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Autore: CisdaETS

La normalizzazione dell’oppressione sotto il regime talebano

8Am Media, 3 febbraio 2025

“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini

In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.

Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.

Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.

Talebani è sinonimo di orrore

Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?

Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.

 

Un regime costruito sulle rovine della dignità umana

Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.

E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.

Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.

Un vergognoso silenzio

Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.

Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.

Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.

Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.

 

L’oppressione è diventata ordinaria

La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.

Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.

 

Dentro ogni uomo un talebano nascosto

Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.

Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.

I divieti talebani limitano le vaccinazioni antipolio

Habib Mohammadi, Amu TV, 3 febbraio 2025

Il divieto dei talebani sulle vaccinazioni porta a porta contro la poliomielite è collegato all’aumento dei casi

Secondo un nuovo rapporto dell’Afghanistan Analysts Network (AAN), la decisione dei talebani di vietare la vaccinazione porta a porta contro la poliomielite in Afghanistan ha contribuito all’aumento dei casi segnalati di malattia.

Il rapporto afferma che, dopo aver sospeso per due volte il programma nazionale di vaccinazione contro la poliomielite nel 2024, i talebani hanno ripreso la campagna per i bambini sotto i cinque anni a fine ottobre, ma hanno limitato le vaccinazioni alle moschee e ai centri dei villaggi, anziché consentire agli operatori sanitari di visitare le case.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha registrato nel 2024 in Afghanistan 25 casi di poliomielite, il numero più alto in quattro anni. Tuttavia, un portavoce del ministero della Salute dei Talebani l’ha negato, affermando: “Nessun caso di poliomielite è stato registrato nel Paese”.

Difficile raggiungere tutti i bambini

Il rapporto AAN, redatto da Jelena Bjelica e Nur Khan Himmat, include interviste ai genitori in alcune delle 16 province interessate alla vaccinazione antipolio in ottobre e novembre. Molti hanno affermato che il nuovo approccio vaccinale, limitato ai luoghi di ritrovo pubblici, ha reso più difficile garantire che tutti i bambini ricevano il vaccino.

Un padre ha raccontato di aver rischiato di perdersi del tutto la campagna vaccinale.

“Mio fratello era in visita e mi ha detto che i vaccinatori antipolio stavano vaccinando i bambini di fronte alla moschea. Gli ho chiesto di aiutarmi a portare i miei due figli. Se non ci fosse stato, non avrei saputo della campagna e i miei figli non sarebbero stati vaccinati”, ha detto.

L’Afghanistan e il Pakistan restano gli unici due paesi al mondo in cui la poliomielite è ancora endemica.

La vaccinazione contro la poliomielite è obbligatoria in Afghanistan dal 1978, quando il paese ha lanciato il suo programma di immunizzazione di massa. Da allora, i casi sono diminuiti da migliaia negli anni ’80 a centinaia negli anni ’90, con solo una manciata di casi registrati annualmente negli anni 2000.

Gli esperti sanitari avvertono che le interruzioni nelle campagne di vaccinazione, in particolare il passaggio dall’immunizzazione porta a porta alla vaccinazione domiciliare, potrebbero vanificare decenni di progressi nell’eradicazione della malattia.

Come pietre pazienti, pagine afghane

ilmanifesto.it Farian Sabahi 2febbraio 2025

PAGINE Percorso di letteratura contemporanea afghana, i romanzi di Atiq Rahimi e le voci di donne raccolte da Zainab Entezar

 

Lo scrittore e cineasta afgano Atiq Rahimi ci aveva fatto ascoltare il rombo della guerra nel romanzo breve Terra e cenere, scritto in persiano (trad. di Babak Karimi e Mahshid Moussavi Asl, Einaudi, 2002, pp. 86, euro 7,50). Dedicato a suo padre e a tutti gli altri padri che hanno pianto durante la guerra, è ambientato nei dintorni della città di Polkhomri negli anni dell’occupazione sovietica. I protagonisti sono un vecchio e un bambino che, dopo un bombardamento che ha fatto strage di civili, si chiedono perché siano ancora vivi. Nonno e nipote cercano un passaggio per raggiungere la miniera dove lavora Morad, il figlio del vecchio nonché padre del bambino. Le riflessioni sono queste: «Che preghi o no, in fondo, Dio non ti pensa nemmeno. Magari ti pensasse almeno per un istante, magari si accostasse alle tue miserie… No, Dio ha abbandonato le sue creature».

