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Autore: CisdaETS

Non di solo fondamentalismo vivono i Talebani: tra oppressione, corruzione e un fiume di denaro

La ricchezza del governo deriva da contrabbando e traffico di droga ma anche da tasse e corruzione dei funzionari. Una delle popolazioni più povere al mondo è così vessata due volte, con le donne obbligate persino a pagare per aggirare i divieti. Una cleptocrazia alimentata anche da decenni di pessima gestione delle potenze occidentali. L’analisi del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

È risaputo: il governo talebano si sostiene con gli aiuti che i Paesi occidentali donatori, e gli Stati Uniti in particolate, inviano in Afghanistan.

I rapporti dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) l’hanno mostrato più volte. La gran parte degli aiuti che arrivano nel Paese vengono intercettati dai Talebani in vario modo e trattenuti, con le buone o le cattive, per il sostegno diretto dell’apparato statale e per foraggiare il consenso e la fedeltà dei funzionari che amministrano, mantengono e sostengono il regime ai vari livelli e nelle regioni più remote, senza che le organizzazioni preposte alla distribuzione abbiano la capacità o la volontà di controllo o rifiuto.

 

Un sistema già collaudato

Ma come hanno fatto i Talebani a mettere in piedi in così breve tempo questo modello di governanceIn realtà, l’apparato era già pronto: l’economia afghana era già abituata a mantenersi grazie ai finanziamenti esterni e alla corruzione. Nei vent’anni di dominio statunitense la Repubblica islamica non aveva sviluppato un’economia indipendente e autosufficiente perché la politica Usa era stata quella di usare i “soldi come arma”, inondare cioè l’Afghanistan con un’enorme quantità di denaro per “tenere buoni” i terroristi e le possibili ribellioni senza dover intervenire direttamente con soldati e armi.

Il denaro e i contratti economici statunitensi avevano arricchito e dato potere ai signori della guerra e ai comandanti delle milizie, anche Talebani -secondo alcune stime, a loro andava il 10% dei finanziamenti- per scoraggiare gli attacchi ai convogli della NatoIl denaro statunitense aveva permeato quindi tutti i livelli della politica e della società afghana, perpetuando un ambiente favorevole all’appropriazione indebita, alla frode e al favoritismo. Tutti gli uomini di governo, dal presidente ai piccoli funzionari, ne avevano approfittato per arricchirsi e tutto il sistema si era sostenuto sulla corruzione e le tangenti.

Quando gli Stati Uniti e la coalizione hanno lasciato il Paese, tutti coloro che si erano mantenuti e arricchiti grazie a questo sistema di corruzione sono scappati dall’Afghanistan o si sono nascosti ma nulla è mutato: sono semplicemente cambiati i destinatari, sono stati sostituiti dai Talebani, dai loro miliziani e sostenitori, che si sono infilati ovunque hanno potuto per accaparrarsi le fonti di reddito e di ricchezza.

Quindi le tasse, le tangenti, i balzelli che sistematicamente e in grande quantità vengono richiesti non solo alle ricche Ong e alle istituzioni internazionali che forniscono gli aiuti ma finanche agli strati più poveri della popolazione affamata e alle più povere fra le donne, quelle senza marito e senza lavoro, vanno ad arricchire non tanto le tasche dello Stato quanto quelle personali dei ministri talebani, il loro patrimonio personale e quello dei loro affiliati, così facendo dell’Afghanistan uno Stato cleptocratico in piena regola.

 

Come producono la loro ricchezza

In che modo i Talebani producono la loro ricchezza? Innanzitutto attraverso le tasse, “un sistema fiscale tanto rigoroso ed efficiente da aver ricevuto gli elogi delle agenzie internazionali, che è in realtà un sistema di estorsione che mettono in atto con la loro autorità per consolidare il loro potere, sostenere la macchina repressiva, costruire madrase e moschee, promuovere la talebanizzazione della società, senza fornire alcun servizio alla popolazione. Di fatto di un sistema di estorsione rivolto a una delle popolazioni più disgraziate del Pianeta”, spiega Zan times.

Ma raccolgono le loro entrate anche attraverso la distribuzione di varie licenze e servizi per i quali possono addebitare tariffe ufficiali e tangenti non ufficiali, come per i passaporti e le carte d’identità. Nel 2022 per un passaporto venivano chiesti tra gli 800 e i tremila dollari, così raccogliendo in spese di emissione un totale di circa 50 milioni di dollari. Il prezzo delle carte d’identità è arrivato a cinque dollari, un costo significativo per più della metà dei cittadini afghani che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, e finora i Talebani ne hanno distribuito circa quattro milioni.

Le tasse vengono riscosse anche in modo informale, attraverso visite porta a porta, con incarcerazioni, minacce e atti di violenza in caso di mancato pagamento dei dazi doganali e fiscali e delle sempre nuove tasse richieste al settore privato, esorbitanti anche per gli imprenditori.

E poi ci sono le tangenti che vengono richieste alle donne e ai loro famigliari. Grazie alle leggi che tolgono le libertà alle donne, chi ha in mano il potere può lucrare sulle concessioni rilasciate di volta in volta. Le restrizioni per le donne a viaggiare da sole o all’estero, l’imposizione di indossare l’hijab, il divieto di lavorare sono state trasformate in fonti di guadagno per chi gestisce il potere, per quanto piccolo: molte donne hanno testimoniato che sono riuscite a passare la frontiera o a viaggiare solo grazie alle tangenti o alle multe che hanno dovuto pagare.

Si scopre così che tutte le limitazioni imposte alla popolazione e in particolare alle donne non sono dettate solo dal furore fondamentalista dei religiosi talebani che vogliono diffondere la sharia ma di più dalla ricaduta economica che i funzionari che le applicano possono trarne in termini di tangenti, imposte per qualsiasi servizio indispensabile alla sopravvivenza della popolazione.

Anche l’assoluta subordinazione cui sono costrette le donne e che le costringe a lavorare in condizioni di schiavitù, mentre le rende lo strato più povero della popolazione -gli aiuti umanitari arrivano per ultimi o mai alle donne e ai bambini- permette ai Talebani di arricchirsi sfruttando il loro lavoro.

 

Il potere diffuso di ottenere privilegi

Dove non bastano le tasse arriva la corruzione. Alcuni testimoni hanno raccontato a 8AM Media che la corruzione è aumentata enormemente rispetto al primo emirato. “I funzionari sono coinvolti in iniziative commerciali, nell’acquisto di terreni e case, nella costruzione di serbatoi petroliferi e nella conduzione di scambi commerciali. Inoltre si vedono casi di traffico di droga e la maggior parte dei comandanti locali, una volta insediati, prendono la seconda, la terza e la quarta moglie, organizzano nozze sontuose e comprano auto costose. Gli stessi funzionari ammettono che la corruzione, particolarmente dilagante nelle dogane, è incontrollabile, perché ogni comandante o membro talebano ha affiliazioni con il regime ed è intoccabile”.

Nella struttura di potere talebana, dove le mogli sono considerate uno status symbol, leader, funzionari e combattenti stanno alimentando la pratica di offrire “prezzi per la sposa” superiori a quelli di mercato, sfruttando il desiderio di ingraziarsi i Talebani con un legame di sangue o la paura di ritorsioni in caso di rifiuto.

Anche l’impiego nel governo è un mezzo con cui premiano combattenti e lealisti e allo stesso tempo puniscono chiunque non sia d’accordo con loro, perciò è stato fin da subito oggetto delle loro “attenzioni” per assicurarsene il controllo attraverso diversi assurdi decreti, come la sostituzione delle dipendenti pubbliche del ministero delle Finanze con i membri maschi della famiglia, indipendentemente dalla qualifica, o l’introduzione di un test religioso, arbitrariamente utilizzato per licenziare i lavoratori negli ospedali pubblici e a tutti i livelli del ministero dell’Istruzione.

A maggior ragione, le posizioni di potere sono state affidate ai parenti: le accuse ai leader talebani di aver nominato i propri figli e altri parenti maschi a posizioni governative sono diventate così gravi che il leader supremo Akhundzada ha emesso un decreto nel marzo 2023 che ordinava ai funzionari di smettere.

 

Come mettere al sicuro le ricchezze

Ma se i privilegi dei piccoli funzionari servono ai Talebani per garantirsi la loro indiscussa fedeltà, i leader più potenti hanno fonti di reddito più consistenti e soprattutto si organizzano per mettere al sicuro, all’estero, le ricchezze ottenute, seguendo strade già ben consolidate dal precedente governo, cioè attraverso i viaggi.

Motivi di salute” è la scusa per aggirare le sanzioni internazionali che vietano ai Talebani al governo -tutti accusati di terrorismo internazionale già da molti anni- di viaggiare. Ma in realtà il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e la Turchia sono sempre stati disposti a fornire ai singoli leader talebani un rifugio sicuro per i loro beni o per le loro famiglie, per spostare risorse finanziarie personali all’estero.

Pur facendo bilanci pubblici, il governo è riluttante a spiegare come le risorse economiche vengono usate. Per i contratti governativi, le vendite di proprietà, le licenze e le varie concessioni non esistono una contabilità e criteri per l’assegnazione pubblici, nè meccanismi di responsabilità esterna. Secondo il presidente dell’Afghan peace watch, i familiari stretti di almeno due attuali ministri ad interim talebani hanno uffici privati attraverso i quali i firmatari afghani e stranieri possono ottenere contratti governativi e altri favori per una tariffa extra.

Più che preoccuparsi per il riconoscimento internazionale, i Talebani sembrano interessati ad aumentare il loro accesso al denaro contante, e le entrate doganali sono una fonte importante di valuta, dato che la comunità internazionale ha tagliato l’accesso alle riserve di valuta estera.

Le esportazioni e i dazi doganali legati alle risorse naturali hanno aumentato notevolmente le loro entrate. I leader talebani hanno un’influenza praticamente incontrollata sui diritti, sull’estrazione e sull’esportazione delle ricchezze minerarie dell’Afghanistan. Specialmente il carbone – che si basa sul lavoro dei bambini -, ma un rapporto delle Nazioni Unite ha indicato che contrabbandano anche pietre preziose e metalli semipreziosi verso l’Asia centrale, l’Europa e il Golfo Persico. Allo stesso modo, il disboscamento illegale e le esportazioni di legname sono diventati molto redditizi.

Anche il contrabbando è una fonte di ricchezza. Un’importante via per il commercio illecito, il traffico di droga e altre pratiche corrotte è l’Accordo commerciale di transito tra il Pakistan e l’Afghanistan (Aptta) che vede dirottare nel mercato nero del Pakistan un’immensa quantità di prodotti aggirando tariffe e dazi, secondo alcune stime per miliardi di dollari, senza che vengano imposti controlli: funzionari e agenti di frontiera vengono corrotti o costretti a non intervenire.

Ma i Talebani sono stati identificati anche come direttamente coinvolti nel traffico di armi. Con il loro permesso, i trafficanti di armi hanno fondato bazar nelle regioni di Helmand, Kandahar e Nangarhar, con armi importate da Austria, Cina, Pakistan, Russia e Turchia.

