i talebani alla vita in una “prigione”, criticando il regime per aver negato l’assistenza sanitaria e l’istruzione di base. “La sospensione dell’educazione sanitaria delle donne da parte dei talebani non solo nega i diritti fondamentali, ma condanna innumerevoli vite”, ha affermato.

Anche ex funzionari afghani hanno espresso indignazione. Rahmatullah Nabil, ex direttore dell’intelligence nazionale, si è unito ad altri, tra cui le star del cricket Rashid Khan e Mohammad Nabi, nel condannare il decreto. Masoom Stanekzai, che ha guidato i negoziati di pace del precedente governo con i talebani, ha definito la direttiva un sintomo di governo autocratico, avvertendo che tali decisioni potrebbero portare alla rovina dell’Afghanistan.

“Il destino della nazione ora dipende dalle decisioni arbitrarie di un individuo e di un piccolo gruppo”, ha detto il signor Stanekzai. “Ogni azione sconsiderata porta il paese più vicino alla distruzione”.

Gli attivisti per i diritti umani hanno descritto il divieto come una chiara violazione delle libertà fondamentali. Raheel Talash, un’attivista, ha lamentato la perdita di opportunità per le giovani donne che aspiravano a carriere in medicina.

“Anche le ragazze la cui unica speranza era l’istruzione medica ora si sono viste portare via questa speranza”, ha affermato.

Da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021, i talebani hanno imposto ampie restrizioni alle donne, tra cui divieti di istruzione superiore, di gran parte delle forme di impiego e di partecipazione pubblica. Gli attivisti affermano che l’ultima mossa è il culmine di una campagna per sopprimere completamente i diritti delle donne e delle ragazze afghane.

L’ultimo divieto imposto dai talebani alle donne minaccia vite umane

Il Comitato svedese per l’Afghanistan (SCA) ha lanciato l’allarme: il divieto imposto dai talebani alle donne di proseguire gli studi in medicina minaccia la salute e la sopravvivenza di innumerevoli donne e bambini

Kabul Now, 5 dicembre 2024

Nella sua ultima restrizione sui diritti delle donne, i talebani hanno impedito alle studentesse di frequentare istituti medici in Afghanistan. Il divieto è stato annunciato da un funzionario del Ministero della Salute Pubblica del regime durante un incontro con i responsabili degli istituti medici a Kabul, lunedì 2 dicembre.

In una dichiarazione rilasciata mercoledì 4 dicembre, il Comitato svedese ha affermato che la decisione è profondamente preoccupante, date le norme culturali afghane che limitano il trattamento delle donne da parte dei medici uomini.

“Se non si formano più donne professioniste della salute, la già critica carenza di dottoresse, infermiere e ostetriche peggiorerà, minacciando la salute e la sopravvivenza di innumerevoli donne e bambini”, ha affermato la SCA, aggiungendo che il divieto porterà a morti prevenibili e a un’inversione di tendenza rispetto ai successi ottenuti a fatica nella salute pubblica.

L’organizzazione ha esortato i talebani a revocare immediatamente il divieto e a investire in un’istruzione di qualità per le professioniste sanitarie. Ha inoltre invitato la comunità internazionale a trovare modi per supportare le donne afghane e il loro ruolo cruciale nell’assistenza sanitaria.

L’ultima restrizione dei talebani sui diritti delle donne ha scatenato reazioni e condanne diffuse, anche da parte dell’ONU, dell’UE, di gruppi per i diritti, personaggi politici e attivisti sia all’interno che all’esterno del paese. Tutti hanno chiesto la revoca del divieto.

Durante una conferenza stampa di mercoledì, il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric ha espresso preoccupazione per la decisione, aggiungendo che se implementata, avrebbe un “impatto negativo” sul sistema sanitario afghano e un effetto negativo sulla vita degli afghani. Ha esortato i talebani a riconsiderare il divieto.

In un post su X di oggi, Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, ha definito la decisione “inspiegabile e ingiustificabile”, notando che viola ulteriormente i diritti delle donne e avrà un impatto devastante sull’intera popolazione. Ha affermato che il divieto deve essere revocato.

Allo stesso modo, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha avvertito che se la nuova direttiva venisse implementata, avrebbe un “impatto negativo” sul sistema sanitario afghano e sullo sviluppo generale del paese. UNAMA ha affermato che, sebbene non abbia ancora ricevuto la conferma formale del divieto, continuerà a verificare il rapporto attraverso i canali ufficiali.