Nato a Kabul nel 1962, Atiq Rahimi ha lasciato l’Afghanistan e vive in Francia. Dizionario alla mano, ha scritto in francese il suo secondo romanzo, Pietra di pazienza, ambientato nel suo paese d’origine. Una donna velata veglia un uomo disteso in un letto. L’uomo è privo di conoscenza, ha una pallottola in testa, qualcuno gli ha sparato per un futile motivo. La donna parla, senza fermarsi. Si prende cura del marito mujaheddin, gli svela segreti che non avrebbe potuto rivelargli se lui fosse stato nel pieno delle sue forze. Il corpo immobile del marito diventa così la pietra paziente a cui le afgane confidano ricordi, angosce, segreti e speranze. Una pietra che assorbe il dolore delle donne fino al momento in cui si frantuma, in un inno alla libertà. Un romanzo convincente, dato alle stampe dapprima in Francia, dove aveva vinto il Premio Goncourt, e poi da Einaudi nel 2009 (traduzione di Yasmina Melaouah, pp. 110, euro 17). Un romanzo diventato lungometraggio con protagonista l’attrice iraniana Golshifteh Farahani (Come pietra paziente, 2012).

Nel 2024 Einaudi ha pubblicato Se solo la notte di Atiq Rahimi e Alice Rahimi. (trad. di Emanuelle Caillat, pp. 186, euro 18,50). Lontani durante il lockdown del 2020, padre e figlia si scrivono. Una mail dopo l’altra, raccontano il tempo sospeso, quasi per distrarsi dalle tragiche notizie sulla pandemia. Giorno dopo giorno, il padre racconta alla figlia gli eventi che hanno segnato la sua vita: l’invasione sovietica, la fuga da Kabul, l’approdo in Europa, la morte delle persone care. Il libro non ha la stessa freschezza delle opere precedenti, ma può valere la pena leggerlo per approfondire le vicende afgane e conoscere qualche dettaglio in più di questo straordinario personaggio, che ha contribuito a salvare centinaia di suoi connazionali.

Nell’agosto 2021, quando la coalizione guidata dagli Stati Uniti aveva abbandonato l’Afghanistan lasciandolo preda dei Talebani, Atiq Rahimi ha infatti scritto una lettera al presidente francese Macron convincendolo a organizzare i voli aerei necessari a portare a Parigi intellettuali e artisti afgani che avrebbero altrimenti rischiato di essere ammazzati dagli integralisti.

A dare invece un’idea di quello che sta succedendo in Afghanistan dopo la presa di potere da parte dei Talebani nell’agosto 2021 è la raccolta Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afgane a cura di Daniela Meneghini, docente di Lingua e letteratura persiana a Ca’ Foscari (Jouvence 2024, pp. 590, euro 30,00). Si tratta di trentasei testimonianze femminili, autobiografiche, raccolte dalla scrittrice e regista Zainab Entezar e riviste dallo scrittore afgano Asef Soltanzadeh, dapprima emigrato in Iran e ora residente in Danimarca. Le storie personali di queste donne sono in lingua dari (persiano). Ognuna con parole e stile propri, si racconta dall’infanzia fino alla primavera del 2022, quando Zainab Entezar decide di chiudere il progetto per motivi di sicurezza. Il comune denominatore di queste testimonianze sono la ribellione e il desiderio di libertà, che passano attraverso l’istruzione e il lavoro come strumenti di emancipazione.

Corredato da una cronologia storica di riferimento, Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afgane è una preziosa fonte di informazioni, di prima mano, sul significato di lotta contro i Talebani. Nel suo contributo, la docente universitaria e attivista Zahra Karimi (n. 1989-1990) scrive: «Il senso esatto di lotta era lo scorrere dell’acqua, che conteneva l’onda e il ruggito e che se si fosse fermata avrebbe ristagnato per sempre.

Le proteste delle donne erano iniziate a Kabul, Herat e Mazar-e Sharif e avevano creato quell’onda: se le donne non fossero rimaste ferme immobili per centinaia di anni prima di noi, ora quell’acqua scorrerebbe e sarebbe fresca». In questo contesto, continua Zahra Karimi, la protesta diventa un dovere: «Ero stata privata dei miei diritti e, se non avessi protestato, me ne avrebbero tolti ancora di più. Forse un giorno non avrei potuto più dire il mio nome da nessuna parte, mi avrebbero chiamata figlia di tizio, sorella di caio o madre del tal dei tali. Dopo qualche anno, avrei dimenticato io stessa il mio nome. Mi sarei trasformata in una palude».

 

 

SIRIA- KNK: Difendiamo il Rojava come 10 anni fa

retekurdistan.it 26 gennaio 2025

Rilasciando una dichiarazione in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS, il KNK (Congresso nazionale del Kurdistan) ha affermato: “Chiediamo oggi a tutta l’umanità di difendere il Rojava proprio come 10 anni fa”.