Anche il traffico degli esseri umani a opera delle reti di trafficanti è fonte di guadagni: mentre gli alti leader talebani ne hanno annunciato il divieto, le singole guardie non disdegnano di accettare tangenti pur di guardare dall’altra parte ai posti di frontiera, secondo quanto riferito.

E poi c’è il commercio dell’oppio, da sempre la principale fonte di ricchezza per i Talebani. Il governo ne ha proibito la coltivazione, così i prezzi dell’eroina sono aumentati in modo significativo a tutto vantaggio dei più ricchi che possono trarre profitto dalla pasta di oppio accumulata. I leader hanno vietato la coltivazione dell’oppio perché vogliono imporre la loro autorità, decidere se può essere coltivato o meno e dove farlo, cioè quali sono i trafficanti autorizzati a gestire, coltivare e trattare i narcotici.

 

Il business degli aiuti umanitari

Infine ci sono le organizzazioni umanitarie che operano in Afghanistan: sono spesso costrette a pagare tasse, presumibilmente per garantirsi la sicurezza. I Talebani arrivano a pretendere il 15% degli aiuti delle Nazioni Unite. Ma non basta: si sono inseriti con loro affiliati in molte organizzazioni occupando posizioni strategiche così da manovrare l’assistenza indirizzando i fondi verso loro sostenitori, membri della famiglia, soldati disabili, veterani e madrasse, a volte con la mediazione dei mullah che ricoprono il ruolo di leader comunitari in cambio di una tangente. E chi riesce a ottenere gli aiuti viene tassato anche fino al 66% di quanto ricevuto. Inoltre hanno costituito e registrato Ong proprie, che controllano direttamente e attraverso le quali possono ricevere gli aiuti umanitari dalle organizzazioni internazionali e distribuirli nelle località con maggiori affinità politiche, etniche, regionali e religiose.

Ma quanti soldi sono riusciti a ottenere in questo modo? Se guardiamo ad esempio agli aiuti inviati dagli Stati Uniti, che sono di gran lunga il principale donatore, il Sigar rivela che dall’agosto 2021 i partner attuatori statunitensi hanno pagato al governo talebano in tasse, commissioni, servizi almeno 10,9 milioni di dollari. Ma il Sigar ritiene che, poiché i pagamenti delle agenzie Onu che ricevono fondi statunitensi non sono soggetti a controlli, l’importo effettivo potrebbe essere molto più alto, se consideriamo che dall’ottobre 2021 al settembre 2023 le Nazioni unite hanno ricevuto 1,6 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, su un totale di aiuti statunitensi di 2,9 miliardi di dollari nel triennio. Tutti soldi che mantengono i Talebani al potere perché pagano i privilegi e la corruzione dei loro fedeli funzionari corrotti e dei loro sostenitori per assicurandosi il loro appoggio.

Che cosa accadrebbe se questi aiuti smettessero di arrivare?

 

Buona parte della documentazione a supporto di questo articolo è tratta dal Report del George W. Bush presidential center “Corruption and kleptocracy in Afghanistan under the Taliban”.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Il disastro imminente in Afghanistan

Se il mondo continuerà a ignorare la terribile situazione in Afghanistan, le conseguenze saranno presto irreparabili

Rawa News, 7 ottobre 2024

L’Afghanistan, sotto il controllo dei talebani, è una polveriera pronta a esplodere con conseguenze che si riverseranno in tutta la regione e nel mondo. Le forze motrici di questo imminente disastro sono profondamente radicate nelle manovre ideologiche, strategiche e operative dei talebani, che si sono intensificate dopo l’uscita americana.

Il lavaggio del cervello dei giovani, il monopolio sulla produzione di droga illecita, l’accoglienza e il sostegno di gruppi terroristici globali, la trasformazione della povertà in un’arma e il reclutamento di rifugiati hanno portato l’Afghanistan sull’orlo di un’imminente esplosione, con conseguenze che potrebbero rivelarsi più gravi di quelle dell’11 settembre 2001. Capire cosa stanno facendo i talebani merita ulteriori spiegazioni.

 

Il lavaggio del cervello dei giovani

L’attenzione dei talebani all’educazione dei giovani afghani nelle scuole religiose (madrasa), che servono come centri di addestramento per militanti e attentatori suicidi, rappresenta una minaccia immediata e a lungo termine per la regione e l’Occidente. Attraverso un incessante lavaggio del cervello, queste madrase creano una generazione di bambini e adolescenti immersi nel radicalismo. Alle giovani reclute viene insegnato che il martirio e gli attacchi suicidi non sono solo onorevoli, ma anche necessari.

Ciò che rende questo fenomeno particolarmente preoccupante è la sua portata. Decine di migliaia di giovani menti sono pronte per la violenza e questo esercito di giovani verrà schierato da qualche parte. Le conseguenze per i paesi vicini e l’Occidente, che stanno già lottando contro la radicalizzazione, potrebbero essere catastrofiche. Come ha detto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Roza Otenbayeva, capo della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), “I talebani non consentono alcun monitoraggio di queste scuole e non sappiamo cosa insegnino lì”.

Secondo il Ministero dell’Istruzione dei Talebani, almeno 17.300 madrase sono ufficialmente attive in tutto l’Afghanistan. Nel frattempo, secondo un ordine emesso dai Talebani il 20 giugno 2022, in ogni distretto dell’Afghanistan vengono costruite da tre a 10 scuole jihadiste, con una capienza di 500-1.000 studenti ciascuna. L’Afghanistan ha 408 distretti e la costruzione di tre o 10 nuove scuole jihadiste per distretto potrebbe rapidamente trasformare il paese nel centro del terrorismo globale.

 

Rifugio sicuro per gruppi terroristici

L’Afghanistan, sotto il dominio dei talebani, è di nuovo un rifugio per gruppi terroristici internazionali. La vittoria dei talebani ha incoraggiato e rafforzato i gruppi estremisti, fornendo loro lo spazio per riorganizzarsi, addestrarsi e pianificare. Gruppi come al-Qaeda, il Movimento islamico dell’Uzbekistan e il Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) ora operano liberamente all’interno dell’Afghanistan. I legami dei talebani con questi gruppi terroristici non sono superficiali. Sono radicati in un’ideologia comune, interessi politici a lungo termine e, cosa più importante, molti leader talebani hanno legami familiari di lunga data con i leader di questi gruppi.

Secondo un rapporto di Hasht-e-Subh, i talebani stanno costruendo basi ben equipaggiate con case residenziali per la rete di Al-Qaeda e Tehrik-e Taliban Pakistan nella provincia di Ghazni. Allo stesso modo, i rapporti delle Nazioni Unite, in particolare il rapporto di luglio 2024, sono la prova di questa affermazione. Le Nazioni Unite affermano che l’Afghanistan, sotto il governo dei talebani, è un “rifugio sicuro” per gruppi come Al-Qaeda e ISIS. Questa rete di relazioni garantisce che i talebani continueranno a collaborare con questi gruppi nei loro sforzi collettivi per destabilizzare la regione, espandere l’influenza ed esportare il terrore a livello globale, creando un disastro per la sicurezza con conseguenze globali devastanti.

 

Monopolio della droga

Sebbene i talebani abbiano ufficialmente vietato la coltivazione e il traffico di stupefacenti, hanno monopolizzato l’industria. Limitando l’offerta, i talebani stanno facendo aumentare il prezzo della droga, rendendo il commercio più redditizio per loro stessi e per i loro affiliati. Come osservato nel rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del luglio 2024, è ancora troppo presto per valutare l’impatto completo del divieto di coltivazione del papavero. Tuttavia, alti funzionari talebani si oppongono al divieto. I coltivatori di papavero perdono mentre i talebani guadagnano. Il rapporto afferma: “A causa delle scorte di papavero, il commercio di droga in Afghanistan rimane significativo”.

La mancanza di attenzione del mondo a questo sviluppo rischia di creare un’economia sommersa della droga, rafforzando ulteriormente i talebani e i loro gruppi terroristici alleati, minando la sicurezza e la stabilità in Afghanistan e nella regione. Man mano che l’impero della droga dei talebani si espande, i gruppi terroristici ne trarranno sempre più vantaggio.

 

La trasformazione della povertà in un’arma

Una delle strategie più pericolose utilizzate dai talebani è l’impoverimento deliberato del popolo afghano. Facendo ciò, perseguono due obiettivi.

In primo luogo, gettano una larga parte della popolazione in una povertà estrema ed eliminano le opportunità di istruzione, impiego e sopravvivenza di base. Ciò rende più facile reclutare persone nei loro ranghi e nei gruppi terroristici alleati.

In secondo luogo, il controllo dei talebani sulle risorse locali e il loro monopolio sul commercio illecito forniscono ampi incentivi finanziari a coloro che sono disposti a combattere per loro. In questo modo, la povertà diventa un’arma e alimenta la ribellione e il radicalismo.

 

Reclutamento dei richiedenti asilo deportati

I talebani incoraggiano la deportazione dei rifugiati afghani cooperando segretamente con alcuni paesi, in particolare quelli della regione. Questa è una politica di importanza strategica per il regime.

Molti afghani deportati, che tornano nella terra dove non trovano mezzi di sopravvivenza, vengono facilmente reclutati dai talebani e dai gruppi terroristici alleati. La deportazione è vitale per i talebani, poiché assicura un flusso costante di individui disillusi e frustrati che diventano pedine nel loro schema più ampio.

Molti paesi non riescono a cogliere il significato di questo problema e lo considerano superficialmente. Deportare gli immigrati, soprattutto dai paesi occidentali, alimenta sentimenti anti-occidentali tra la popolazione, rendendoli suscettibili di servire gruppi terroristici.

 

Il tempo sta per scadere

Se il mondo continua a ignorare la terribile situazione in Afghanistan, le conseguenze si riveleranno presto irreparabili. Il lavaggio del cervello dei giovani della nazione, il traffico di droga dei talebani, i rifugi sicuri per i terroristi, la militarizzazione della povertà e il reclutamento di rifugiati avranno presto un impatto sui vicini dell’Afghanistan e sull’Occidente. I vicini dell’Afghanistan, Pakistan, Iran, Asia centrale e India, soffriranno di più, ma l’impatto non sarà limitato alla regione. Paesi molto più lontani, specialmente in Occidente, saranno nel mirino di queste ripercussioni.

Il ritiro americano dall’Afghanistan è stato un grave errore di calcolo. L’amministrazione Biden, in particolare Jake Sullivan, ritiene che i droni e la sorveglianza aerea possano controllare la situazione. Ciò riflette un errore strategico che ricorda l’approccio americano durante la Guerra Fredda. In definitiva, quella visione errata ha contribuito all’ascesa del terrorismo internazionale e agli attacchi dell’11 settembre 2001. Abbandonare ancora una volta il popolo afghano si rivelerà catastrofico, soprattutto per l’Occidente.

Come afghano, esorto l’Occidente a prestare attenzione e a garantire che l’Afghanistan che ha portato all’11 settembre non diventi lo stesso Afghanistan del prossimo futuro. Può essere un paese senza sbocco sul mare in Asia centrale, ma l’Afghanistan ha già dimostrato di poter causare grandi danni quando lasciato a se stesso.

L’autore è un afghano il cui nome, per motivi di sicurezza, non è stato reso noto.

