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Autore: Patrizia

Comunicato L’apartheid di genere ci riguarda

“Apartheid di genere” (ADG) è stata la parola chiave della conferenza stampa che l’8 aprile il Cisda ha convocato presso la sala stampa del parlamento per illustrare la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e la petizione al governo italiano – finora firmata da 2000 persone e 80 associazioni, ma è ancora possibile aderire – che chiede l’intervento attivo dell’Italia sia nel riconoscimento che in Afghanistan è in atto un sistematico e intenzionale ADG, sia nel sostegno del reato specifico di ADG nella Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in preparazione all’ONU e che sarà in discussione all’Assemblea degli Stati nel 2026/27.

Una giornata importante per la nostra campagna, che nel pomeriggio si è concretizzata con la presentazione al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove sono intervenuti/e rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni.

Dopo la presentazione del Cisda che ha ripercorso la situazione attuale in Afghanistan e spiegato le motivazioni della campagna e della petizione al governo italiano, è intervenuta Belquis Roshan, ex parlamentare dell’Afghanistan ora rifugiata in Europa, ricordando che le donne afghane sono sottoposte a condizioni di vita orrende sotto il regime fondamentalista del suo paese. Alle donne è vietato lavorare e le ragazze, che non possono più frequentare la scuola, sono costrette, ancora giovanissime, a sposare i talebani, nell’immobilismo della maggior parte dei governi del mondo che si limitano a dichiarare il loro rammarico ma senza fare nulla, mentre gli Usa continuano a finanziare il governo talebano per difendere i loro interessi economici e strategici.

Lo sforzo che si sta facendo per il riconoscimento dell’ADG subito dalle donne afghane è importante – ha inoltre affermato Roshan – e dimostra un’alleanza sincera con le donne afghane.

Anche se sappiamo che molti governi hanno dimostrato di ignorare e calpestare i trattati internazionali e le risoluzioni delle Nazioni Unite, com’è avvenuto per i mandati di arresto verso personaggi politici che sono rimasti inapplicati senza che alcun governo abbia alzato la voce contro quei criminali e mentre Haqqani veniva vergognosamente graziato, il riconoscimento dell’ADG sarà un importante traguardo per le donne, la legalizzazione dei loro diritti e delle loro lotte.

Inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani

Ci sono voluti 45 anni, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, perché anche i diritti delle donne fossero dichiarati inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani, nel 1993 con la Dichiarazione della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna.

Poiché le convenzioni fra gli stati e le leggi esistenti riconoscono i diritti delle donne e dei bambini solo in situazione di guerra, e il crimine di Persecuzione di genere non è sufficiente a difendere le donne perché può essere applicato solo se connesso con altri crimini, è necessaria una Convenzione dell’ONU sui crimini contro l’umanità che contempli specificatamente il reato di Apartheid di genere, che è l’unico che può definire esaurientemente la situazione di segregazione e persecuzione che subiscono le donne in quanto genere nei paesi fondamentalisti e in particolare in Afghanistan, il più emblematico tra tutti.

Questo ha spiegato la giurista Laura Guercio, relatrice intervenuta alla conferenza stampa per illustrare la definizione di ADG redatta con il Cisda e inviata alla 6° Commissione dell’Onu incaricata di preparare i lavori della Convenzione con il contributo anche della società civile e dell’associazionismo. Definizione che ha già avuto un importante riscontro di apprezzamento da parte degli incaricati dell’ONU.

Ma la nostra Campagna non si limita a questo: chiede che il governo italiano, coerentemente con i trattati per la difesa delle donne e dei diritti umani sottoscritti dall’Italia, neghi il riconoscimento giuridico e di fatto al governo fondamentalista dei talebani, impedisca loro l’agibilità politica nei consessi internazionali e si associ all’azione degli Stati nella denuncia ai Tribunali internazionali.

La Conferenza stampa ha visto la partecipazione e il sostegno dei parlamentari Livia Zanella e Francesca Ghitta di AVS, Valentina Ghio del PD, Oscar Scalfarotto di Italia Viva, oltre a Marilena Grassadonia della Segreteria Nazionale di Sinistra Italiana, che hanno dichiarato la loro disponibilità a farsi carico degli obiettivi della Campagna con iniziative presso il Parlamento.

Finché non saranno diritti per tutte, i nostri saranno solo privilegi

Molto interessante è stato anche il dibattito proposto da CISDA nel pomeriggio al Polo Civico Esquilino. A esporre le loro esperienze e le tematiche di riflessione relative al fondamentalismo religioso e politico e alle ripercussioni sulla vita e i corpi delle donne, accanto a Belquis Roshan c’erano alcune rappresentanti dell’associazionismo: l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, Celeste Grossi dell’ARCI, Mirella Mannocchio della Federazione italiana delle donne evangeliche, Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.


In questo incontro Belquis ha avuto modo di raccontare con maggiore libertà e tempo la sua vita, iniziata durante la guerra che ha ucciso milioni di afghani e proseguita prima in Iran poi in Pakistan. Tornata in Afghanistan con la promessa degli Usa di ristabilire la democrazia, decide di impegnarsi in politica e vince varie elezioni fino a diventare parlamentare nel 2018, unica rappresentante a opporsi al patto di sicurezza con gli Usa, considerato paese invasore, e a opporsi alla liberazione delle migliaia di terroristi talebani nel 2020.

Costretta a lasciare il paese nel 2021, vive attualmente in Germania dove rappresenta la comunità afghana e lavora a sostegno delle donne afghane.

Parlando del suo paese, dice che il corpo delle donne afghane è un campo di battaglia tra Occidente e talebani, oggetto di trattativa per ottenere riconoscimento e fondi. Il governo talebano riceve sostegno economico da tutti i paesi del mondo, ma se questi aiuti non arrivassero non resisterebbe un solo giorno. Il fondamentalismo è uno strumento nelle mani occidentali per portare avanti i propri interessi geopolitici ed economici in alcune parti del mondo. “Solo con la solidarietà internazionale possiamo sopravvivere e combattere insieme le guerre nel mondo”.