Il Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha pubblicato un messaggio in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS. Nella dichiarazione si afferma che gli attacchi contro la Siria settentrionale e orientale continuano anche oggi e lancia il messaggio: “Difendere il Rojava significa difendere l’umanità”.

Nella dichiarazione del KNK è stato sottolineato che la Rivoluzione del Rojava, iniziata il 19 luglio 2012, ha acquisito una nuova dimensione con Kobanê e sono state fatte le seguenti dichiarazioni: “Kobanê è la prima scintilla della Rivoluzione del Rojava e la bandiera di libertà contro le forze occupanti. La vittoria contro l’Isis il 26 gennaio 2015, con la solidarietà del popolo curdo e dei suoi amici, è la vittoria della dignità umana. “Questo successo storico non è solo una vittoria militare, ma anche una vittoria combattiva ottenuta grazie all’unità e alla determinazione del popolo curdo”.

La sconfitta dell’ISIS a Kobane

Nella dichiarazione, il KNK ha sottolineato che la vittoria di Kobanê è stato il primo grande passo nel crollo dell’ISIS e ha affermato: “La resistenza di Kobanê è passata alle pagine di storia come la prima grande sconfitta dell’ISIS. Questa vittoria è stata resa possibile dagli sforzi congiunti del popolo curdo e dei rivoluzionari del Rojava. La lotta per la libertà iniziata a Kobanê ha portato alla liberazione di molte regioni, inclusa Raqqa, che l’ISIS aveva dichiarato capitale. “In questo processo, i sacrifici delle YPG e delle YPJ, la solidarietà mostrata dal popolo curdo da tutto il mondo e il sostegno delle forze democratiche internazionali hanno reso possibile la vittoria”.

Difendere i valori comuni dell’umanità

La dichiarazione sottolinea che la Siria settentrionale e orientale deve ancora affrontare la minaccia di invasione e prosegue: “Dopo la sconfitta dell’ISIS, lo Stato turco ha preso di mira direttamente il Rojava. Regioni come Afrin, Girê Spî e Serêkaniyê sono un chiaro esempio delle politiche di occupazione della Turchia. Oggi Kobanê e la zona circostante la diga di Tishrin sono sotto attacco. Non va però dimenticato che difendere il Rojava significa difendere non solo il popolo curdo, ma anche i valori comuni dell’umanità. Lo spirito di resistenza che sale da Kobanê è la speranza di libertà per il Kurdistan e per l’umanità. Le conquiste della rivoluzione del Rojava devono essere protette e la resistenza di Kobanê deve essere sempre ricordata. Oggi, proprio come 10 anni fa, invitiamo il nostro popolo, i nostri amici e tutta l’umanità a difendere il Rojava. “In questa occasione celebriamo ancora una volta l’anniversario della vittoria di Kobanê e della fondazione dei cantoni del Rojava.”

 

Il ministro degli Esteri iraniano incontra i talebani a Kabul per la prima volta da otto anni

euronews.com 27 gennaio 2025

Purtroppo si allarga il consenso internazionale al governo talebano”

Abbas Aragchi ha parlato con i leader talebani delle tensioni al confine, dei rifugiati afghani in Iran e del trattato sull’acqua del fiume Helmand

L’Iran ha dichiarato di sperare di migliorare i legami economici e le relazioni bilaterali con l’Afghanistan, durante la prima visita di un ministro degli Esteri iraniano a Kabul da otto anni a questa parte.

Abbas Aragchi, ministro degli Esteri di Teheran, ha avuto colloqui con alti funzionari talebani nella capitale afghana domenica, con discussioni incentrate sulle tensioni ai confini, sul trattamento dei rifugiati afghani in Iran e sulle dispute sui diritti idrici.

Il diplomatico iraniano ha incontrato il primo ministro afghano ad interim Hassan Akhund, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi e il ministro della Difesa Mohammad Yaqoob.

Aragchi ha espresso la speranza di un rafforzamento dei legami economici e di un miglioramento delle relazioni bilaterali, riconoscendo gli “alti e bassi” nei rapporti tra i Paesi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Irna.

In una dichiarazione condivisa dai talebani, Aragchi ha anche affermato che l’Iran si è impegnato per il ritorno dei circa 3,5 milioni di rifugiati afghani che vivono in Iran.

Il primo ministro afghano ha esortato Teheran a trattare i suoi rifugiati con dignità, avvertendo che un tentativo di rimpatrio su larga scala non è possibile al momento.

Ha aggiunto che incidenti come l’esecuzione di afghani in Iran hanno acuito le tensioni.