Tribunali extragiudiziali dei talebani: 100 fustigati in pubblico in meno di tre mesi

I combattenti talebani, in particolare quelli della Polizia morale sotto il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, agiscono come giudici quando e dove ritengono opportuno, senza alcun processo legale. Il danno psicologico e sociale inflitto agli individui attraverso le fustigazioni pubbliche è spesso irreparabile, portando a una morte lenta o persino al suicidio

Amin Kawa, 8AM Media, 18 ottobre 2024

I talebani tengono tribunali extragiudiziali da oltre tre anni. Da fine agosto hanno pubblicamente frustato e condannato circa 100 individui per crimini come adulterio, fuga da casa, furto, sodomia e blasfemia. Queste cifre provengono da annunci della Corte suprema dei talebani e da resoconti di Hasht-e Subh Daily . Il rapporto rivela che la Corte suprema dei talebani non ha divulgato o ha collegato in modo errato alcune decisioni del tribunale in diverse province. Tuttavia, gli attivisti per i diritti umani e civili sostengono che queste azioni hanno intensificato la violenza domestica, umiliato pubblicamente gli accusati e violato palesemente la dignità dei cittadini afghani. Nei tribunali talebani, agli imputati viene negato qualsiasi coinvolgimento nel processo decisionale e nessuno dei principi di un giusto processo viene rispettato.

Il rapporto ha rivelato che, dal 12 agosto, i talebani hanno frustato pubblicamente 20 individui per sodomia, oltre alla condanna alla reclusione,  nelle province di Kabul, Maidan Wardak, Khost, Laghman e Parwan, ma anche altri nelle province di  Kandahar, Laghman, Zabul, Helmand, Sar-e-Pul, Ghazni, Ghor, Logar, Paktika, Bamyan, Kunar e Faryab.

Le persone accusate di vari crimini, spesso già punite alla detenzione, sono state frustate in pubblico. Dei 100 individui puniti, circa 60 hanno ricevuto da 30 a 39 frustate ciascuno, mentre altri accusati di fuga da casa, furto, sodomia, traffico di droga e relazioni sessuali extraconiugali hanno ricevuto da 20 a 30 frustate, oltre alle pene detentive. Tra gli accusati ci sono circa 12 donne che sono state frustate pubblicamente negli stadi e in altri luoghi pubblici per essere fuggite da casa o aver avuto relazioni extraconiugali.

 

Violando la dignità dell’imputato

Questi tribunali extragiudiziali hanno ripetutamente attirato critiche da parte di attivisti per i diritti civili e umani. Molti sostengono che i tribunali dei Talebani ignorano palesemente i diritti umani e violano la dignità dell’imputato, senza mostrare alcun impegno nel rispettare i diritti dei cittadini afghani. Sottolineano che i Talebani hanno costantemente portato avanti queste azioni, violando ulteriormente i diritti individuali.

Mahtab (pseudonimo), un’attivista in incognito per i diritti umani che lavora sotto il governo dei talebani, ha detto a Hasht-e Subh Daily che i talebani non riconoscono alcun diritto alle donne, in particolare a quelle accusate nei loro tribunali, e pubblicamente umiliano e insultano gli individui a loro piacimento. Ha sottolineato che quando uomini o donne vengono frustati in pubblico senza chiare prove di colpevolezza, la loro dignità umana viene calpestata e vengono umiliati di fronte agli altri. Anche le famiglie degli accusati subiscono un immenso trauma psicologico e non sono rispettate dai Talebani, soprattutto nella società tradizionale afghana.

Mahtab ha inoltre spiegato: “Il danno psicologico e sociale inflitto agli individui attraverso questi tribunali extragiudiziali è spesso irreparabile, portando a una morte lenta o persino al suicidio coloro che vengono fustigati pubblicamente. Le azioni dei talebani non solo contraddicono i valori umani, ma sono anche in conflitto con le norme legali e consuetudinarie dell’Afghanistan”.

Nel frattempo, alcuni cittadini sostengono che i combattenti e gli ufficiali talebani spesso agiscono come giudici indipendentemente dai tribunali ufficiali. Affermano che i combattenti talebani, in particolare quelli della Polizia morale sotto il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, agiscono come giudici quando e dove ritengono opportuno, senza alcun processo legale. Jalaluddin, un residente di Kabul, ha detto a Hasht-e Subh Daily: “Quando un ufficiale della moralità talebano schiaffeggia e insulta pubblicamente un barbiere per aver tagliato la barba a qualcuno, o un combattente talebano spara a un giovane a un posto di blocco, o un ufficiale talebano ordina un trasferimento forzato a causa di lamentele personali, questi sono tutti esempi di tribunali extragiudiziali che scavalcano i loro tribunali ufficiali. Ogni membro talebano può agire come tribunale quando lo desidera”.

Queste preoccupazioni sono emerse in seguito a un recente incidente a Taloqan, provincia di Takhar, dove un combattente talebano ha sparato e ucciso un giovane dopo una colluttazione verbale. Testimoni hanno riferito che la vittima, di nome Haseebullah, è stata picchiata e poi uccisa dai talebani di fronte agli astanti. Secondo queste fonti, il combattente talebano responsabile non è stato arrestato o processato.

 

Contro ogni giusto processo

In precedenza, Hasht-e Subh Daily ha riferito che in meno di tre anni i talebani hanno frustato pubblicamente 715 individui in tutto l’Afghanistan. Nel 2024, hanno frustato 221 individui; nel 2023, 104; nel 2022, 386 e nel 2021, 4 individui in 31 province, di cui 136 sono state donne. Nei tribunali talebani, agli imputati viene negato qualsiasi diritto nel processo decisionale e i principi del giusto processo vengono completamente ignorati. Le punizioni dure e disumane dei talebani violano gravemente la dignità umana e offrono ai loro funzionari opportunità di vendetta personale attraverso rapide sentenze che ignorano gli standard legali.

Alcuni studiosi di religione e diritti umani sostengono che le punizioni dei talebani per i crimini morali sono eccessivamente dure. Secondo loro, queste punizioni severe per i crimini morali sono “quasi in contraddizione” con gli standard globali sui diritti umani, di cui l’Afghanistan è firmatario, e violano la dignità di coloro che vengono puniti.

L’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha precedentemente risposto alle fustigazioni pubbliche dei talebani nella provincia di Sar-e-Pul esortandoli a interrompere immediatamente le punizioni corporali dei cittadini afghani. Jeremy Laurence, portavoce per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha affermato: “Le punizioni corporali sono una chiara violazione del diritto internazionale sui diritti umani. L’Afghanistan è parte della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, nonché del Patto internazionale sui diritti civili e politici”. Ha aggiunto che le donne che vengono punite pubblicamente sono sposte in seguito a un rischio maggiore di violenza da parte delle loro famiglie e comunità.

Nonostante le critiche internazionali, i talebani sostengono che i loro tribunali extragiudiziali hanno ridotto la criminalità e la corruzione in Afghanistan e contribuito alla riforma della società, per cui frustano pubblicamente gli individui accusati di crimini morali negli stadi e nei luoghi pubblici, alla presenza di funzionari e cittadini talebani, prima che le loro condanne arrivino alla fine.

Di recente, Canada, Australia, Germania e Paesi Bassi hanno annunciato, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, l’intenzione di citare in giudizio i Talebani presso la Corte Internazionale di Giustizia per “violazioni gravi e sistematiche” del Trattato sui Diritti delle Donne delle Nazioni Unite in Afghanistan.

 

Radio Res – Le voci della resistenza femminista afghana: intervista a Shakiba di RAWA

In questo episodio speciale di Radio RES Network, viene portata la testimonianza diretta di Shakiba, militante rivoluzionaria del movimento RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). Dopo tre anni dalla riconsegna del paese ai talebani da parte dell’Occidente, la situazione delle donne afghane è drammaticamente peggiorata. Tra divieti e repressioni sempre più asfissianti, la loro vita quotidiana è dominata da un vero e proprio apartheid di genere.

Shakiba condivide la lotta clandestina che le donne di RAWA continuano a portare avanti per resistere al regime talebano, difendere i loro diritti e sostenere l’intera popolazione. Un racconto di coraggio, resistenza e solidarietà femminista che va oltre i confini dell’Afghanistan e che ci invita a riflettere e a non dimenticare.

Questa iniziativa è stata organizzata dal Collettivo Donne di Classe di Roma in collaborazione con l’associazione CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), impegnata a sostenere le lotte delle donne afghane a livello internazionale.

Per ascoltare il podcast CLICCA QUI

Portare i talebani in tribunale

Cosa riserva il futuro alla lotta delle donne afghane contro la misoginia estrema. La giustizia per loro ha finalmente iniziato ad aprirsi nei corridoi delle corti e dei tribunali internazionali

Hawa Jawadi, Rukhshana Media, 8 ottobre 2024

La lotta impari delle donne in Afghanistan contro i talebani ha finalmente trovato una strada un po’ più chiara. La giustizia, che è stata dolorosamente negata a queste donne per anni, ha finalmente iniziato ad aprirsi nei corridoi delle corti e dei tribunali internazionali.

È in corso una campagna attesa da tempo, avviata da quattro grandi paesi, con il sostegno di altre nazioni in rapida espansione, per assicurare i talebani a rispondere dei loro crimini contro le donne presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia.

Ma la strada da percorrere è lunga.

 

Una convenzione del 1979 per guidare la strada

La base giuridica per il caso contro la misoginia dei talebani è la “Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne”.

Questa convenzione, adottata il 18 dicembre 1979, è composta da 30 articoli. L’Afghanistan ha ratificato questa convenzione nel 2003 e ne è diventato ufficialmente membro.

Tuttavia, da quando i talebani hanno preso il potere nel 2021, il gruppo ha portato l’Afghanistan su una strada che contraddice completamente questa convenzione.

L’articolo 2, ad esempio, obbliga gli stati ad adottare misure immediate per eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne. I talebani l’hanno invece istituzionalizzata.

La convenzione comprende anche:

  • Incorporare il principio di uguaglianza tra donne e uomini nella Costituzione e nelle altre leggi nazionali e garantirne l’attuazione.
  • Adottare mezzi legali e altre misure, tra cui l’istituzione di meccanismi di applicazione per prevenire la discriminazione contro le donne.
  • Tutela giuridica dei diritti delle donne basata sull’uguaglianza con gli uomini, garantendo un’efficace protezione delle donne contro ogni forma di discriminazione attraverso i tribunali competenti.
  • Astenersi da qualsiasi azione discriminatoria nei confronti delle donne e garantire che le autorità e le istituzioni pubbliche agiscano in conformità con questo impegno.

I talebani hanno invece introdotto un decreto dopo l’altro, smantellando ogni uguaglianza tra uomini e donne e rimuovendo ogni sostegno alle donne che cercano giustizia o protezione dalla discriminazione e dalla violenza.

Quasi 100 direttive emanate dal leader supremo dei talebani, Mullah Hibatullah Akhundzada, e altre provenienti dal Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dimostrano che le politiche del gruppo sono in completo contrasto con la Convenzione.