Mayswon Majidi, imprigionata in Italia con l’assurda accusa di essere una scafista, e poi scagionata, ha parlato della sua esperienza di vita e di lotta con le donne curde contro il regime iraniano, lotta che è diventata globale perchè l’ADG è diffuso in tutti i Paesi anche se in forme meno evidenti. In Italia il patriarcato si manifesta con i femminicidi, in Iran con la repressione politica e la sharia. Tutte le situazioni sono legate e bisogna trovare una soluzione mondiale, fare alleanze per la pace fra tutte le donne facendo crescere in loro la consapevolezza dei loro diritti e delle loro capacità.

Mirella Mannocchio, pastora metodista presidente della FDEI, network di donne e organizzazioni appartenenti alle chiese evangeliche, da anni si impegna nella lettura della bibbia secondo una visione femminista e nella sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le donne.

Il termine fondamentalismo è nato all’interno del cristianesimo, da cui poi sono derivati tutti i fondamentalismi. L’idea che la donna deve avere il corpo coperto proviene dall’ambito religioso, è legata al bisogno maschile di controllare il corpo femminile che riproduce la vita, capacità interdetta all’uomo. Nelle prime comunità cristiane alle donne veniva riconosciuto un ruolo di potere, ruolo perduto con l’istituzionalizzazione del cristianesimo. Da qui la necessità di recuperare una diversa interpretazione della bibbia e dei testi.

Celeste Grossi, della segreteria nazionale dell’Arci, ha spiegato che la sua associazione fin da subito ha sostenuto la campagna contro l’ADG e sostiene le donne iraniane e afghane anche con corridoi umanitari e case rifugio. Questo non per altruismo ma nella consapevolezza che finché i diritti non saranno per tutte, i nostri sono solo privilegi. “Siamo immerse nella cultura patriarcale e abbiamo atteggiamenti patriarcali. In alcuni luoghi il patriarcato è sistematico, in altri, come qui da noi, i diritti si stanno perdendo e quindi non dobbiamo accomodarci perché i diritti non sono per sempre. Bisogna sostenere le lotte di tutte, non sono le nostre lotte, sono le nostre lotte insieme alle loro e le loro insieme alle nostre”.

Lorena Di Lorenzo ha parlato dell’Afghanistan che è in Italia, quello delle migranti afghane. L’associazione, nata sul binario 15 della Stazione Ostiense, dove arrivavano e ripartivano i migranti afghani prevalentemente maschi, è ora un luogo di amicizia e di scambio paritario con un’ottantina tra donne e bambini, con funzione ponte tra i bisogni delle immigrate e i servizi del territorio e in dialogo con chi è rimasto là.

Dal 2021 stanno arrivando donne diverse, che sono scomode in Afghanistan perché contro corrente. Costrette in un sistema di assistenza frammentario e carente, rimangono deluse nelle loro aspettative e molte se ne vanno via. Bisogna parlare di cosa manca alle donne qui e non solo in Afghanistan, far accogliere un approccio di genere nelle politiche migratorie che colga la complessità dei loro bisogni e competenze.

Il lungo incontro è stato seguito con interesse e ha visto la presenza nel pubblico di diverse donne afghane immigrate in Italia da più o meno anni interessate ad avere un confronto con chi, come Belquis, è uscita dal paese in tempi recenti e ha avuto un ruolo di donna leader nel precedente sistema. Una giusta occasione per chi è sempre stata costretta a stare in silenzio.

Evento CISDA Roma 8 aprile 2025 sulla Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere

Incontro organizzato da CISDA presso il Polo Civico Esquilino di Roma. A esporre le loro esperienze e le tematiche di riflessione relative al fondamentalismo religioso e politico e alle ripercussioni sulla vita e i corpi delle donne, accanto a Belquis Roshan c’erano alcune rappresentanti dell’associazionismo: l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, Celeste Grossi dell’ARCI, Mirella Mannocchio della Federazione italiana delle donne evangeliche, Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.

Intervista ad Antonella Garofalo sulla campagna Stop fondamentalismi Stop apartheid di genere

L’8 aprile si sono tenuti a Roma due eventi per fare il punto sulla campagna lanciata da Cisda lo scorso 10 dicembre. Nell’intervista l’attivista Antonella Garofalo spiega i punti principali della campagna a margine della conferenza stampa presso la Camera dei deputati

Comunicato – Il governo italiano si impegni contro l’Apartheid di genere

Le notizie di guerra e le preoccupazioni che riempiono i media in questo periodo concorrono a far sembrare ancora più lontano l’Afghanistan e più invisibili le donne sottoposte all’apartheid di genere imposto dai talebani.

Ma le donne afghane non hanno mai smesso di resistere coraggiosamente contro le farneticanti imposizioni di quel governo fondamentalista, non perdendo la speranza nonostante la progressiva completa chiusura di ogni spazio di vita, inventando sempre nuovi modi di aggirare le leggi per sfamare le loro famiglie, studiando di nascosto e leggendo insieme nel chiuso delle loro case e online, continuando a farsi belle sotto il burqa e, più semplicemente, rimanendo in vita nonostante tutti i tentativi di annientarle.

Sebbene i diritti delle donne e delle ragazze afghane siano sempre più esclusi dai problemi che contano per i governi e le istituzioni internazionali – a maggior ragione in questo periodo che vede piccole e grandi potenze impegnate a far diventare normalità quel regime repressivo e violento – alcuni segnali positivi ci sono.

Infatti, oltre ai movimenti democratici e per i diritti umani, sono ormai moltissime le istituzioni internazionali che riconoscono che in Afghanistan è in atto un vero e proprio sistema di apartheid di genere, e alcuni Stati hanno intrapreso azioni per denunciare quel regime ai tribunali internazionali per il mancato rispetto dei trattati che regolano i diritti umani riconosciuti universalmente e dallo stesso Afghanistan.