Sebbene l’Iran non riconosca formalmente il governo talebano, che ha assunto il controllo dell’Afghanistan nel 2021 dopo il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, Teheran mantiene relazioni politiche ed economiche con Kabul.

L’Iran ha anche permesso ai Talebani di mantenere l’ambasciata afghana a Teheran.

Turchia: possibile accordo coi Curdi

I due principali parlamentari della comunità curda in Turchia Sirri Sureyya Onder e Pervin Buldan.

Settimana NEWS, 23 gennaio 2025, di Riccardo Cristiano

Alle volte la storia riparte da dove si era interrotta. Così la storia del pluralismo “mediorientale” potrebbe ripartire dalla Turchia. Forse, con molti punti interrogativi, il complesso mondo mediorientale arabo e turco potrebbe vedere un nuovo pluralismo prendere le mosse dall’Anatolia – prima testimone di un nazionalismo malato.

Parliamo di Paesi complessi, quali sono la Turchia, la Siria, il Libano, l’Iraq.

Nazionalismo arabo vs. colonialismo europeo
Per quanto esistano idee diverse al riguardo del genocidio armeno, è innegabile il ruolo cruciale che vi svolsero i nazionalisti che presero proprio allora il potere, i Giovani Turchi. Così a cavallo tra le due guerre mondiali si è diffuso un nazionalismo che si è definito in queste aree diverse, ma da una storia comune in reazione al colonialismo europeo.

Se in Turchia ne sono stati caposaldo i Giovani Turchi, nel mondo arabo ne sono stati espressione i pan-arabisti, che volevano la nazione degli arabi, ossia di coloro che parlano arabo. Scivolata dalle mani dei grandi intellettuali in quelle di possenti generali, l’idea di nazione è parsa respingere ogni complessità: una nazione ha una lingua, un’etnia, un capo. Ci possono essere state delle parziali eccezioni, o delle aggiunte, ma l’unicità è stata un forte collante.

La storia è stata feroce, o atroce, con quelle che chiamiamo minoranze e che, invece, dovrebbero essere ricchezze di un territorio: etniche e religiose. Oggi i curdi ne sono una nota vittima, perché si tratta non di etnia turca in Turchia, non di etnia araba in Siria e Iraq. Altre ce ne sono.

Ora, sorprendentemente per il momento che il mondo sta vivendo e che sembra caratterizzato da idee molto strette di cosa sia una “nazione”, per i curdi sarebbe alle porte il possibile inizio di una pagina nuova, che se funzionasse potrebbe essere foriera di grandi novità anche in Siria, Paese dove ai curdi era proibito anche il passaporto. Questo avrebbe peso per tutti, non solo per i curdi: si comincerebbe a pensare diversamente a cosa sia una nazione? Intanto parliamo dei fatti.

Curdi turchi: lungo colloquio con Ocalan
I due principali parlamentari turchi appartenenti alla comunità curda, Pervin Buldan e Sirri Sureyya Onder (del partito DEM), si sono intrattenuti per quattro ore con Ocalan: il doppio del tempo trascorso con lui a dicembre nel penitenziario di massima sicurezza dove è detenuto da 26 anni, cioè dal secolo scorso, in isolamento. DEM pubblicherà presto un comunicato ufficiale.

Fonti autorevoli, citate dal sito specializzato sul Medio Oriente al-Monitor, hanno però fatto capire ufficiosamente il percorso che si delinea. Il 15 febbraio prossimo, 26esimo anniversario della sua cattura, Ocalan potrebbe chiedere, in particolare al suo PKK, di deporre le armi e annunciare la fine della lotta armata. Contemporaneamente la Turchia porrebbe fine alla detenzione in regime di isolamento cui Ocalan è sottoposto da così tanti anni, libererebbe i politici e attivisti curdi più noti, a cominciare dal leader di DEM Selahattin Demitras, e accantonerebbe la sua contrarietà a un’autonomia de facto curda – secondo forme e criteri sin qui non divulgati.

L’accordo coinvolgerebbe anche l’azione politica dei curdi in Siria, dove il partito di Ocalan, il PKK, è molto presente, combattendo contro i turchi che bombardano anche villaggi curdi. Anche qui la linea sarebbe la stessa: cessazione delle ostilità in presenza di una rinnovata e riconosciuta forma di autonomia non belligerante con le istituzioni centrali siriane.

L’ottimismo però deve fare i conti con la storia. Un appello a favore della pace e della partnership strategica tra turchi e curdi, Ocalan lo aveva già fatto proprio il 21 marzo del 2013. Ma negli anni successivi i negoziati tra Erdogan e DEM fallirono. Il leader turco si alleò con la destra nazionalista, anche quella estrema, per resistere. Ora però uno dei più noti esponenti del nazionalismo estremo turco, Umit Ozdag, è stato arrestato – probabilmente per impedirgli di organizzare eventi ostili all’intesa.