Ai sensi dell’articolo 17, esiste un comitato esecutivo per l’eliminazione della discriminazione contro le donne all’interno delle Nazioni Unite. Il ruolo del comitato è esaminare le violazioni delle disposizioni della convenzione da parte degli stati membri, documentare e riferire sull’attuazione della convenzione.

Questo comitato è cruciale nel caso di deferimento dei talebani alla corte. Deve fornire la documentazione dei loro crimini alla corte e, sulla base di ciò, la corte può agire nominando un pubblico ministero.

 

Disumanizzazione e discriminazione non sono sinonimi

Ma la domanda rimane: questo caso contro la misoginia dei talebani presso la Corte internazionale di giustizia potrebbe porre fine alla discriminazione sistemica delle donne in Afghanistan?

È improbabile che il caso produca cambiamenti immediati per le donne. Ma probabilmente aumenterà le sfide per i talebani nelle relazioni internazionali e complicherà gli sforzi del gruppo per essere riconosciuto come un governo legittimo sia a livello regionale che globale.

Ma la vera debolezza del caso contro i talebani è che non coglie il punto di ciò che è in gioco. Ciò che deve essere riconosciuto correttamente non è che ci sia discriminazione contro le donne, ma piuttosto che le politiche dei talebani sono mirate alla disumanizzazione delle donne. I suoi decreti collettivi sono di fatto l’eliminazione dell’identità umana delle donne.

Se si esamina la misoginia dei talebani nel quadro delle attuali strutture giuridiche di discriminazione, le conseguenze di un caso del genere sono limitate.

La completa disumanizzazione non è lo stesso livello della violazione dei diritti di una persona. Devi far riconoscere la tua umanità perché ci sia un senso nel fatto che i tuoi diritti siano violati. Secondo la legge talebana, l’umanità delle donne è negata per ridurle a meri oggetti e utilità per gli uomini.

Ciò che sta accadendo in Afghanistan sotto i talebani è unico ed eccezionale. Gli attuali quadri giuridici, pur essendo in grado di affrontare alcuni aspetti di questa tragica situazione, non penetrano o non affrontano la sua profondità ed essenza.

Per combattere questa totale disumanizzazione delle donne, non basta semplicemente reintrodurre alcuni dei diritti che i talebani hanno rimosso. Ci vorrà piuttosto una situazione eccezionale che richiede un quadro giuridico speciale, che affronti la natura della situazione attuale e stabilisca una struttura giuridica con meccanismi di applicazione efficaci.

Non sarebbe la prima volta che viene riconosciuta un’eccezione del genere.

 

Il precedente dell’apartheid razziale

È già stato sperimentato in precedenza nel caso dell’“apartheid razziale” in Sudafrica. Riconoscere l’apartheid razziale come crimine contro l’umanità faceva parte del riconoscimento dello status eccezionale del Sudafrica, una situazione in cui era in corso il processo di “disumanizzazione dei neri”.

Si trattava di una situazione unica: i quadri giuridici internazionali esistenti si rivelarono insufficienti per riconoscerla, definirla e affrontarla.

Riconoscere l’“apartheid di genere” come un “crimine contro l’umanità” è allo stesso modo l’unico modo corretto e sistematico per combattere questa tendenza. Incorporare l’“apartheid di genere” nel diritto internazionale fornisce una base fondamentale per combattere questo processo e rafforza la lotta per la difesa dell’uguaglianza umana delle donne con solidi quadri giuridici e forti garanzie di applicazione.

Deferire il caso dei Talebani alla Corte Internazionale di Giustizia è un passo molto importante, ma in definitiva minimo, verso il ripristino dei diritti delle donne.

La questione chiave è fermare la disumanizzazione delle donne. Per raggiungere questo obiettivo è necessario definire un quadro giuridico speciale e distinto per dimostrare che la situazione attuale in Afghanistan va oltre la mera discriminazione.

I talebani rappresentano innegabilmente una minaccia esistenziale per le donne, negando e rifiutando la loro identità umana. Ciò che una volta era ritenuto un dato di fatto, ovvero che le donne fossero esseri umani con tutti i diritti concessi agli uomini, ora deve in qualche modo essere dimostrato ai talebani e ai loro sostenitori.

 

Non sottovalutare i lobbisti talebani

È semplicistico supporre che i talebani non siano consapevoli delle conseguenze delle loro misure misogine. Gli ultimi tre anni da quando hanno ripreso il potere in Afghanistan sono stati un periodo di prova efficace per questo gruppo che ha dimostrato quanto il mondo li abbia sottovalutati.

La posizione morbida delle Nazioni Unite ha visto continuare gli aiuti ai talebani e le strette relazioni dei paesi della regione con gli estremisti hanno rafforzato la convinzione tra i suoi sostenitori che, sebbene la misoginia abbia alcune conseguenze, non mette a repentaglio il loro potere e controllo sull’Afghanistan. Non c’è dubbio che nei calcoli strategici dei talebani le conseguenze che hanno dovuto affrontare finora siano gestibili.

Dal punto di vista dei talebani, il nodo principale nelle relazioni globali risiede negli Stati Uniti.

Ora che il caso dei talebani è destinato a essere deferito alla corte, questo gruppo probabilmente mobiliterà i suoi efficaci lobbisti nei corridoi del potere globale. L’attenzione sarà rivolta agli Stati Uniti e ai paesi europei.

I talebani sfruttano la presenza di gruppi terroristici in Afghanistan come strumento di contrattazione, tentando di intimidire l’Occidente con la minaccia del terrorismo per fare pressione su questi paesi affinché ammorbidiscano la loro posizione sulle loro politiche misogine.

Pertanto, è fondamentale che gli attivisti, le organizzazioni per i diritti delle donne e i paesi che sostengono l’azione penale contro i talebani lavorino in coordinamento, unità e concentrazione, assicurando che l’esperienza dei negoziati di Doha e la falsa narrazione sui talebani non vengano accettate dai politici occidentali.

Ora che la lotta delle donne contro i talebani è entrata in una nuova fase, le donne in generale, e le donne afghane in particolare, devono dimostrare la loro capacità di difendere i propri diritti, la propria identità umana e di lottare per la giustizia.

A lungo termine, la vittoria delle donne afghane in questa lotta ispirerà il mondo e porterà le lotte delle donne per l’uguaglianza umana oltre i confini dell’Afghanistan. Ma richiede sforzi sostenuti, coordinati e coesi.

Roma, incontro con Shakiba, militante rivoluzionaria afghana

pressenza.com

Martedì 15 ottobre 2024, a San Lorenzo, nel rosso quartiere che fu uno dei fulcri della Resistenza romana (fu infatti il solo quartiere che respinse i fascisti perfino nei giorni della Marcia su Roma) si è tenuto un importante incontro, nella storica sede di Sinistra Anticapitalista, organizzato in collaborazione con il Cisda,  Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, per dare voce alla partigiana nonviolenta (nell’eccezione più vera e rivoluzionaria di questo termine) Shakiba, militante di Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), ossia l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan.

Per ovvi motivi di sicurezza nessuno ha potuto fotografarla, filmarla e neppure registrare la sua voce. A me tocca l’arduo compito di tentare di riportare, nel modo più fedele possibile, i suoi ragionamenti.

Rawa nacque nel 1977 grazie alla caparbietà di Meena, un’interessantissima figura di intellettuale e militante rivoluzionaria marxista e femminista, che andrebbe meglio conosciuta anche da noi per il suo esempio e le sue lucidissime analisi.

Le donne di Rawa hanno tra i loro sostenitori moltissimi uomini, che simpatizzano e appoggiano l’organizzazione perché sono consapevoli che non ci sarà mai libertà in Afghanistan senza la liberazione delle donne, in particolare di quelle delle zone rurali, oppresse da secoli di patriarcato.

Fin dall’inizio le sue militanti furono costrette ad agire nella clandestinità, perché si opponevano fieramente da un lato all’invasione sovietica, che fu tutt’altro che un aiuto fraterno, dall’altro alle milizie fondamentaliste dei sedicenti “mujāhidīn”, armate, finanziate e addestrate dagli Usa, attraverso la Cia, in funzione antisovietica.

Shakiba, come a suo tempo sosteneva Meena, chiarisce subito, anche per sgomberare il campo da ogni possibile strumentalizzazione islamofoba, che l’Islam in quanto tale non c’entra nulla in questo conflitto di genere: non si tratta di una questione religiosa, ma di una  manipolazione e strumentalizzazione della religione per ciniche finalità di potere.

Lo stesso, dice Shakiba, è accaduto e accade per il cristianesimo e perfino per gli ideali comunisti, quando sono stati e sono tuttora utilizzati come ideologia utile a sostenere regimi criminali e dispotici.

L’ Afghanistan è da secoli un Paese islamico. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si stava rapidamente secolarizzando e aveva avviato un pacifico processo di laicizzazione, rispettoso della fede islamica professata della stragrande maggioranza dei suoi abitanti.

L’ invasione sovietica e il cinico utilizzo da parte degli Usa dell’islamismo politico, importato come ideologia dall’Arabia Saudita, hanno prodotto, insieme alla barbarie di decenni di continue guerre, il disastro e l’arretramento attuali, soprattutto se si considerano i risultati ottenuti durante questo rapido processo di democratizzazione.

Purtroppo attualmente un ruolo negativo nelle vicende afghane è giocato perfino dall’Onu, che poco o nulla fa per denunciare l’apartheid di genere; Russia, India e Cina riconoscono l’attuale governo dei talebani per ragioni economiche e geostrategiche e ovviamente questo avviene a scapito dei tanto proclamati quanto inattuati Diritti Umani.

Queste strane alleanze o aperture dei principali Paesi dei Brics influiscono negativamente sulla creazione di una rete capillare di solidarietà internazionalista; un certo atteggiamento, che io chiamo campista, è diffuso infatti tra alcune formazioni della sinistra radicale e comunista occidentale, che si disinteressa delle lotte delle donne curde, iraniane e afghane perché questi movimenti femministi si battono contro Paesi riconosciuti come nemici del nostro maggior nemico, il governo degli Stani Uniti d’America.

L’attuale, drammatica situazione economica afghana è il frutto di decenni di oppressione. Le donne di Rawa sono militanti politiche, ma considerano fondamentale impegnarsi concretamente a favore delle donne e del loro popolo.

L’intento principale è quello di creare un sistema scolastico alternativo, necessariamente clandestino, ma di alta qualità, per dare un’istruzione laica, democratica e progressista a tutti i bambini e soprattutto a tutte le bambine e ovviamente alle giovani afghane, a cui lo studio viene totalmente precluso dopo i 13 anni.

Giustizia sociale, libertà, governo laico e secolare, rispetto dei Diritti Umani sono i principali obiettivi del programma politico di Rawa che, in quanto nemica di ogni forma di oppressione, è stata ferocemente combattuta da tutti i governi afghani.

Il lavoro sociale politico e umanitario di Rawa in Afghanistan e nei campi profughi in Pakistan non si è mai fermato nonostante la feroce repressione.

Rawa ha inoltre sempre denunciato la corruzione dei partiti jeadistii, dei talebani e del governo corrotto e collaborazionista imposto dopo l’occupazione americana.