Perciò crediamo sia doveroso pretendere che anche il nostro governo si impegni in questa direzione, perché lo Stato italiano ha sottoscritto insieme a  molti altri paesi diverse convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne: la convenzione ONU del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne ( CEDAW), il patto internazionale ONU relativo ai diritti civili e politici del 1966, la convenzione europea del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, atti internazionali che pongono a carico dello Stato italiano obblighi a cui non può sottrarsi di fronte alle gravissime violazioni subite dalle donne a livello internazionale.

Il CISDA sollecita quindi con urgenza il governo italiano a un impegno concreto su tutti i fronti istituzionali affinché tali principi siano rispettati, in particolare:

  • negando il riconoscimento di diritto e di fatto al governo fondamentalista dei talebani
  • riconoscendo e denunciando che in Afghanistan è in atto un vero e proprio regime di Apartheid di genere
  • sostenendo l’introduzione del crimine di apartheid di genere nella Convenzione per i crimini contro l’umanità in discussione all’ONU
  • associandosi agli Stati che hanno denunciato i talebani e il loro governo ai Tribunali internazionali
  • impedendo l’agibilità politica ai talebani nei consessi internazionali

Il giorno 8 aprile 2025 il Cisda presenterà una PETIZIONE rivolta al governo con queste richieste attraverso una conferenza stampa in Parlamento (h 13 – Sala Stampa della Camera dei Deputati – Via della Missione 4, Roma), a cui seguirà nei giorni seguenti la consegna delle firme raccolte. 

Interverranno Laura Guercio, giurista del Cisda, Belqis Roshan, senatrice afghana in esilio, Morena Terraschi dell’ANPI provinciale di Roma e le parlamentari rappresentanti di diversi partiti che si sono impegnate a sostenerla.

Nel pomeriggio, sempre a Roma, la petizione sarà presentata al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove interverranno rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni. Ecco gli estremi dell’appuntamento:

8 aprile ore 17:30
Polo Civico Esquilino in via Galilei 57 – Roma

Hanno confermato la loro partecipazione oltre che la dott.sa Laura Guercio e Belqis Roshan, anche l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, la pastora metodista Mirella Manocchio e Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.

Speriamo che questi incontri siano occasioni di sensibilizzazione e conoscenza sul tema dell’apartheid di genere, che non riguarda solo l’Afghanistan ma invece, direttamente o in modo meno esplicito, anche le donne di molti altri Paesi, perché sempre più frequentemente i diritti delle donne sono calpestati da leggi fondamentaliste.

La consegna della petizione non sarà la conclusione della campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI.

Le nostre iniziative per i diritti delle donne afghane e contro l’apartheid di genere continueranno in diverse forme e con l’appoggio della rete di associazioni impegnate con noi a livello nazionale e internazionale.

Apartheid di genere

InGenere 10 gennaio 2025, di Marta Abbà

Crimini contro l’umanità. Solo il suono di queste parole fa incrinare l’animo, crea crepe, allarga quegli spiragli troppo sottili per far giungere “qui” l’atrocità di ingiustizie che vengono commesse altrove. Eppure, a livello di diritto internazionale ancora non esiste un preciso trattato che prevenga e sanzioni i crimini contro l’umanità.

Ora la sesta commissione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sta spingendo sull’acceleratore, anche per contrastare paesi come la Russia che ostacolavano i lavori. Il traguardo si intravede a cavallo tra il 2028 a 2029, e i primi passi per raggiungerlo vanno fatti adesso e bene. Inserendo da subito, nella definizione di crimine contro l’umanità, l’apartheid di genere. Non è qualcosa che possiamo dare per scontata né rimandare, ma deve comparire con l’esattezza dei dettagli che possano trasformare quest’azione in un’efficace leva del mondo legale per cambiare il mondo reale.

Insieme a un gruppo di giuriste, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda) ha cercato di sistematizzare il crimine di apartheid di genere con una definizione, lanciando la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere. Quello che possiamo fare noi, come cittadine e cittadini, è cercare di dare volti, significati, potenza e senso all’intento, leggendo, aderendo alla campagna di Cisda, o semplicemente dedicando del tempo a capirne le ragioni e crearci un’opinione indipendente ma consapevole. Ne abbiamo parlato con Patrizia Fabbri, attivista dell’associazione.

Quale definizione suggerite per identificare l’apartheid di genere?

Chiediamo di definire il crimine di apartheid di genere come “qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

Perché avete scelto proprio questa?

È fondamentale sottolineare che questi atti possono essere commessi anche da attori non statali, prima di tutto, perché esistono molte realtà dove ufficialmente lo stato contrasta l’apartheid di genere, ma lascia che gruppi non istituzionali, ma organizzati, commettano questo crimine. L’idea è quindi di includere il reato di omissione: in quanto garante dei diritti umani, lo stato è perseguibile anche quando omette di perseguire una condotta criminale in questo ambito. L’altro aspetto per noi importante da chiarire riguarda il soggetto passivo di questo crimine: abbiamo incluso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere. Questo significa riconoscere tutte le azioni violente di discriminazione anche nei confronti delle persone Lgbtqia+.

Con quale intento avete lanciato la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e a chi è rivolta?

Siamo partite con una raccolta firme per chiedere al governo italiano di sostenere tre obiettivi principali e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Il primo è il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, recependo la nostra definizione. Il secondo è il non riconoscimento né giuridico, né di fatto, del regime fondamentalista talebano in Afghanistan: infatti, se nessuno stato riconosce ufficialmente il governo talebano de facto, in realtà poi molti paesi intrattengono rapporti con il regime, per motivi logistici, geografici ed economici.

Che cosa sta accadendo in Afghanistan?