Le ambizioni di Erdogan e la fine del conflitto turco-curdo
Nel retrobottega della politica si considera che se Erdogan perseguirà davvero questa strada, potrebbe considerare di aver posto termine a un conflitto gravissimo e lunghisismo, dimettersi da Presidente e, in virtù della Costituzione che gli impedirebbe di ricandidarsi se completasse il suo secondo mandato, ricandidarsi perché dimessosi in anticipo e così sperare di essere rieletto.

Quanto conseguito gli darebbe la speranza di vincere, soprattutto se la pacificazione della Siria fosse effettiva e parte dei tantissimi profughi siriani potesse cominciare a scegliere di rientrare in patria, anche considerato quanto i nazionalisti turchi gli rendano difficile la vita in Turchia. Calcoli ottimisti? Va ricordato che alle recenti presidenziali Erodgan fu rieletto per pochissimi voti e i curdi sostennero il suo sfidante. In questo caso potrebbero almeno non correre in massa alle urne. Altri dicono che Erdogan vorrebbe cambiare la Costituzione sulla rieleggibilità, con il sostegno dei curdi.

Le ricadute sulla Siria
Il capitolo siriano non è certo irrilevante, visto che lì i turchi e i curdi si combattono aspramente, soprattutto con le parti di milizie curde legate al PKK turco. Ma per favorire l’intesa è sceso in campo il leader dei curdi iracheni, Barzani, che proprio in questi giorni si è incontrato con la sua controparte in Siria, il leader curdo Kobane. Il destino degli aderenti curdi di origini turche aderenti al PKK rimane incerto, per i miliziani siriani si prefigurerebbe un ingresso nell’esercito siriano, come auspicato dal leader de facto siriano Ahmad al Sharaa.

Sarà chiesta l’espulsione dei curdi turchi in armi dalla Siria? Di questo si sa solo che la questione è stata sollevata, non è noto con quali possibili risultati. E questo punto sembra difficile per le molte difficoltà operative e tecniche. I dettagli da chiarire, non irrilevanti, sono moltissimi.

L’importanza di questo accordo per la Siria è enorme: non solo perché i curdi sono circa il 12% dell’attuale popolazione siriana, ma perché si aprirebbe una prospettiva nuova per la Siria. I timori più noti riguardano i gruppi jihadisti come l’Isis, contro i quali i curdi combattono da anni e il loro ingresso nell’esercito siriano gli darebbe credibilità come forza nazionale e anti jihadista al cospetto di tutti coloro che, da varie milizie, ancora oggi hanno dubbi al riguardo.

Sarebbe un rafforzamento del governo centrale, ma con un’impostazione non centralista, il che aiuterebbe a dar forma a un Paese plurale: non una sommatoria di pezzi disconnessi tra loro, ma neanche una “dittatura” di una forza che si impone sulle altre.

Una nuova prospettiva per il Medio Oriente
Se così andranno le cose, e soprattutto se andassero bene, sia la Turchia che la Siria troverebbero una stabilità tutta nuova: ossia, l’idea che lo Stato sia proprietà di un gruppo etnico sotto un capo indiscutibile, o di una sola comunità di credenti, si comincerebbe a modificare e questo potrebbe a nuove amicizie, a Stati non ostili l’uno all’altro e senza più, almeno in prospettiva, cittadini di “serie b”.

Questo si incrocia con i cambiamenti che stanno emergendo dal Libano e che potrebbero dare linfa nuova all’idea di Stato plurale. Non si tratta di “cantonalizzare” un Paese, ma di creare uno Stato che li consideri cittadini uguali di diverse identità religiose che devono servire insieme l’interesse comune.

È quello che un sorprendete premier, Nawaf Salam, giurista formatosi tra Harvard e Sorbona, sta cercando di fare, togliendo ai partiti il potere di scegliere i ministri: “saranno delle diverse comunità di fede per rappresentare tutti, ma scelti da me e votati da tutto il Parlamento” – non da un solo partito, quello che li designa. Ci riuscirà?