Il sito di Rawa e la rivista “Payam-e-Zan” (il messaggio delle donne”) diffondono in Afghanistan e nel mondo il loro programma, le notizie dall’Afghanistan e dal Pakistan e i messaggi di solidarietà che giungono da ogni parte del mondo.

Shakiba ci tiene a denunciare il regime sionista e a esprimere la sua totale solidarietà alle donne palestinesi e libanesi e ai loro popoli martoriati in un vero e proprio genocidio orchestrato dal governo israeliano.

Servono mobilitazione mondiali di vero internazionalismo tra i popoli, fondato sul rispetto dei diritti umani, che non dimentichi e non strumentalizzi le lotte delle donne; le rivoluzionarie iraniane sono da sempre nostre sorelle, continua Shakiba.

I talebani non sono affatto cambiati, si sono semplicemente fatti più furbi e spregiudicati, ma sono e restano un movimento politico fascista che manipola l’autentica fede islamica del popolo e gestisce la produzione dell’oppio ricavandone enormi profitti.

A un certo punto Shakiba ha un istante di commozione e poi si scusa: “Non dovevo, dobbiamo essere forti, farci forza, non sono venuta qui a piangere, ma a intessere relazioni politiche. Ho pensato alle mie figlie in Afghanistan, che ho lasciato per questo breve tour politico, ma che a breve raggiungerò nuovamente. Mi dicono spesso: ‘Tu che puoi farlo perché non lasci l’Afghanistan con le tue figlie per assicurare loro un futuro migliore?’

Io esprimo la mia totale solidarietà ai milioni di profughi che hanno lasciato il mio Paese e che l’Europa ha il dovere di accogliere come rifugiati politici e invece lascia morire di freddo al confine polacco e nel Mediterraneo, dopo aver per secoli sfruttato le risorse del mio Paese e portato decenni di guerre e un fondamentalismo prima pressoché assente.

Io sono una militante rivoluzionaria, come le mie compagne e come gli uomini che ci sostengono e con cui lavoriamo, ad esempio il Partito laico e di sinistra vera Hambastaghi, Solidarietà, che, ormai clandestino anche in Pakistan, unisce donne e uomini pashtu, hazara, tagik, di ogni fede e che lotta con noi per la libertà del popolo afghano.

Noi donne di Rawa non ce ne andiamo, anche se alcune di noi, io stessa, possiamo farlo e lo facciamo per le nostre missioni all’estero, dopo le quali rientriamo in Afghanistan.

Sentiamo la responsabilità umana e politica di restare a lottare perché le donne più fragili dei villaggi rurali non possono permettersi per ragioni economiche di migrare abbandonando il Paese.

Attualmente gestiamo scuole segrete, in case sicure, parliamo con i vicini, abbiamo cresciuto culturalmente moltissime ragazze e ragazzi. Le scuole religiose indottrinano al fondamentalismo i giovani, vogliono farne fanatici assassini.

Abbiamo un team medico itinerante e portiamo medici e farmaci anche durante le catastrofi naturali, che sono sempre più violente anche per via dei mutamenti climatici frutto delle politiche scellerate dei Paesi più industrializzati.

L’oppressione politica, culturale ed economica blocca però le mobilitazioni ambientaliste. Il popolo è talmente oppresso dalla dittatura e dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza da non riuscire a mobilitarsi sulle questioni ambientali, anche se noi siamo i primi a pagare le conseguenze di un modello di sviluppo disastroso per il futuro dell’umanità. Nelle nostre scuole insegniamo queste problematiche.

Ora la priorità e la precondizioni di ogni altra lotta è la fine del regime talebano”, conclude Shakiba.

Afghanistan, i Talebani ritornano alle origini. Vietato pubblicare immagini di esseri viventi sui media: “Contrarie alla legge islamica”

ilfattoquotidino.it

In Afghanistan sarà vietato per i media locali pubblicare immagini di esseri viventi. Proprio come nel 1996. Lo ha annunciato il portavoce del Ministero per la Promozione delle Virtù e la Prevenzione del Vizio, Saiful Islam Khyber. La nuova misura, ha fatto sapere il Ministero, sarà introdotta in tutto il Paese gradualmente, ma “non c’è posto per la coercizione nella sua implementazione”, ha aggiunto facendo notare che dovranno essere le autorità talebane a “convincere i cittadini” che pubblicare immagini di esseri viventi è contrario all’Islam. L’ultima affermazione fatta dal ministro, secondo cui non sarà necessario l’uso della violenza, vuol trasmettere una certa clemenza da parte dei Talebani ma la realtà è ben diversa. Secondo quanto riportato da Adnkronos, nella provincia di Ghazni, alcuni funzionari del ministero hanno già convocato i giornalisti locali per metterli al corrente della decisione e hanno consigliato ai fotoreporter di scattare foto da più lontano e di filmare meno eventi “per prendere l’abitudine”. L’implementazione della nuova norma è iniziata nella “roccaforte talebana meridionale di Kandahar e nella vicina provincia di Helmand e procederà gradualmente”, ha concluso Khyber. Ma, nonostante la dichiarazione, molti giornalisti della zona hanno riferito di non aver ricevuto alcuna comunicazione a riguardo.

Il nuovo provvedimento si colloca nel quadro della nuova legge sui media redatta affinché essi si conformino e non contraddicano in alcun caso la Sharia – ovvero la legge islamica – che è in vigore nel Paese. Il testo, che ha lo scopo dichiarato di “combattere il vizio e promuovere la virtù” è composto, come riporta Associated Pressche ha potuto visionarlo, da 114 pagine e 35 articoli riguardanti aspetti della vita quotidiana come i trasporti pubblici, la musica e le celebrazioni.Durante il primo regime talebano, durato dal 1996 sino al 2001, venne imposto il divieto di pubblicare immagini che ritraessero esseri viventi. L’imposizione ha le sue radici in un principio religioso islamico denominato aniconismo. Generalmente associato al mondo dell’arte, sulla base di tale principio è considerato haram, ossia vietato, rappresentare Dio. Quindi il principio alla base della decisione dei Talebani è questo: creare e pubblicare immagini rende gli uomini degli idolatri, dei politeisti. L’idolatria secondo l’interpretazione più radicale della dottrina islamica costituisce il primo peccato dell’uomo. Nel testo sacro del Corano, però, non è espresso alcun divieto esplicito al riguardo. Il divieto di adorare divinità all’infuori di Dio nella rigida visione wahhabita – quella su cui si basa l’interpretazione talebana – si affianca al principio che proibisce ogni forma di culto rivolta a figure umane. In ragione di questo, per esempio, furono proprio i Talebani a causare una delle perdite artistico-culturali più gravi dal secondo Dopoguerra: la distruzione dei Buddha di Bamiyan del VI secolo.A tre anni dal loro insediamento al potere, la situazione in cui versa il paese sembra peggiorare di mese in mese. Ad oggi, nonostante l’Emirato islamico non sia formalmente riconosciuto, la normalizzazione dei rapporti con attori regionali e internazionali sta permettendo agli esponenti politici talebani di consolidare politiche sempre più stringenti che rafforzano il regime autoritario. Il Paese sta inoltre attraversando una delle crisi umanitarie più intense degli ultimi anni. Ha un’economia fragile e a livello sociale, la discriminazione di genere è ormai istituzionalizzata. Ogni possibilità di opposizione da parte dei più moderati, aperti verso un dialogo con l’Occidente, appare sfumata. Sin dal suo insediamento, l’attuale Guida Suprema dell’Afghanistan, lAmir ul-muminin Haibatullah Akhundzada, ha predisposto un controllo capillare sulla popolazione civile e questo ha contribuito a limitare e danneggiare i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti dai trattati internazionali.

Secondo quanto riportato da ISPI, un report redatto da Unama – la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan – intitolato De Facto Authorities Moral Oversight in Afghanistan Impacts on Human Rights, nel periodo compreso tra il luglio del 2021 e il marzo del 2024 sono stati registrati almeno “1.033 casi documentati diapplicazione della forza e violazione delle libertà personali, con danni fisici e mentali, con un impatto discriminatorio sulle donne, contribuendo a creare un clima di paura”.

Ad oggi, nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere, l’Afghanistan è al 178esimo posto su 180. Quando i Talebani hanno ripreso il controllo del Paese, l’Afghanistan contava 8.400 lavoratori nei media. Oggi sono solo 5.100, tra cui 560 donne. La stretta annunciata dai Talebani va a sommarsi a una serie di limitazioni introdotte nel corso degli ultimi mesi. Solo qualche settimana fa, per esempio, è arrivato l’annuncio di una nuova legge che ha imposto alle donne il divieto di parlare in pubblico perché non solo il corpo, ma anche la voce femminile deve essere considerata come qualcosa di intimo e, per questo, non rivelata agli estranei. E ancora, la messa al bando delle arti marziali perché ritenute troppo violente e non conformi ai precetti islamici o il divieto della riproduzione musicale.

 

Nove testate internazionali accusano l’Ue di finanziare deportazioni di massa dalla Turchia verso Siria e Afghanistan

EUNEWS, 11 ottobre 2024, di Simone De La FeldL’inchiesta, coordinata dalla piattaforma investigativa Lighthouse Reports, svela l’enorme macchina con cui le autorità turche attuano vere e proprie deportazioni forzate dei profughi afghani e siriani. Bruxelles, accusata di finanziare il sistema e “chiudere un occhio”, risponde: “Turchia è partner chiave”

Bruxelles – Una nuova inchiesta giornalistica smaschera la complicità – o almeno la negligenza, se si vuole essere in buona fede – dell’Unione europea nelle sistematiche deportazioni di centinaia di migliaia di rifugiati afghani e siriani dalla Turchia verso i paesi d’origine. Nove testate internazionali, coordinate dalla piattaforma investigativa Lighthouse Reports, hanno ascoltato testimoni, raccolto prove visive e documenti in Turchia e a Bruxelles, rivelando non solo che le infrastrutture di detenzione ed espulsione sono foraggiate con denaro dell’Ue, ma che le istituzioni europee “sono consapevoli di finanziare questo sistema, ma scelgono di chiudere un occhio”.

I giornalisti di El PaísDer SpiegelPoliticoEtilaat RozSIRAJNRCLe Monde e l’italiana L’Espresso, hanno seguito l’enorme flusso di risorse – oltre 10 miliardi di euro, dal 2015 a oggi – che l’Ue ha stanziato per fare della Turchia una zona cuscinetto per impedire a milioni di rifugiati in fuga dalle persecuzioni dei talebani e dalla guerra civile in Siria di raggiungere l’Europa. E hanno scoperto 30 centri di espulsione realizzati e finanziati dall’Ue, utilizzati dalle forze di sicurezza turche per imprigionare e deportare con la forza centinaia di migliaia di persone. A supporto, l’indagine ha affiancato immagini di attrezzature finanziate dall’Ue utilizzate dalla polizia di Ankara per condurre arresti di massa nelle città turche e deportazioni in Siria. Incluso un bus con tanto di bandiera a 12 stelle stampata sulla fiancata.