L’Afghanistan è un paese molto ricco di terre rare, ma è anche quello in cui il regime talebano sta attuando la soppressione dei diritti più elementari, soprattutto delle donne. Alle donne non è concesso frequentare la scuola oltre le elementari, lavorare, uscire di casa se non accompagnate da un uomo della famiglia. Non possono frequentare parchi, giardini e bagni pubblici, devono essere integralmente coperte in volto, non possono cantare né pregare ad alta voce. Ora i talebani sono arrivati a proibire loro di “ticchettare” quando indossano i tacchi: siamo veramente alla negazione della persona in quanto tale. La terza richiesta riguarda infatti il sostegno alle forze afghane anti fondamentaliste e democratiche: è particolarmente importante che avvenga, di pari passo con la condanna ai fondamentalismi. Il sostegno della laicità rappresenta l’unico vero e possibile argine alle barbarie commesse.

Da quali rischi ci può proteggere quest’azione?

Da quello di lasciare che i nostri governi appoggino una realtà che si ritiene il male minore, come potrebbe avvenire in Siria, per esempio. Pur gioendo della fuoriuscita di Assad, non va tralasciato il fatto che le forze del gruppo che ha preso il potere, l’HTS, sono forze fondamentaliste che erano alleate con Al Qaeda. Anche se si sono “dati una ripulita”, l’origine resta quella, e il terrore è che vengano sdoganati, lasciando che si formi una società basata su principi di nuovo fondamentalismo.

Puoi farci qualche altro esempio?

È un tema delicato e, proprio per questo, da non trascurare. L’Occidente, a mio avviso, nella maggior parte dei casi è in malafede e appoggia determinati gruppi perché potenti, ma anche quando non lo è, non bada alla provenienza di determinati personaggi, gruppi o associazioni. E in certi contesti non si può essere superficiali, non si può pensare di aiutare alcune realtà indipendentemente da chi ci sta dietro, anche per un rischio di corruzione. Un esempio estremo ma esplicativo è il fatto che all’inizio del 2024 l’ONU abbia accettato il diktat dei talebani contro la presenza delle associazioni afghane contrarie al loro governo, “perché col nemico si deve parlare”. Alcuni compromessi possono essere necessari, ma altri aspetti non si possono accettare.

Cisda insiste nel parlare di fondamentalismi, al plurale.

Serve a ribadire e ricordare che non esiste solo il fondamentalismo islamico e che, in generale, il concetto di fondamentalismo non va per forza collegato alla religione. Spesso siamo assuefatti e consideriamo l’apartheid di genere, ogni oppressione e discriminazione sulla base del genere della persona, come una diretta conseguenza di un approccio tipico solo del fondamentalismo islamico, quando in realtà non è così.

Che significato ha questa scelta?

Per noi è importante che si parli sempre di fondamentalismi in generale, perché lo sono tutti i fenomeni che portano a un’interpretazione conservatrice e a un’attuazione rigida e intransigente di una religione, come anche di un pensiero politico, scientifico, filosofico, eccetera. Il problema sta nelle modalità in cui si crede e si porta avanti un’idea, non tanto nell’idea stessa. Esiste un limite invalicabile che divide le profonde convinzioni interiori, un “fondamentalismo individuale”, dal vero e proprio fondamentalismo con cui si arriva a imporre la propria visione a un’intera società, con azioni a livello di stato o di gruppi di potere. Un esempio “occidentale” sono gli antiabortisti americani, che uccidono i medici che procurano aborti.

Di fondamentalismi ce ne sono in diverse parti del mondo; la “i” è un dettaglio indispensabile per tenere gli occhi aperti su ogni crimine contro l’umanità, per aprire crepe, per non chiudere gli occhi e la porta davanti a chi sta subendo una violenza.

Le “lunghe notti” negli ospedali di Emergency in Afghanistan

Emergency, 10 gennaio 2025

“Long Night” di Lynzy Billing è un’esplorazione del conflitto afgano attraverso i racconti degli operatori sanitari di EMERGENCY in Afghanistan e dei pazienti che curiamo ogni giorno.

Dal cuore di Kabul alla Valle rurale del Panshir, fino alla provincia di Helmand, “Long Night” è il racconto di un tempo instabile in cui generazioni di afgani condividono la storia inaudita di chi continua a confrontarsi ogni giorno con la realtà della guerra.

In un Paese che rimane devastato dall’eredità della guerra, il documentario prende il suo titolo dalle innumerevoli “lunghe notti” segnate da mass casualties, l’afflusso massiccio di pazienti in pronto soccorso in seguito a esplosioni e attentati.

“Long Night” è un documentario realizzato da Lynzy Billing, giornalista investigativa e fotografa vincitrice di tre Emmy Awards.

Afghanistan, scuole itineranti a sostegno del diritto allo studio delle bambine

Vatican News, 8 gennaio 2025 di Federico Piana

L’azione di Wazir Khan a favore dell’istruzione femminile. Con l’organizzazione Today Child ne garantisce l’accesso a ragazze e bimbe. “Senza la cultura, lo sviluppo del Paese è impossibile”

Un gruppo di bambine, sedute in terra, le spalle poggiate ad un muro. La testa coperta da un foulard colorato e l’aria di chi è interessato a scoprire qualcosa di nuovo, che forse non aveva mai visto prima. Gli occhi sono rivolti verso il basso, sulle pagine di un libro che stringono in mano con stupore e curiosità. A prima vista, la descrizione minuziosa di questa fotografia potrebbe apparire insignificante, perfino banale. Ma acquista una forza dirompente se si viene a sapere che quelle pupille voraci di conoscenza sono di chi farà una fatica immane ad avere accesso all’istruzione primaria mentre quelle secondaria ed universitaria rimarranno un sogno, da tenere chiuso nel cassetto. Già, perché, nell’ Afghanistan governato dai talebani, alle donne è stato negato il diritto di apprendere, escludendole di fatto dai maggiori centri educativi e di specializzazione. Non che per i bambini ed i ragazzi le cose vadano meglio: negli ultimi anni, il Paese dell’Asia meridionale ha raggiunto il più basso tasso di alfabetizzazione del mondo e oltre la metà della sua popolazione non sa né leggere né scrivere. Se si guarda bene la foto delle bambine con il libro, ci si accorgerà anche di un’altra rivoluzione: la mano che con amore e gentilezza sta distribuendo il testo è quella di un giovane quasi venticinquenne che ha deciso di sfidare diktat, leggi e consuetudini, mettendo a rischio la propria vita. Un caso più unico che raro in una nazione dove anche le grandi istituzioni internazionali faticano a cambiare la situazione. E dove in molti preferiscono gettare la spugna.