Sembra difficile, ma se già riuscisse a cominciare a muovere qualche passo in questa direzione darebbe un colpo durissimo a tutte le famiglie feudali che si sono impossessate della rappresentazione delle comunità religiose, ridando smalto alla politica. E a quel punto i nuovi rapporti con la nuova Siria potrebbero immaginarsi. Forse…

Analisi. Non solo Afghanistan: l’apartheid di genere “merita” di diventare un crimine

Avvenire, 24 gennaio 2025, di Antonella Mariani

Segretate, private dei diritti di istruzione, del lavoro e della libertà di movimento: a che punto è il percorso per introdurre il nuovo reato nel diritto internazionale e che problemi sta incontrando

Le ragazze e le donne afghane sono segregate, imprigionate nei burqa. A loro è vietato studiare, lavorare fuori casa, muoversi da sole, perfino parlare a voce alta e cantare. Che cos’è, se non apartheid? Anzi, più precisamente, apartheid di genere. Sfortunatamente, questa fattispecie non esiste nell’ampio repertorio dei crimini contro l’umanità che si è sviluppato negli ultimi decenni. Tra i giuristi internazionali è sempre più diffusa la convinzione che sia arrivato il momento di codificarlo, nominarlo e dunque farlo esistere, non solo per prendere atto di una realtà inedita e sconvolgente che avviene in alcune parti del mondo e in particolar modo in un Paese, l’Afghanistan, pressoché uscito dai radar dell’attenzione mediatica, ma anche per fornire ai gruppi della resistenza all’estero, ai Tribunali e alle istituzioni internazionali uno strumento supplementare per combattere questa massiccia violazione dei diritti umani.

Tra i principi base del diritto internazionale c’è l’uguaglianza di genere, garantita da diversi corpi normativi (la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, quella sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1970, i patti internazionali sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del 1966, la Convenzione sulla parità di retribuzione nel 1951… ).

Solo nel 1973, per entrare in vigore due anni e mezzo più tardi, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione internazionale sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid, poi recepita e ampliata dallo Statuto di Roma del 1998, che ha regolato l’attività della Corte penale internazionale dell’Aja.

Ma ovviamente, poiché la definizione è stata plasmata sulla drammatica esperienza del segregazionismo in Sudafrica, la fattispecie in realtà si concentra sulla discriminazione basata sulla razza. Quello che sta avvenendo in Afghanistan, e, in modo diverso, in Iran e in aree specifiche di Paesi come il Sudan o la Siria, ha caratteristiche diverse: si tratta della negazione di decine di diritti essenziali in base alla semplice constatazione di essere nate donne.

La codificazione del crimine di apartheid di genere, di cui peraltro le attiviste afghane parlano da decenni, fin dal primo governo dei taleban degli anni Novanta, servirebbe a mettere in evidenza la sistematicità e la gravità della discriminazione che colpisce le ragazze e le donne in alcuni Paesi del mondo. « Non solo – interviene l’esperta Laura Guercio -: questo rafforzerebbe il quadro giuridico internazionale, consentendo indagini e azioni penali più efficaci. E ne gioverebbe la lotta per sradicare i regimi istituzionalizzati di oppressione».

Laura Guercio è un’avvocata, docente universitaria, già segretaria generale della Commissione interministeriale per i diritti umani alla Farnesina. Ora ha prestato la sua competenza al Cisda, lo “storico” Coordinamento che dal 1999 sostiene le donne afghane e che il 10 dicembre scorso ha lanciato una petizione per il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Gli elementi chiave della definizione proposta dal Cisda sono «la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione». Così come l’apartheid razziale, quello basato sul genere viene attuato con politiche che «escludono sistematicamente gli individui in base al genere dalla piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica, rafforzando le strutture di dominio».

La petizione del Cisda è stata accolta anche dal Parlamento italiano, grazie a una decisiva opera di sensibilizzazione di Laura Boldrini, deputata Pd e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo. Il 27 novembre scorso la Commissione esteri della Camera ha approvato all’unanimità una risoluzione, a prima firma Boldrini e sostenuta da tutto il gruppo del Pd, che impegna il governo ad appoggiare l’introduzione del reato di “segregazione di genere” nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu. «Con l’approvazione della nostra risoluzione – spiega Laura Boldrini -, l’Italia prende una posizione chiara e inequivocabile: la segregazione delle donne, la loro esclusione da qualsiasi forma di vita sociale, il divieto perfino di cantare, parlare e pregare in pubblico, diventi “crimine contro l’umanità” riconosciuto dall’Onu».

Il procuratore della CPI chiede mandati di arresto per due leader talebani in Afghanistan

Reuters, 23 gennaio 2025, di Stephanie van den Berg

L’AIA, 23 gennaio (Reuters) – Il procuratore della Corte penale internazionale ha dichiarato giovedì di aver richiesto mandati di arresto per due leader talebani in Afghanistan, tra cui il supremo leader spirituale Haibatullah Akhundzada, accusandoli di persecuzione di donne e ragazze.
In una dichiarazione rilasciata dall’ufficio del procuratore capo Karim Khan si afferma che gli inquirenti hanno trovato fondati motivi per ritenere che Akhundzada e Abdul Hakim Haqqani, che ha ricoperto la carica di giudice capo dal 2021, “abbiano la responsabilità penale per il crimine contro l’umanità di persecuzione per motivi di genere”.