Fondi utilizzati per ampliare i sistemi di rilevamento delle impronte digitali e che vengono ora utilizzati per “rintracciare e prelevare i migranti per strada”, oppure per dotare i centri di espulsione “di filo spinato e muri più alti”. Ai detenuti viene “spesso negata” l’assistenza legale, sono stipati in centri sovraffollati e con condizioni igienico sanitarie pessime. Sono sottoposti ad “abusi e persino a torture”. Secondo le testimonianze di 37 persone detenute in 22 diversi centri di espulsione finanziati dall’Ue, molti vengono costretti con la violenza a firmare documenti in cui dichiarano di voler tornare volontariamente nei Paesi da cui sono fuggiti.

L’inchiesta riporta inoltre le testimonianze di funzionari dell’Ue in Turchia e di ex personale dei centri di espulsione, supportate da rapporti e documenti ufficiali di Ankara e Bruxelles. Per 20 volte, denuncia Lighthouse Reports, le richieste alle agenzie dell’Ue di libertà di informazione per accedere ad alcuni documenti “sono state rifiutate con la motivazione che avrebbero potuto danneggiare le relazioni con la Turchia”. Dopo aver parlato con diversi diplomatici e funzionari europei sia a Bruxelles sia in Turchia, non c’è più alcun dubbio: “L’Ue è consapevole di finanziare questo sistema abusivo, e il suo stesso personale ha lanciato l’allarme al suo interno, eppure gli alti funzionari scelgono di chiudere un occhio“.

Un atteggiamento che, stando a quanto rivelato dalla stessa Lighthouse Reports la scorsa primavera, ma anche dal The Guardian e addirittura dalla Corte dei Conti europea, i vertici delle istituzioni europee stanno adottando anche nei confronti delle violazioni dei diritti umani in Tunisia e in Libia. L’accusa è inquietante: sette diplomatici europei in Turchia, che lavorano per l’Ue o per i suoi Stati membri, avrebbero dichiarato di essere a conoscenza delle deportazioni forzate di siriani e delle terribili condizioni all’interno dei centri. Mentre secondo un ex funzionario dell’Ue queste questioni sarebbero state “sistematicamente cancellate” dalle relazioni annuali dell’Ue sulla Turchia.

Da Bruxelles, un muro di gomma. Interpellata sulle denunce di Lighthouse Reports, la portavoce della Commissione europea, Ana Pisonero, ha dichiarato che “la Turchia rimane un partner chiave sulla migrazione e un Paese candidato”, e che “l’Ue riconosce gli sforzi compiuti dalla Turchia nell’accogliere 3,6 milioni di rifugiati“. La risposta è sempre la stessa, che si tratti di Turchia, Tunisia o Libia: “I finanziamenti europei forniti per i centri di espulsione e per l’assistenza al rimpatrio volontario sono nel pieno rispetto degli standard europei e internazionali”, e la responsabilità di indagare sulle accuse di violazioni ce l’hanno le autorità nazionali. “Esortiamo la Turchia a farlo”, ha aggiunto Pisonero.

[N.d.R] per ulteriori info v. anche: The EU is helping Turkey forcibly deport migrants to Syria and Afghanistan

Le milizie democratiche e popolari di Shengal

Contropiano, 10 ottobre 2024, di Carla Gagliardini

Baghdad. Una parte della popolazione ezida del distretto di Shengal, in Iraq, dopo il genocidio dell’agosto del 2014, ha deciso di applicare il paradigma del confederalismo democratico, nato da un lungo studio e un’approfondita riflessione del leader curdo Abdullah Ochalan, rinchiuso nella prigione di massima sicurezza sull’isola di Imrali, in Turchia, dove si trova dal 1999.

I miliziani del Califfato hanno attaccato il 3 agosto del 2014 la popolazione ezida di questa zona e grazie a un accordo siglato con il Partito Democratico del Kurdistan (KDP), di cui oggi si trova conferma su molta stampa, soprattutto internazionale, l’ingresso nei villaggi ezidi non ha incontrato alcun ostacolo, essendosi i peshmerga del KDP dileguati e, di fatto, consegnando la popolazione nelle mani dei terroristi jihadisti.

Non potendo assistere impotenti allo sterminio della propria gente, gli uomini della comunità hanno imbracciato le poche armi che erano a loro rimaste, dopo le requisizioni dei giorni precedenti proprio ad opera dei peshmerga.

Gli jihadisti hanno catturato migliaia di donne e bambini, ucciso uomini ragazzi e donne anziane, secondo una procedura studiata a tavolino.

Appena due mesi dopo quell’aggressione, sull’onda di un forte senso di ribellione verso le atrocità che si stavano consumando, è nato il primo Consiglio delle unità di resistenza ezide maschili, le YBS (Yekineyen Berxwedana Sengale), costituito da cinque uomini, ma anche da una donna avente funzione di riserva. Tra i fondatori si ritrovano tre figure molto importanti per gli ezidi: Shaid Saed, Shaid Zaley e Shaid Dijwar, diventati martiri e onorati dal loro popolo.

Nei primi mesi del 2015 sono invece nate le unità di resistenza femminili YJS (Yekineyen Jinen Ezidxan). Alla fine dello stesso anno si è poi svolto il primo congresso di tutte le unità di resistenza per eleggere il nuovo Consiglio, formato da tre uomini e due donne ai quali si affiancano sedici membri supplenti, chiamati a ricoprire il ruolo dei componenti nel caso dovessero cadere per mano nemica. I caduti delle YBS e delle YJS non sono stati vittime solo dell’Isis poiché anche la Turchia le ha prese di mira, continuando ancora oggi con attacchi volti a uccidere i vertici e i loro membri.

Le unità di resistenza ezide hanno lottato insieme alle YPG e YPJ del Rojava e alle HPG, ala armata del PKK. Questa stretta vicinanza ha consentito il confronto politico sui principi che reggono la struttura sociale, politica e militare del confederalismo democratico, tra i quali si trovano l’emancipazione della donna e l’autodifesa.

Sorte prima della fondazione dell’Amministrazione autonoma, forma di governo che una parte della popolazione ezida si è data nel distretto di Shengal e costituitasi quando le prime famiglie hanno fatto rientro dai campi profughi, dove avevano trovato riparo fuggendo dall’Isis, le unità di resistenza ezide hanno il compito di proteggere la popolazione e la stessa Autonomia.

Per questo nel 2022 sono intervenute quando l’esercito del governo federale è arrivato fino a Khanasur e a altri villaggi con l’obiettivo di smantellare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma. Allo stesso modo non consentono l’implementazione dell’Accordo di Shengal che sancisce, tra le altre previsioni, il loro scioglimento e l’inserimento dei loro membri nell’esercito iracheno, avendo ormai radicata la convinzione che il popolo ezida possa sopravvivere ai continui tentativi di genocidio nei suoi confronti solo applicando l’autodifesa.

Alle unità di resistenza è proibita una forma di intervento di carattere offensivo perché la loro azione si fonda sulla realizzazione di una società dove i popoli costruiscono relazioni di rispetto e collaborazione su un piano di parità, senza negare a nessuno il diritto all’esistenza e alla propria autodeterminazione.

Partendo da questi presupposti, la struttura militare è sì piramidale, come avviene in tutti gli eserciti del mondo, incluso quello del PKK, ma prevede il superamento di alcune regole che costruiscono barriere e gerarchie troppo rigide, allontanando l’idea di un esercito popolare che, al contrario, deve essere fortemente in sintonia con il proprio popolo. Per questa ragione, ad esempio, è bandito il saluto militare, strascico di una vecchia retorica che allontana piuttosto che avvicinare.

L’aspetto democratico più significativo delle YBS e delle YJS è dato dall’elezione dei membri del Consiglio da parte delle loro assemblee. Questi non sono dunque nominati da apparati o strutture di governo. Attraverso un procedimento di autocandidature, a cui viene affiancato una discussione e un controllo serio sulle motivazioni e le capacità di ciascuno, vengono scelti dall’organismo assembleare i rappresentanti che formeranno il Consiglio.

Le YBS e le YJS collaborano in ogni aspetto della vita militare e operano congiuntamente, senza nessuna distinzione. Il ruolo della donna all’interno delle unità di resistenza è l’espressione evidente della realizzazione di due dei pilastri del confederalismo democratico perché oltre ad essere perfettamente integrata all’interno della struttura militare, in modo paritario rispetto agli uomini, realizza la propria emancipazione con un nuovo protagonismo che la mette in prima linea nell’elaborazione delle decisioni e nella difesa del proprio popolo.

Un balzo in avanti per una società che dichiara apertamente che, prima dell’attacco dell’Isis, la donna viveva all’ombra dell’uomo in ruoli puramente marginali. Così, nell’applicare il confederalismo democratico, mentre le riunioni delle YJS vengono convocate esclusivamente da una comandante, quelle delle YBS invece possono essere indette tanto da un comandante quanto da una comandante.

Le unità di resistenza rappresentano un esercito formato non per coscrizione, verso la quale nel corso della storia, soprattutto sotto l’Impero ottomano, gli ezidi si sono ribellati, ma piuttosto un esercito che accoglie chi si riconosce nei suoi principi, ispirati al confederalismo democratico, e volontariamente decide di contribuire alla difesa del proprio popolo.

Per gli ezidi che sostengono l’esperienza dell’Amministrazione autonoma di Shengal, le YBS e le YJS sono i loro figli e le loro figlie, senza alcuna distinzione. Il rapporto creatosi tra le unità di resistenza e la comunità, che reclama il diritto alla pace e all’esistenza, è di una profonda interconnessione che induce a pensare che si tratti realmente di un esercito popolare e democratico.

Originariamente le unità di resistenza, nella lotta contro l’Isis, hanno ricevuto il contributo economico proveniente dalla Resistenza del Rojava. Successivamente è stato il governo centrale a farsi carico del costo della loro struttura, per poi cancellarlo in un secondo momento. Oggi le unità di resistenza vivono principalmente grazie alle rimesse dall’estero di familiari e altri ezidi che si riconoscono nel progetto dell’Amministrazione autonoma, anche se vi sono membri che decidono di rinunciare allo stipendio, considerano la loro adesione come un dovere irrinunciabile verso la c. File di giovani ezidi chiedono di potersi arruolare ma molte domande vengono respinte poiché a inoltrarle sono minorenni.

Su questa forma organizzata di autodifesa il popolo ezida di Shengal investe molto sapendo che la propria sopravvivenza dipende anche dalla sua capacità di organizzarsi rispetto alle pretese dei tanti attori regionali, il KDP in primo luogo ma anche il governo federale, e internazionali, la Turchia soprattutto, che vogliono non solo cancellare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma di Shengal ma anche ridurre al silenzio il popolo ezida che resiste.

L’Afghanistan di fronte alla Corte internazionale di Giustizia?

Rachele Reid, ANN, 3 ottobre 2024

Cosa aspettarsi da una contestazione legale delle violazioni dei diritti delle donne da parte dell’Emirato?

Il governo dell’Afghanistan è stato avvertito che le sue violazioni dei diritti delle donne scateneranno un deferimento alla corte suprema delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia (ICJ), a meno che non modifichi le sue politiche. L’iniziativa, presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi e sostenuta da altri 22 stati, si concentra sulle presunte violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario. Secondo le procedure della corte, al governo afghano viene offerta la possibilità di risolvere la controversia, in caso contrario, l’ICJ si occuperà del caso. Un portavoce dell’Emirato islamico ha immediatamente respinto le accuse. Sebbene la corte non abbia potere di esecuzione, non è priva di mordente e una sentenza contro l’IEA potrebbe portare a ulteriori sanzioni contro l’Emirato, nonché a pressioni politiche su quegli attori inclini alla normalizzazione. Rachel Reid fornisce una panoramica del processo, del suo potenziale impatto e delle insidie.