La scuola senza muri

Wazir Khan è un afghano originario del distretto di Pol-e-Khomri, nella provincia di Baghlan, ad oltre 200 chilometri di distanza dalla capitale, Kabul. Musulmano praticante e studente universitario modello, non sopporta la decisione di escludere le donne dai percorsi formativi e odia vedere nelle periferie sperdute del suo Paese intere frotte di bambini lasciati vagare senza istruzione, abbandonati a loro stessi. Ecco che allora prende il coraggio a quattro mani e fonda una scuola itinerante che non c’è. Non ha muri, banchi, aule, sedie.

La lavagna se la porta dietro, in pellegrinaggio come fosse una reliquia, da una zona remota ed impervia all’altra. I suoi alunni si riuniscono ogni volta all’aperto, nella polvere, quando fa freddo o quado fa caldo: ma a loro proprio non importa, non saltano mai una lezione, non lo farebbero per nulla al mondo. All’inizio sono pochi, poi aumentano sempre di più fino a diventare decine e decine perché i genitori e le comunità locali raggiunte dal giovane universitario imparano a conoscerlo e a fidarsi di lui, fino ad affidargli anche le bambine.

Quando i media vaticani riescono a contattarlo per fargli raccontare la sua storia, Wazir Khan spiega che tutto è partito “dall’est dell’Afghanistan, dal distretto di Bagrami e da quello di Khakjabar, dove ho avviato le prime campagne per incoraggiare le persone a sostenere l’istruzione e a far di tutto per educare le loro ragazze”.

La nascita di Today Child

Le materie che insegna fin dal principio sono diverse: “Oltre all’inglese, il pashtu e il dari – lingue ufficiali afghane- e alcune materie islamiche. L’età dei bambini e delle bambine è compresa tra i 5 i 10 anni”. In poco tempo la fama dell’attivista con la passione dell’insegnamento dilaga e lui si rende conto di non potercela più fare da solo al punto che dà vita a un’organizzazione no profit, Today Child: “Era il 2022 e da allora, nel nostro gruppo, abbiamo accolto una trentina di volontari: tutti lavoriamo a titolo gratuito e il nostro principale obiettivo è quello di operare nel campo dell’istruzione continuando le nostre scuole itineranti. Recentemente, abbiamo anche dato vita a delle campagne educative per far capire alla gente quanto sia importante la scuola, quanto sia fondamentale imparare”.

Today Child, fin da subito, ha deciso di sostenere le ragazze che vogliono studiare anche “distribuendo loro libri e materiale di cancelleria. Una battaglia per far rispettare un diritto negato che adesso stiamo combattendo anche utilizzando i social media”.

Wazir Khan e la sua Today Child sono coscienti che tutto quest’attivismo, soprattutto per le ragazze, potrebbe creare qualche problema, anche grosso. “Il governo ci non aiuta, anzi. Ogni passo che faccio può essere pericoloso. Ma la speranza non la perdo: lotterò al fianco delle ragazze affinché possano di nuovo accedere all’istruzione”.

Uno dei suoi obiettivi, nel breve futuro, è quello di creare in tutte le aree rurali della nazione dei centri per lo studio dedicati alle donne: “Sarebbe bello, come sarebbe bello fornire loro contenuti online per l’apprendimento. È vero, tutto questo è rischioso e crea enormi difficoltà ma non sto facendo nulla di sbagliato. Senza l’istruzione, lo sviluppo dell’Afghanistan è impossibile”.

Come non curarsi in Afghanistan se sei donna

Radio Bullets, 5 gennaio 2025

Leila Sarwari non è il suo vero nome, per ragioni di sicurezza dobbiamo tenerlo nascosto, ma Radio Bullets, sa molto bene chi è. Ha studiato all’università di Kabul, ha fatto un master e il suo sogno era diventare una diplomatica.

La sua vita e i suoi sogni, come per tutte le donne afghane che hanno studiato o lavoravano o erano socialmente impegnate, si sono infranti il 15 agosto del 21 quando i talebani hanno preso il potere consegnato dagli americani e dalla Nato che hanno tradito le speranze di milioni di donne che ora vivono in un regime di apartheid di genere.

Sentire la loro voce è un modo per non dimenticarle e per noi un monito di quello che il potere fa quando le società civili non intervengono.

KABUL – L’accesso alle cure sanitarie per le donne dell’Afghanistan sotto il regime talebano è diventata sempre più difficile. Da quando i talebani hanno preso il controllo nell’agosto 2021, sono state imposte numerose restrizioni che compromettono gravemente la possibilità delle donne di ricevere assistenza medica.

La mancanza o l’assenza di ospedali nelle province, le difficoltà economiche, le restrizioni sui viaggi delle donne, l’aumento della depressione e i sentimenti negativi nei confronti delle donne, hanno ulteriormente ridotto l’accesso ai servizi sanitari.

In tutto l’Afghanistan, le donne non possono recarsi nelle cliniche o vedere un medico senza essere accompagnate da un uomo, mettendo a rischio la vita di milioni di donne e ragazze.

Il tabù degli assorbenti

Nazanin, un’ex studentessa costretta a rimanere a casa, un tempo poteva andare in farmacia per acquistare prodotti igienici, ma ora deve affidarsi al fratello minore per paura dei talebani.