Sono “penalmente responsabili della persecuzione delle ragazze e delle donne afghane… e delle persone che i talebani consideravano alleate delle ragazze e delle donne”, si legge nella dichiarazione.
Secondo il procuratore, in tutto l’Afghanistan si sono verificate persecuzioni almeno dal 15 agosto 2021, giorno in cui le forze talebane hanno conquistato la capitale Kabul, fino ad oggi.
Da quando il gruppo islamista è tornato al potere nel 2021, ha represso i diritti delle donne, tra cui limitazioni all’istruzione, al lavoro e all’indipendenza generale nella vita quotidiana.

I leader talebani non hanno rilasciato dichiarazioni immediate in merito alla dichiarazione del procuratore, accolta con favore dai gruppi che difendono i diritti delle donne.
Ora spetterà a un collegio di tre giudici della CPI pronunciarsi sulla richiesta di accusa, che non ha una scadenza stabilita. Tali procedure richiedono in media tre mesi.
È stata la prima volta che i procuratori della CPI hanno chiesto pubblicamente mandati di cattura per la loro indagine su potenziali crimini di guerra in Afghanistan, che risale al 2007 e un tempo includeva presunti crimini commessi dall’esercito statunitense in quel Paese.

PERSECUZIONE DELLE RAGAZZE
Khan ha affermato che il suo ufficio stava dimostrando il proprio impegno nel perseguire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di genere e che l’interpretazione della sharia islamica da parte dei talebani non poteva essere una giustificazione per violazioni o crimini dei diritti umani.
“Le donne e le ragazze afghane, così come la comunità LGBTQI+, stanno affrontando una persecuzione senza precedenti, inaccettabile e continua da parte dei talebani. La nostra azione segnala che lo status quo per le donne e le ragazze in Afghanistan non è accettabile”, ha affermato il procuratore.

Zalmai Nishat, fondatore dell’ente benefico Mosaic Afghanistan con sede nel Regno Unito, ha affermato che se venissero emessi mandati di cattura della CPI, ciò potrebbe avere scarso impatto su Akhundzada, che raramente viaggia fuori dall’Afghanistan.
“Ma in termini di reputazione internazionale dei talebani, questo significa sostanzialmente una completa erosione della loro legittimità internazionale, se mai ne avessero una”, ha affermato.

TRIBUNALE IN CRISI
La mossa di Khan è avvenuta in un momento di crisi esistenziale presso il tribunale, istituito all’Aia nel 2002 per processare gli individui accusati di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione.
L’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump sta preparando nuove sanzioni economiche nei suoi confronti per aver emesso un mandato di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per presunti crimini a Gaza.
Mosca ha risposto al mandato di cattura emesso dalla CPI nel 2023 contro il presidente russo Vladimir Putin, emettendo un proprio mandato di cattura per Khan.
Nonostante la recente serie di mandati di arresto di personaggi di alto profilo, le aule dei tribunali dell’Aia sono praticamente vuote e Khan è indagato per presunta condotta sessuale inappropriata sul posto di lavoro, cosa che lui nega.

La CPI non ha una forza di polizia e fa affidamento sui suoi 125 stati membri per effettuare arresti. Ma diversi stati membri europei hanno espresso dubbi sulla detenzione di Netanyahu e questa settimana l’Italia ha arrestato un sospettato della CPI, ma non è riuscita a consegnarlo .

[Trad. automatica]

Un cittadino afghano e due statunitensi sono stati liberati in uno scambio di prigionieri

Il Post. 21 gennaio 2025 Martedì gli Stati Uniti e il regime dei talebani in Afghanistan hanno reso noto uno scambio di prigionieri in cui due cittadini statunitensi detenuti in Afghanistan sono stati liberati in cambio di un cittadino afghano condannato e detenuto negli Stati Uniti per accuse di narcotraffico e terrorismo. Lo scambio è avvenuto anche grazie alla mediazione del Qatar.

Il primo cittadino statunitense liberato si chiama Ryan Corbett ed era stato arrestato in Afghanistan ad agosto del 2022 durante un viaggio di lavoro. Nelle prime ore di martedì la sua famiglia ha diffuso un comunicato in cui ringraziava sia l’amministrazione di Biden che la nuova di Trump. Il secondo prigioniero liberato si chiama William Wallace McKenty e di lui non si sa praticamente niente dato che la sua famiglia aveva chiesto per il suo caso estrema riservatezza.