La mossa di portare l’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia potrebbe essere rivoluzionaria: la CEDAW è in vigore da oltre 40 anni, ma mai prima d’ora la corte è stata chiamata a esaminare la presunta violazione della stessa da parte di uno Stato.[1] L’iniziativa è stata annunciata da quattro ministri degli esteri in un evento collaterale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2024 in un discorso emozionante del ministro tedesco, Annalena Baerbock, che ha descritto le restrizioni sulle donne e le ragazze afghane.

Non ti è permesso andare al liceo. Non ti è permesso fare sport. Non ti è permesso viaggiare. Non ti è permesso lavorare. Prendere l’autobus. Parlare con un uomo o un ragazzo. Vedere un medico da sola. Sembra una prigione. Ma questa è la realtà per le donne e le ragazze in Afghanistan dal 2021. In Afghanistan, i talebani stanno togliendo ogni ultimo brandello di libertà alle donne e alle ragazze. E ora hanno persino vietato alle donne di parlare in pubblico. In tedesco, abbiamo un’espressione per questo: “mundtot”. Letteralmente significa “bocca morta”. Uccidere qualcuno, uccidendo la sua voce. Questo è ciò che sta accadendo in questo momento. [2]

Nell’annunciare la loro iniziativa, i quattro stati hanno accusato il governo afghano di essere responsabile di “discriminazione di genere sistematica”, come delineato [qui]sul sito web del Ministero degli Esteri australiano. Elencava un’ampia gamma di restrizioni: “Le donne e le ragazze afghane vengono socialmente, politicamente, economicamente e legalmente emarginate. La cosiddetta legge “vizio e virtù” recentemente promulgata cerca di mettere a tacere metà della popolazione e di cancellare donne e ragazze dalla vita pubblica”.

I quattro paesi coinvolti – Australia, Canada, Germania e Paesi Bassihanno effettivamente avvisato l’Emirato islamico dell’Afghanistan (IEA) che intendono intraprendere un’azione legale presso la Corte internazionale di giustizia, se non cambia le sue politiche. In una dichiarazione pubblicata dal governo australiano, hanno invitato “l’Afghanistan e le autorità de facto dei talebani” a cessare le violazioni dei diritti umani delle donne e delle ragazze e “a rispondere alla richiesta di dialogo per affrontare le preoccupazioni della comunità internazionale su questa questione”, comprese le raccomandazioni fatte attraverso il processo di revisione periodica universale delle Nazioni Unite.[3] Oltre al loro evento collaterale a New York e alle dichiarazioni ai media, AAN ha capito che è stata data una notifica formale ai funzionari dell’IEA.

Come da tradizione, i funzionari dell’IEA hanno respinto le accuse di discriminazione, come si legge in un tweet del vice portavoce Hamdullah Fitrat:

L’Emirato islamico afgano è accusato di violazione dei diritti umani e di apartheid di genere da parte di alcuni paesi e fazioni. I diritti umani sono protetti in Afghanistan e nessuno è discriminato. Sfortunatamente, sono in corso tentativi di diffondere propaganda contro l’Afghanistan su richiesta di un certo numero di donne per far apparire la situazione negativa.

I leader dell’IEA sono costantemente orgogliosi delle loro politiche sulle donne. Nel suo messaggio di Eid al-Adha del giugno 2023, ad esempio, il leader supremo Mullah Hibatullah Akhundzada ha affermato (come riportato dall’AP ) :

È stato ripristinato lo status della donna come essere umano libero e dignitoso e tutte le istituzioni sono state obbligate ad aiutare le donne a garantire il matrimonio, l’eredità e altri diritti.

Considerata la posizione dell’Emirato secondo cui ciò che altri vedono come restrizioni alle libertà e al comportamento delle donne sono in accordo con la legge divina e, in ogni caso, sono una questione interna in cui gli altri paesi non hanno il diritto di interferire, sembra quasi inevitabile che la Corte internazionale di giustizia alla fine si occuperà del caso. Se ciò dovesse accadere, sarebbe la prima volta che un paese viene citato in tribunale per discriminazione contro le donne.

 

Come funziona la Corte internazionale di giustizia?

La Corte internazionale di giustizia, spesso chiamata “Corte mondiale”, è il braccio giudiziario delle Nazioni Unite. Risolve le controversie legali tra stati in conformità con il diritto internazionale, oltre a fornire pareri consultivi su questioni legali sottopostegli da organi e agenzie delle Nazioni Unite*.* I paesi possono presentare un caso alla CIG contro un altro paese firmatario, che verrà esaminato dai suoi 15 giudici , che provengono da tutto il mondo. Le decisioni sono vincolanti, ma la corte non ha un proprio potere di esecuzione, di cui parleremo più avanti. Sommariamente, la CIG ha sede all’Aia nei Paesi Bassi, che ospita anche la Corte penale internazionale (CPI), una corte completamente separata che si occupa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio da parte di individui, non di stati.

L’iniziativa della Corte internazionale di giustizia si concentra sulle violazioni della CEDAW, in pratica una carta dei diritti delle donne, di cui l’Afghanistan è diventato parte nel 2003. Le convenzioni sono firmate dai paesi, non dai governi, quindi rimangono in vigore indipendentemente dai cambiamenti di governo. Quindi, sebbene l’Emirato senza dubbio metterà in discussione la giurisdizione della CEDAW, rimane vincolato da essa ai sensi del diritto internazionale. È degno di nota che nessuno dei paesi che hanno preso questa iniziativa si è rivolto all'”Emirato islamico dell’Afghanistan” nelle proprie dichiarazioni, scegliendo invece di fare riferimento alle “autorità di fatto” o ai talebani. Hanno anche cercato di sottolineare, nelle parole del ministro degli esteri tedesco nella dichiarazione citata in precedenza:

[C]on questo, non stiamo riconoscendo politicamente i Talebani come il governo legittimo dell’Afghanistan. Tuttavia, sottolineiamo che le autorità de facto sono responsabili del rispetto e dell’adempimento degli obblighi dell’Afghanistan ai sensi del diritto internazionale.

La possibilità che portare l’IEA alla Corte internazionale di giustizia possa contribuire al suo riconoscimento di fatto è stata una preoccupazione sollevata dalle donne nelle consultazioni tenutesi negli ultimi due anni (come quella organizzata dall’Afghanistan Human Rights Coordination Mechanism nel gennaio 2024, a cui ha partecipato l’autore). Parwana Ibrahimkhail Nijrabi, una delle donne che ha guidato le proteste in Afghanistan dopo la caduta della Repubblica islamica, ora in esilio, ha dichiarato ad AAN: “L’iniziativa della Corte internazionale di giustizia è uno sforzo prezioso e importante, a patto che non si traduca nel riconoscimento dei talebani”. Nijrabi aggiunge: “In qualsiasi processo correlato a questa iniziativa, è essenziale che alle donne, vittime dei crimini dei talebani, venga assegnato un ruolo attivo e significativo”.

Per i governanti dell’Afghanistan, tuttavia, sembrerà senza dubbio ingiusto che siano vincolati da un trattato che non hanno firmato, in particolare quando gli stati querelanti non riconoscono l’Emirato come governo dell’Afghanistan. Ciò mette l’IEA in difficoltà: senza riconoscimento, non può rappresentare lo stato dell’Afghanistan per ritirare o applicare riserve alle convenzioni internazionali. Allo stesso tempo, per ricevere il riconoscimento, è possibile che, tra le altre cose, debba smettere di violare la CEDAW.

L’IEA potrebbe, tuttavia, trovare una certa simpatia tra alcune nazioni musulmane, alcune delle quali hanno scelto di non ratificare la CEDAW, mentre altre lo hanno fatto con riserve (in un’analisi della CEDAW in Medio Oriente e Nord Africa condotta da Amnesty International nel 2021, dei 14 firmatari della regione, otto avevano espresso riserve alla luce di quelle che consideravano parti incompatibili con la legge della sharia).[4] Quando il governo afghano ad interim ratificò il trattato nel 2003, fu il primo paese musulmano a farlo (piuttosto “inaspettatamente” secondo questa revisione accademica, CEDAW e Afghanistan , che rileva un contesto in cui il nuovo governo era sotto pressione per dimostrare un impegno per l’uguaglianza di genere). È anche sorprendente che gli Stati Uniti stessi non abbiano mai ratificato la CEDAW, sostenendo che l’IEA avrebbe simpatizzato con la sovranità legale, intrecciata con alcuni “valori familiari” conservatori (riassunti in questo articolo di Heinrich Böll “CEDAW e USA: quando la fede nell’eccezionalismo diventa esemplarismo”).

 

Quanto tempo potrebbe durare un procedimento legale?

Ci sono due fasi prima che la corte possa intervenire: negoziazione e arbitrato, come stabilito dall’articolo 29 della Convenzione . L’IEA è stata informata e invitata a risolvere le presunte violazioni della CEDAW e ora devono esserci segnali di un “genuino tentativo” di risolvere la situazione attraverso la negoziazione. Non è previsto alcun periodo di tempo per questa fase.[5] La seconda fase, l’arbitrato, ha una finestra di sei mesi. Se l’Emirato non risponde o l’arbitrato non riesce a risolvere la controversia, il caso andrà di fronte alla corte.

Una volta che un caso arriva in tribunale, le sentenze definitive possono richiedere anni.[6] Tuttavia, le decisioni provvisorie, o “misure provvisorie”, possono essere emesse nel giro di settimane o mesi. Ad esempio, in un caso presentato dal Sudafrica il 29 dicembre 2023 contro Israele, accusato di aver violato la Convenzione sul genocidio nella Striscia di Gaza, la Corte internazionale di giustizia ha emesso misure provvisorie entro 28 giorni. È probabile che i quattro Paesi coinvolti nel caso afghano richiedano misure provvisorie alla presentazione della denuncia contro l’Emirato.

 

Quale impatto può avere il tribunale?

La Corte internazionale di giustizia è limitata a emettere ordini, come l’istruzione di conformità con gli obblighi internazionali.[7] Per la maggior parte, gli stati aderiscono alle decisioni della Corte internazionale di giustizia, anche se ci sono molti esempi di stati che le ignorano.[8] L’istruzione di conformità potrebbe sembrare una prospettiva relativamente benigna per l’IEA, che è abituata a essere punita per violazioni del diritto internazionale. Tuttavia, gli ordini della Corte internazionale di giustizia sono legalmente vincolanti e la mancata osservanza potrebbe comportare un deferimento ad altre entità delle Nazioni Unite, in particolare al Consiglio di sicurezza.

La politica del Consiglio di sicurezza non è mai semplice. Non ci sono garanzie che sosterrebbe la corte nell’applicare misure contro l’IEA. Non solo gli Stati Uniti sono un astenuto della CEDAW, ma un altro membro permanente, la Cina, non ha accettato l’articolo 29 della CEDAW, la disposizione che consente alla corte di intervenire quando gli stati hanno una controversia sulla CEDAW.