Nazanin, residente a Kabul, ci dice di trovare fastidioso chiedere ai familiari di comprare assorbenti: “Per me è stato davvero complicato acquistare prodotti igienici ultimamente, perché tutte le farmacie sono gestite da uomini e non ci sono dipendenti donne. I talebani sono molto restrittivi”.

“Se ti vedono sola senza un accompagnatore maschile o mentre parli con un uomo in farmacia, ti causeranno problemi. Per questo ho paura e spesso supplico mio fratello minore di andare in farmacia a comprare i prodotti per l’igiene. A volte anche lui si rifiuta, perché le mestruazioni sono un tabù sociale e molti uomini afghani si vergognano di acquistare questi prodotti”.

I contraccettivi

D’altra parte, alcune donne affermano che il divieto di vendita di contraccettivi e forniture correlate è diventato un altro problema importante.

Sebbene i dipartimenti talebani abbiano negato di aver bandito questi farmaci, testimonianze della popolazione e dei farmacisti indicano che i talebani hanno avvertito ufficiosamente le farmacie, almeno in alcune città, di non vendere questi prodotti.

E’ aumentata la mortalità materna in Afghanistan, ogni due ore una madre muore per complicazioni legate alla gravidanza o per malattie trattabili e prevenibili durante il parto, non è raro che le donne condividano letti negli ospedali, anche nei centri sanitari avanzati.

Sempre più donne muoiono durante il tragitto verso gli ospedali a causa delle complicazioni della gravidanza, dovendo viaggiare per ore o giorni per ricevere assistenza medica.

Il dominio talebano sull’Afghanistan ha ulteriormente aumentato il tasso di mortalità materna. Dal ritorno al potere dei talebani, le donne afghane hanno affrontato gravi restrizioni ai loro diritti e libertà, che hanno avuto un impatto diretto sul loro accesso alle cure mediche.

Ad esempio, le donne sono spesso obbligate a essere accompagnate da un tutore maschile (mahram) – padre, marito, fratello) per ottenere cure mediche, limitando gravemente la loro autonomia e il loro accesso ai servizi sanitari, specialmente per quelle senza un tutore disponibile.

Maternità complicate

Fatima, una donna di 27 anni di Kandahar, ha sperimentato complicazioni durante la gravidanza. A causa delle restrizioni imposte dai talebani, non ha potuto visitare la clinica senza il marito, che era lontano per lavoro. Di conseguenza, ha dovuto aspettare diversi giorni prima di ricevere assistenza medica, mettendo a rischio la sua salute e quella del bambino.

L’economia afghana è in crisi a causa dell’instabilità politica, delle sanzioni internazionali e della riduzione degli aiuti esteri. La pressione finanziaria ha reso difficile per molte donne permettersi cure sanitarie di base.

Inoltre, le strutture sanitarie spesso mancano di forniture essenziali, attrezzature e personale medico a causa della carenza di fondi.

Laila, una madre di 35 anni di Kabul, ha lottato per permettersi i farmaci necessari per una malattia cronica. Con il reddito familiare drasticamente ridotto, ha dovuto scegliere tra acquistare cibo o medicine. La mancanza di opzioni sanitarie accessibili ha aggravato la sua condizione, portando a ulteriori complicazioni.

Infrastrutture limitate

Il terreno accidentato e le infrastrutture limitate dell’Afghanistan rappresentano sfide significative per l’accesso alle cure sanitarie. Molte donne vivono in aree remote e rurali dove le strutture sanitarie sono scarse o inesistenti.

Le lunghe distanze e la mancanza di opzioni di trasporto rendono difficile raggiungere i centri medici. Zahra, una giovane donna di 22 anni proveniente da un villaggio remoto di Badakhshan, ha dovuto viaggiare per ore a piedi per raggiungere la clinica più vicina.

Il viaggio è arduo, specialmente durante i rigidi mesi invernali. A causa di queste barriere geografiche, Zahra e molte altre donne nel suo villaggio spesso ritardano la ricerca di cure mediche, con conseguenti problemi di salute evitabili.

La tradizione e le norme culturali in Afghanistan spesso impediscono alle donne di cercare cure sanitarie in modo indipendente.

Le donne possono affrontare stigma o disapprovazione da parte delle loro famiglie o comunità se tentano di accedere ai servizi medici senza un accompagnatore maschile.

Questa barriera culturale limita ulteriormente la loro capacità di ricevere cure tempestive e appropriate.

Amina, una donna di 30 anni di Nangarhar, ha affrontato critiche dalla comunità per essersi recata in una clinica senza il marito. Le aspettative culturali su di lei hanno reso difficile dare priorità alla sua salute, causando ritardi nel ricevere il trattamento necessario.

Vietati gli studi medici alle donne

La recente decisione dei talebani di vietare alle donne di frequentare gli studi medici ha conseguenze di vasta portata per il sistema sanitario del paese e il benessere della popolazione.

Uno degli impatti più immediati e gravi è la riduzione del numero di operatori sanitari donne. In una società dove le norme culturali spesso impediscono alle donne di ricevere cure mediche da medici uomini, la presenza di operatrici sanitarie è cruciale.

Il divieto di studi medici per le donne significa che ci saranno meno dottoresse, infermiere e ostetriche disponibili a fornire cure, causando un significativo divario nei servizi sanitari per le donne.

Ad esempio, nelle aree rurali, dove le restrizioni culturali sono ancora più pronunciate, le donne possono evitare del tutto di cercare cure mediche se non sono disponibili operatrici sanitarie.

Questo può portare a malattie non trattate, complicazioni durante il parto e un aumento della mortalità materna e infantile.

L’Afghanistan ha uno dei tassi di mortalità materna più alti al mondo
Il divieto di studi medici per le donne aggrava questa situazione riducendo il numero di ostetriche e medici qualificati disponibili a fornire cure essenziali durante la gravidanza e il parto.