Il cittadino afghano liberato si chiama Khan Mohammed: stava scontando l’ergastolo negli Stati Uniti dopo essere stato condannato nel 2008 per narcotraffico e terrorismo. Mohammed era stato arrestato mentre combatteva con i talebani in Afghanistan e poi estradato negli Stati Uniti, dove era stato condannato per l’accusa di aver gestito un carico di eroina e oppio che era diretto negli Stati Uniti. Secondo il tribunale il traffico di droghe in cui era coinvolto Mohammed aveva favorito le attività dei gruppi terroristici afghani: al tempo il dipartimento di Giustizia disse che si trattava della prima condanna negli Stati Uniti in base alle leggi sul narcoterrorismo.

ROJAVA: 10 ANNI DOPO KOBANE, MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE IN DIFESA DEL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO. SABATO 25 GENNAIO PRESIDIO A MILANO

Radio Onda d’Urto, 21 gennaio 2025

L’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord-est (Daanes) e l’esperienza del confederalismo democratico sono sotto attacco. Da fine novembre – dall’inizio dell’offensiva con cui Hayat Tahrir al Sham ha rovesciato il regime di Assad e preso il potere a Damasco – il sedicente Esercito nazionale siriano, supportato dall’esercito turco, cerca di invadere i territori della rivoluzione confederale. Negli ultimi giorni, droni e caccia di Ankara hanno bombardato di nuovo la diga di Tishreen nonostante la presenza di un presidio di civili a supporto della resistenza armata della Forze siriane democratiche. Gli attacchi hanno causato almeno 10 morti tra i civili, decine di feriti.

Il 26 gennaio 2025 ricorre il decimo anniversario della liberazione della città di Kobane, simbolo della rivoluzione in Rojava, dopo 120 giorni di resistenza da parte delle Ypg e Ypj contro l’occupazione da parte di Daesh (Isis). In occasione di questa ricorrenza, e di fronte alla situazione attuale, il movimento di liberazione curdo ha chiamato alla solidarietà internazionale per difendere il Rojava e la sua esperienza rivoluzionaria rompendo il silenzio della comunità internazionale sui crimini commessi dallo stato turco.

A Milano, sabato 25 gennaio 2025 appuntamento alle ore 14 in piazza San Babile per il presidio “Defend Rèjava”.

Di seguito il comunicato di Rete Kurdistan Italia, Uiki Onlus e Associazione Confederalismo Democratico Kurdistan di Milano:

DEFEND ROJAVA

La Rivoluzione del Rojava, che ha dato vita a un modello di convivenza pacifica, democrazia diretta e autodeterminazione, è oggi in grave pericolo.

L’escalation di violenza provocata dall’offensiva dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), con il supporto della Turchia, minaccia l’esistenza stessa di questo progetto di speranza e libertà. Dopo la presa di Aleppo, l’SNA ha occupato Tal Rifaat e Shebah, costringendo circa 200.000 civili a fuggire dalle loro case.

La Turchia, con il suo sostegno a queste forze, sta attaccando non solo la popolazione curda, ma anche i valori di libertà, giustizia e parità che la Rivoluzione del Rojava ha incarnato.

La resistenza curda contro l’ISIS è stata un faro di speranza per la Siria e per il mondo intero. Ora, con l’intensificarsi delle violenze, è essenziale non abbassare la guardia. La fine del regime di Bashar al-Assad potrebbe aprire un nuovo capitolo per la Siria, ma affinché si costruisca una Siria inclusiva e democratica, è fondamentale difendere la Rivoluzione del Rojava e il diritto dei suoi popoli a partecipare attivamente alla sua rinascita.

10 anni fa, il 26 gennaio 2015, avveniva la liberazione di Kobane, città curdo-siriana strappata dalle milizie popolari curde dello YPG e dello YPJ all’ISIS, il sedicente Califfato Islamico, dopo oltre 134 giorni di resistenza, costata duemila vite tra le fila delle milizie di difesa popolare.

Invitiamo tutti gli amici del popolo curdo e della rivoluzione del Rojava a scendere in piazza per difendere il modello di democrazia diretta e coesistenza pacifica che ha preso vita in questa regione, e per denunciare l’aggressione in corso. La loro resistenza è stata la nostra speranza, ora la nostra resistenza è la loro speranza: la rivoluzione del Rojava non può essere distrutta.

Presidio

Sabato 25 gennaio 2025

Ore 14.00 – Piazza San Babila, Milano