Nord-Est della Siria sotto attacco il futuro del Rojava è a rischio

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia, 3 dicembre 2024

Dal 26 novembre 2024 la Siria del Nord-Est è teatro di una nuova crisi umanitaria, che vede intensi scontri tra i gruppi jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), sostenuti dalla Turchia di Erdogan, e il governo di Assad. La regione, già fragile a causa della decennale guerra civile siriana, sta affrontando un’escalation che ha provocato fino a ora la morte di oltre 500 persone, di cui circa 100 civili. Migliaia di famiglie, composte da donne, bambini e anziani, sono state costrette a fuggire dalle proprie case, trovandosi senza rifugio e obbligate a fronteggiare il gelo invernale. Le conseguenze di questa offensiva sono devastanti, e colpiscono soprattutto le comunità più vulnerabili che ora vivono in uno stato di emergenza senza precedenti. Nella serata di lunedì 2 dicembre, HTS e le fazioni alleate hanno annunciato di avere preso il controllo di sette città nella regione di Hama, tra cui il villaggio di Qasr Abu Samra. Accerchiata anche la regione di Shahba, dove l’assalto delle fazioni dell’SNA sta costringendo migliaia di rifugiatx curdx e di altre etnie a esodare. Scontri infine a Deir ez-Zor, dove si teme possano risvegliarsi cellule dormienti dell’ISIS.

In questo scenario di violenza crescente, le Forze Democratiche Siriane (SDF), sotto l’amministrazione della DAANES (Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est), sono in prima linea nel tentativo di difendere le popolazioni curde nei quartieri di Sheikh Maqsoud e Ashrafiye ad Aleppo, che ospitano circa 150.000 persone e si trovano attualmente sotto assedio, anche a fronte dell’impossibilità di approvvigionamento a causa del controllo delle fazioni HTS e NSA sulle zone circostanti. Queste aree, che hanno cercato di mantenere una propria autonomia dal governo di Damasco e dalle forze jihadiste, sono ora minacciate dall’avanzata dei gruppi armati e dalla crescente interferenza della Turchia. L’intervento diretto di quest’ultima, e il suo sostegno al sedicente Esercito Nazionale Siriano (SNA) e a Hayat Tahrir al-Sham, sta avendo un chiaro impatto nella destabilizzazione della regione. L’intensificazione delle operazioni militari nelle aree di Shehba e Tel Rifaat sta colpendo moltissimi rifugiati curdi, la maggior parte dei quali fu precedentemente costretta a fuggire da Afrin a seguito dell’Operazione Ramoscello d’Ulivo, avviata dalla Turchia nel 2018. Sono infatti circa 200.000 i civili che in queste ore stanno tentando di scappare dai territori sotto attacco; le SDF stanno facilitando l’evacuazione da Tel Rifaat e Shahba verso le città di Manbij, Tabqa e Raqqa, ma le operazioni di salvataggio sono complicate e pericolose, poiché le zone continuano a essere oggetto di attacchi aerei e bombardamenti da parte delle forze turche e dei gruppi alleati jihadisti, nonché scenario di arrestri arbitrari.

A tal proposito, e in occasione del decimo anniversario dalla liberazione di Kobane, è essenziale ricordare la straordinaria lotta delle popolazioni del Kurdistan contro lo Stato Islamico. Le forze curde hanno giocato un ruolo determinante nella sconfitta di ISIS, fermando l’espansione del gruppo terrorista e stabilizzando ampie aree del territorio siriano. La loro resistenza è stata un simbolo di coraggio, non solo nella difesa del proprio popolo, ma nella protezione dei valori universali di libertà, democrazia e dignità, in un contesto segnato dalla brutalità della guerra. Oltre ai curdi, anche la comunità ezida, vittima di atrocità indicibili durante il genocidio perpetrato da Daesh, ha trovato rifugio nelle zone che oggi sono sotto attacco e stanno essendo evacuate.

Negli ultimi giorni, l’assistenza sanitaria fornita dalla Mezzaluna Rossa Curda (Heyva Sor a Kurd) durante le operazioni di sfollamento forzato dai territori colpiti si è dimostrata di vitale importanza. Al valico di Abu Asi, dove migliaia di rifugiati cercano di mettersi in salvo dai bombardamenti, i medici e gli operatori umanitari sono impegnati senza sosta per distribuire farmaci e presidi medici, cercando di alleviare le gravi sofferenze di chi è costretto a fuggire da questa emergenza.  A Tabqa sono inoltre stati allestiti alloggi temporanei per gli sfollati interni.

L’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est ha lanciato un appello urgente alla comunità internazionale, chiedendo di fermare l’escalation in corso, di aprire corridoi umanitari per proteggere i civili e di salvaguardare il modello democratico costruito nel Rojava. Questo modello, che promuove la convivenza pacifica di diverse etnie e religioni ispirandosi a principi ecologisti e femministi, è un simbolo di autodeterminazione e di lotta per i diritti umani in una regione lacerata da conflitti. Tuttavia, è oggi minacciato da un’offensiva militare che non solo mette in pericolo i principi di libertà e democrazia che il popolo curdo ha costruito e difeso, ma anche la sopravvivenza stessa della sua comunità.

Ora più che mai è fondamentale intervenire per difendere le conquiste democratiche del Rojava. Il futuro della Siria, e in particolare delle sue minoranze, dipende dalla solidarietà globale e da una risposta politica e umanitaria che possa garantire la sicurezza e la dignità di tutti i popoli della regione. Vi invitiamo a sostenere questa causa e a sensibilizzare l’opinione pubblica su una situazione che sta mettendo in pericolo la vita di migliaia di persone innocenti.

Coordinate bancarie per donazioni:

MEZZALUNA ROSSA KURDISTAN ITALIA ONLUS

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