Detto questo, un certo numero di funzionari dell’IEA sono già soggetti a sanzioni del Consiglio di sicurezza, quindi è possibile che vengano imposte ulteriori sanzioni e/o meccanismi di controllo. È qui che iniziano a vedersi i potenziali denti di questa iniziativa: l’Emirato vorrebbe che i divieti di viaggio fossero allentati, non che venissero imposte ulteriori sanzioni. Vuole anche il riconoscimento dell’ONU con tutto ciò che ne consegue, tra cui prendere il posto dell’Afghanistan all’Assemblea generale dell’ONU e far riconoscere i suoi diplomatici nelle capitali di tutto il mondo. Anche le misure provvisorie della Corte internazionale di giustizia potrebbero quindi rappresentare un ostacolo alle ambizioni dell’Emirato.

L’altro modo in cui la Corte internazionale di giustizia ha un impatto è sul comportamento di altri stati. Il clamore che ha circondato un altro esame della Corte internazionale di giustizia, relativo a Israele e alla sua occupazione della Palestina (in seguito a questa richiesta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2022), mostra le potenziali ramificazioni del coinvolgimento della corte. La corte ha stabilito nel luglio 2024 che l’occupazione a lungo termine del territorio palestinese da parte di Israele era “illegale” e equivaleva a un’annessione di fatto, aggiungendo che Israele stava violando il divieto internazionale di segregazione razziale e apartheid.

Israele stesso ha ignorato la corte, accusandola di antisemitismo (vedi questa dichiarazione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu), ma la sentenza della corte ha delle ramificazioni per altri stati che potrebbero comportare sanzioni, embarghi sulle armi, così come altre relazioni diplomatiche ed economiche. C’erano state precedenti richieste da parte del Consiglio per i diritti umani e degli esperti delle Nazioni Unite per un embargo sulle armi contro Israele, che erano rimaste inascoltate. Ma scoprendo che Israele ha violato le protezioni dei diritti umani contro l’apartheid, la Corte internazionale di giustizia ha fatto pressione non solo su Israele ma, come ha affermato il Direttore esecutivo di Human Rights Watch, Tirana Hassan : “La corte ha attribuito la responsabilità a tutti gli stati e alle Nazioni Unite di porre fine a queste violazioni del diritto internazionale”. Ciò include coloro che sono firmatari del Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite e della Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid . In questo articolo di opinione , “Perché sarà difficile ignorare la sentenza della Corte internazionale di giustizia contro le politiche di insediamento di Israele”, si analizza come una sentenza della Corte internazionale di giustizia potrebbe esercitare pressione sugli stati affinché agiscano, e in questa dichiarazione degli esperti delle Nazioni Unite che invita altri stati ad agire. In un altro caso portato dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dal Nicaragua, che mirava a fermare le vendite di armi tedesche a Israele , la corte ha scelto nel febbraio 2024 di non emettere misure provvisorie (ritenendo che le vendite di armi tedesche erano, di fatto, diminuite), ma i giudici non hanno archiviato il caso e sembra che la Germania possa, in risposta, aver fermato le vendite di armi.[9] Sono in corso una serie di altri sforzi legali per fermare le esportazioni di armi a Israele, tutti rafforzati dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia.[10]

L’effetto domino di una sentenza della Corte internazionale di giustizia (ICJ) – o anche di misure provvisorie – dovrebbe, almeno, far riflettere l’IEA. Se si scoprisse che l’IEA ha violato la CEDAW, una sentenza o una misura forte della corte potrebbe avere ripercussioni sul modo in cui i paesi di tutto il mondo e le organizzazioni internazionali interagiscono con essa.

 

Chi c’è dietro l’iniziativa

Mentre Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi sono stati al centro dell’attenzione quando è stata annunciata questa mossa, l’iniziativa è stata il culmine di quasi tre anni di advocacy da parte di difensori dei diritti delle donne afghani e internazionali, che hanno incluso l’identificazione dei paesi disposti a presentare un reclamo presso la corte.[11] L’Open Society Justice Initiative ha lavorato dietro le quinte a questa iniziativa per tre anni (come affermato in questo tweet ), incluso fornire questo utile briefing sul processo e ospitare consultazioni con le donne afghane. Tra i sostenitori afghani, Shaharzad Akbar, direttore esecutivo di Rawadari ed ex presidente della Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan (AIHRC), ha detto ad AAN che spera che “finalmente le donne in Afghanistan possano vedere che non sono dimenticate”. Shukria Barakzai, ex membro del parlamento e ambasciatrice in Norvegia, è una co-fondatrice della Coalizione delle donne afghane per la giustizia, che è stata impegnata nell’advocacy su una serie di iniziative di giustizia, incluso il supporto al percorso della Corte internazionale di giustizia. Barakzai ha detto ad AAN che “anche con questo semplice annuncio, ciò dimostra ai talebani che saranno ritenuti in qualche modo responsabili”.

I paesi che hanno presentato la denuncia alla Corte internazionale di giustizia, tuttavia, sono tutt’altro che ideali per alcuni sostenitori. Tutti e quattro gli stati che hanno sponsorizzato l’iniziativa in precedenza hanno sostenuto la Repubblica islamica e avevano truppe sul campo in Afghanistan; l’IEA li considererà attori intrinsecamente ostili. Inoltre, sebbene il Ministero degli esteri tedesco abbia affermato che i suoi “partner” includevano “quelli del mondo islamico”, l’elenco dei 22 stati che hanno sostenuto l’iniziativa comprendeva solo un paese a maggioranza musulmana: il Marocco.[12] Dato che l’Emirato afferma che le sue politiche su donne e ragazze sono ordinate dalla sharia, questo non è l’ideale. Infine, come notato sopra, la Germania stessa è stata coinvolta in una tesa disputa presso la Corte internazionale di giustizia per i suoi stretti rapporti con Israele nonostante le violazioni dei diritti palestinesi da parte di quello stato, il che ne mina la legittimità, sia in termini di rispetto del diritto internazionale dei diritti umani sia nel guidare un’azione legale che affronterà l’interpretazione della legge divina dell’IEA. Barakzai afferma che questo bagaglio è una vera preoccupazione per l’Afghanistan Women’s Coalition for Justice, ma che l’organizzazione sta cercando di ottenere maggiore sostegno dagli stati musulmani, da importanti studiosi islamici e dall’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC).

 

Altre vie legali perseguite

La Corte internazionale di giustizia non è l’unica proposta che utilizza il diritto internazionale per sfidare l’Emirato sulle sue politiche su donne e ragazze. Nel febbraio 2023, il relatore speciale, Richard Bennett, ha chiesto alla Corte penale internazionale di considerare il crimine di persecuzione di genere nella sua indagine sull’Afghanistan.[13] La Corte penale internazionale ha compiuto passi da gigante per migliorare il suo track record nell’indagine e nel perseguimento dei crimini di genere negli ultimi anni e nel dicembre 2022 ha rilasciato una nuova politica sulla persecuzione di genere, un anno dopo ha rilasciato una politica rivista sui crimini di genere.[14]

Se si seguisse questa strada, il caso sarebbe contro individui all’interno della leadership dell’IEA, non contro l’Afghanistan, come stato, in contrasto con l’iniziativa della Corte internazionale di giustizia.[15] Finora, però, il procuratore capo della CPI ha detto poco in pubblico sulla sua indagine sull’Afghanistan, con grande frustrazione delle vittime che hanno già sofferto anni di ritardo (la corte ha iniziato il suo esame preliminare della situazione in Afghanistan nel 2006, ma è stata autorizzata a indagare solo nel 2022).[16] Il procuratore aveva già deciso che avrebbe indagato solo sui presunti crimini dei Talebani e dell’ISKP, “de-prioritarizzando” quelli presumibilmente perpetrati dalle ex forze della Repubblica, dagli eserciti internazionali o dalla CIA.

Non si sa se abbia scelto di includere il crimine contro l’umanità della persecuzione di genere come parte della sua indagine. Potrebbe essere che abbia già richiesto l’autorizzazione ai giudici della Camera preliminare della CPI per i mandati di arresto per questo crimine. I mandati possono essere emessi “sotto sigillo” (cioè, in segreto) per aumentare le prospettive di arresto dei sospettati (sebbene dati i divieti di viaggio e la limitata mobilità della dirigenza dell’IEA, le possibilità di arrestare individui mentre visitano un paese amico della CPI siano già scarse). Oppure la corte potrebbe decidere, se incriminasse, che sarebbe meglio rendere pubblici i mandati, con la speranza che ciò abbia un effetto deterrente sull’IEA a vantaggio delle donne e delle ragazze afghane.

Parallelamente alla spinta per procedimenti legali contro l’Emirato per discriminazione di genere attraverso la Corte internazionale di giustizia e forse la Corte penale internazionale, da marzo 2023 un gruppo di importanti difensori dei diritti umani afghani e iraniani ha guidato una campagna per stabilire un nuovo crimine di “apartheid di genere“. Il crimine internazionale di apartheid è definito nello Statuto di Roma come “atti disumani” commessi “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime”. Il nuovo crimine amplierebbe la definizione di apartheid per includere sia il genere che le gerarchie razziali.

Creare nuovi crimini internazionali non è rapido o semplice, ma una possibile via per farlo è un nuovo trattato autonomo sui crimini contro l’umanità (allineandolo ai trattati sui crimini di guerra e sul genocidio). Questo processo sta procedendo a rilento, ma ha molti ostacoli e anni davanti a sé (vedi questo articolo su “Aggiungere genere all’apartheid nel diritto internazionale”).

Conclusione

Nel breve termine, le donne e le ragazze afghane non possono aspettarsi alcun beneficio immediato dall’iniziativa della Corte internazionale di giustizia, come ha riconosciuto il Ministero degli esteri tedesco nel suo annuncio:

Sfruttare le possibilità della convenzione sui diritti delle donne non cambierà la situazione in Afghanistan oggi. Ma dà speranza alle donne afghane. Vi vediamo, vi sentiamo. Parliamo per voi quando siete messe a tacere.

I diritti delle donne e delle ragazze afghane sono stati menzionati costantemente dai diplomatici e nei forum internazionali da quando l’IEA è tornata al potere nell’agosto 2021, con ripetute richieste all’Emirato di invertire le proprie politiche. Tuttavia, gli editti ufficiali che limitano donne e ragazze si sono solo inaspriti. Nel frattempo, nota Akbar, “la normalizzazione continua”. L’iniziativa di portare l’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia potrebbe “come minimo”, afferma, “ritardare il loro riconoscimento e la loro normalizzazione”.

Spesso gli attivisti si chiedono se un’ulteriore pressione internazionale su donne e ragazze potrebbe portare a un perverso inasprimento delle restrizioni da parte dell’IEA. Quando gli è stato chiesto se fosse un rischio, Barakzai ha preso fiato. “Possono peggiorare ulteriormente? Non possiamo respirare ossigeno direttamente. Non possiamo nemmeno ridere a casa nostra a voce alta. Cosa c’è di peggio?”

A cura di Kate Clark