La carenza di personale sanitario qualificato può portare a ritardi nell’assistenza prenatale, gestione inadeguata delle gravidanze a rischio e insufficiente supporto durante il travaglio e il parto.

 

Questo pezzo è stato scritto grazie al sostegno di alcune associazioni di Frascati che ci hanno permesso di fare la differenza. In Afghanistan oggi le giornaliste non possono scrivere, andare ad una conferenza stampa o apparire in televisione. Ma il fatto che non possano farlo nel loro paese, non significa che non possano farlo da qualunque altra parte. Radio Bullets vuole tenere una luce accesa sull’Afghanistan e le afghane hanno bisogno che si sappia cosa sta succedendo loro. Per saperne di più cliccate sul pezzo sotto.

Divieti contro le donne in Afghanistan, “nel centro maternità di Emergency…

Il Fatto Quotidiano 31 Dicembre 2024, di Martina Castigliani

L’ospedale di Anabah è un luogo dove le donne si battono per continuare a lavorare perché lì “sentono di poter fare la differenza”. Intervista a Raffaela Baiocchi, responsabile dei progetti salute donna di Emergency, che di fronte alle nuove strette dei talebani dice: “Restiamo in allerta, ma continuiamo a fare il nostro lavoro”

Un centro di maternità tra le montagne, gestito per la maggior parte da donne e rivolto alla cura delle donne in un Paese dove è stato deciso che non possono studiare. E presto sarà sempre più difficile anche lavorare. Le parole per raccontare l’ospedale di Anabah, creato e gestito dalla ong Emergency nella valle del Panshir in Afghanistan, non sono sufficienti. Non rendono la potenza di un progetto che, senza bisogno di proclami e con grande attenzione per i bisogni della popolazione, continua a lavorare sul territorio dal 2003. Oltre 70mila i bambini nati tra quelle mura, quasi 6mila e 500 solo l’anno scorso, e più di 470mila le visite effettuate. Un ospedale che offre cure di qualità in un Paese a risorse limitate e che funziona quasi interamente grazie al personale afgano: “Le nostre dottoresse, ostetriche, infermiere fanno anche due ore di viaggio per arrivare a lavorare da noi”, racconta Raffaela Baiocchi, ginecologa responsabile dei progetti di salute della donna di Emergency.

Un personale che qui viene formato continuamente e preparato a una gestione in autonomia della struttura, nonostante le limitazioni che arrivano dall’alto. Il centro di Anabah – intitolato alla ricercatrice e volontaria Valeria Solesin – è un luogo dove le donne si battono per continuare a lavorare perché lì “sentono di poter fare la differenza”. Uno spazio dove il solo fatto di esserci è diventata un’azione di resistenza: “Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti”. Anche se il futuro è e resta la più grande incognita: “Abbiamo almeno cinque dottoresse in attesa di essere abilitate per lavorare”. Aspettano, ma le speranze sono sempre meno. “Servono le donne per tenere in piedi il sistema sanitario, per tenere in piedi la società”, chiude Baiocchi. E fa un appello: “L’Afghanistan non sia dimenticato”.

La Repubblica Islamica ha appena ordinato la chiusura delle ong che impiegano donne. Cosa succederà al centro di Anabah?
Non è la prima volta che i vertici dell’Emirato tuonano in questa direzione. Un proclama simile era stato diffuso tempo fa, ma le ong operanti nel settore sanitario erano state esentate. Questo nuovo decreto è freschissimo e non abbiamo ancora ricevuto nessun ordine applicativo in merito: restiamo in allerta e continuiamo a fare il nostro lavoro, sperando si risolva in un nulla di fatto. Il Paese è inquieto, e anche tra i gruppi dirigenti, a tutti i livelli, le visioni sono divergenti e talvolta conflittuali sul tema.

Finora cos’è cambiato con l’arrivo dei talebani al potere?
Non avevamo avuto grandi scossoni. Nei posti dove facevamo chirurgia di guerra, quindi a Kabul e nel Sud del Paese, abbiamo riconvertito le attività. E ci sono comunque sempre feriti a causa della grande diffusione di armi. Dopodiché, la nostra decisione politica, ma anche pratica, è stata quella di espandere i servizi per le donne.

Cosa significa?
Dove eravamo già abbiamo cercato di assumere più ostetriche possibile, ma anche educatrici sanitarie. E nel Sud, ovvero la zona tradizionalmente più conservatrice, abbiamo aperto nuovi ambulatori. Qui abbiamo trovato una situazione inaspettata: c’erano già scuole pubbliche di ostetriche, in cui si parlava di contraccezione. E gli stessi direttori, le mostravano orgogliosamente. Poi dieci giorni fa, è arrivato il nuovo divieto che chiude anche queste.

Come è possibile?
Tocchiamo ogni giorno con mano le profonde contraddizioni. E noi andiamo avanti. Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti. Per il momento ci è solo stato chiesto di riadattare i nostri ambulatori per separare uomini e donne più nettamente di quanto già non si facesse. Ma per il resto nessuno ha impedito alle lavoratrici di andare a lavorare o alle pazienti di accedere all’ospedale. Solo ultimamente, osserviamo donne con quadri molto gravi di malnutrizione. Negli ultimi mesi sono state meno di dieci, ma non le avevamo mai viste prima ed è un segnale. Sono in una chat con le dottoresse afgane per monitorare i casi: l’altro giorno hanno ricoverata una donna di circa 31kg. Una collega ha scritto: “Another one”, un’altra.

È un allarme che riguarda solo le donne?
La popolazione sta soffrendo moltissimo. La disoccupazione galoppa: gli uomini erano principalmente impiegati nella sicurezza, ora molti sono a casa. E questo nonostante i talebani abbiano approvato delle leggi per redistribuire i posti di lavoro. Noi abbiamo ostetriche che sono le uniche in famiglia a riportare uno stipendio a casa.

Com’è la situazione per la formazione delle donne?
Al momento l’unica possibilità per la formazione femminile, a parte quella primaria, è la scuola di specializzazione in ginecologia e ostetricia. Noi ne gestiamo una e in più cerchiamo di formare chi già lavora con noi: le nostre dipendenti sono bravissime, con tanta voglia di imparare e c’è una grandissima richiesta di corsi di formazione e aggiornamento.

Come vede il futuro?
Continuiamo per la nostra strada finché non ci bloccano. Ci sono leggi a livello nazionale e organi che le fanno rispettare con ispezioni e sanzioni, però c’è anche chi nell’apparato non è d’accordo. Molto recentemente abbiamo avuto visite di pezzi molto grossi nella nostra maternità e non dico che si sono commossi, però ci hanno detto “andate avanti”. È ovvio che uno cammina sulle uova. Però noi respiriamo un grande conflitto interno: la linea sulle donne è minoritaria, ma del gruppo predominante. Chi può preserva gli spazi di libertà, facendo finta di niente. Non so però fino a quando durerà.

E se non dura?
Il giorno in cui finiranno le dottoresse già laureate che possono accedere alla specializzazione, anche quella scuola si chiuderà. A ottobre sono andata in Afghanistan ed ero positiva: abbiamo assunto due dottoresse che da due anni aspettano di fare l’esame di Stato. Per due anni hanno detto loro: per ora non lo fate, ma poi si vedrà. C’è sempre stata la speranza e, a ottobre scorso, era stata annunciata una data. Poi, invece, è arrivato il divieto. E due giorni dopo c’è stata la convocazione solo per gli studenti maschi. Siamo piombati nella disperazione. Se qualcosa non cambia, presto saremo in crisi. Oltre al fatto che anche se domani dovessero riaprire tutto, ci sono tre anni di gap durante i quali non hai fatto studiare le donne.

L’ospedale di Anabah funziona grazie alle donne afghane?
Il personale sanitario è composto da 130/140 donne e con chi pulisce la struttura, ed è fondamentale, sono circa 170. Poi ci sono le infermiere nei dipartimenti pediatrici e chirurgici. Chi si occupa di donne sono donne. Quindi non è solo la salute riproduttiva che viene colpita, ma tutta l’assistenza sanitaria. Chi le lava, chi le tocca, sono donne. Ma abbiamo anche uomini. Ad esempio, ho parlato con una donna incinta, molto istruita, che è venuta per una visita da noi: suo marito, un tipo molto conservatore, l’aveva portata anche da un ginecologo nella capitale a fare i controlli. Se un medico uomo è bravo, anche i più conservatori, in città, ci portano le mogli. Però, sicuramente, in futuro la sanità non può stare in piedi senza le donne. Servono per tenere su la società, non si può pensare che i lavori di cura li facciano solo gli uomini. E sicuramente non in una maternità, dove c’è maggiormente l’esposizione del corpo della donna: nelle zone rurali nessun marito porterebbe la moglie da un ostetrico.

È difficile per le donne venire a lavorare ad Anabah?
Quasi tutte le dottoresse, ostetriche e infermiere che lavorano per Emergency vivono molto lontano. A loro servono almeno due ore di trasporto per arrivare. Ma qui respirano un’aria internazionale, fanno formazione. Sentono che hanno i mezzi per poter fare la differenza: siamo in un Paese a limitate risorse, ma non siamo un ospedale a limitate risorse.

Quanto è importante per loro questo impiego?
Faccio un esempio. Una nostra dottoressa viveva con la famiglia del marito. Il suocero, con due mogli, aveva una clinica privata per cui lei faceva attività libero professionale e insieme lavorava ad Anabah. Di solito veniva aiutata dalle suocere a tenere i figli. Con l’arrivo dell’Emirato, il suocero le annuncia che non l’avrebbero più aiutata. Lei ha chiesto allora di fare i turni il giorno in cui le sue sorelle erano libere: viaggiava tra le province per portare a loro i suoi bimbi e poi venire in ospedale. Dopo il primo mese era distrutta: abbiamo creato uno spazio interno per tenerle i figli e lei ha strappato con la famiglia. Tutto perché lei voleva decidere da sola dove e con chi lavorare.

E se le leggi dovessero essere sempre più severe?
Io comincio già a pensare a come poter portare avanti il progetto tra dieci anni. Ora non riesco neanche a fare un piano dell’organico futuro. Quando sono arrivata, era il 2007, venivamo dopo un periodo di chiusura a causa del sequestro Mastrogiacomo: abbiamo davvero ricominciato tutto da zero. Cercavamo ragazze che sapessero leggere e scrivere e che potessero lavorare la sera. Speriamo di non dover tornare a quella situazione di deserto. Al momento abbiamo almeno cinque ragazze laureate in medicina e che non vengono abilitate all’esercizio della professione. E nel mentre non possono praticare.

Come resistono?
Per noi è facile perché abbiamo scelta. Io lo faccio perché è un Paese che amo molto e ormai mi sento parte della famiglia. Ma se penso al loro futuro, se penso alle persone intrappolate in leggi assurde, sto male. Finora, per chi lavora e non ha figli o ha figli maschi, la vita non è cambiata tantissimo. Per chi invece deve completare il proprio percorso formativo, ha altre ambizioni o ha figlie femmine, è cambiato tanto: c’è chi ha già lasciato il Paese o cerca di farlo. Mi dicono: “Rimarrei, ma ho le bimbe piccole, che futuro avranno?”.

Ci siamo dimenticati dell’Afghanistan?
È una realtà dimenticata perché, nel mondo, ne stanno succedendo di tutti i colori. In Afghanistan il dramma ora è la povertà, ma anche una guerra alle donne complessa da combattere. Per questo non deve essere dimenticato. Perché, tra le altre cose, ha un record: è l’unico Paese al mondo in cui alle donne non è concesso di studiare e, quindi, di costruire la società. Bisogna continuare a parlarne. Perché se le donne riprendono il loro posto, può solo fare del bene a tutto il Paese.