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KURDISTAN: Cizre, rigettare l’orrore

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Blog di E. Campofreda, 12/2/2016

Cizre 300x200Il corpo di ragazza, seminudo e maculato di sangue, sta su un impiantito di mattoncini. Già rigido, la vita è volata via, oltre le macchie rosse che s’intravvedono su un fianco, sul petto. Via dall’enorme grumo rappreso di lato. La foto è stata lanciata su un social network. Le due mimetiche turche, di poliziotto e militare, che osservano il cadavere potrebbero essere indossate da chi è giunto dopo, a “lavoro compiuto”. Oppure firmano direttamente il misfatto.

Kurdi di Cizre che finiscono i loro giorni così ce n’è molti, fra l’indifferenza dei potenti della terra. Certo altrove, non distante, negli stati liquefatti di Siria e Iraq, si sparisce in egual modo con un’imposizione della morte diventata incubo giornaliero.

Ma questo non sminuisce i crimini che il militarismo di Ankara ha ripreso a diffondere con meticolosa, spietata pianificazione. Uccisioni efferate di persone catturate e seviziate, istillando sofferenza e godendo sadicamente della stessa, come fanno i peggiori aguzzini della storia. E’ l’infamia che sempre più la ‘geopolitica del cinismo’ mette in mostra in molti scenari.

Questo è il sud-est turco, ma non è l’unico. Anzi. Si dirà che nei secoli quella che ora definiamo geopolitica, e un tempo era espansionismo, conquista imperiale, invasione, colonizzazione e cento altri termini dell’incontro-scontro fra popoli nei territori più vari, s’è sempre macchiata di nefandezze. Egualmente non giustifica l’attuale necrostoria che ogni premier rifugge con la litanìa di quel “mai più” e che invece prosegue.

ragazzakurdaA Cizre si muore in cantine assediate, dopo che le pareti di case triturate dall’artiglieria crollano e non si sa più dove nascondersi. Tu non sei un guerrigliero, sei un kurdo: uomo, donna, ragazzo, vecchio; sei un testimone di te stesso, dell’etnìa che lega famiglie, generazioni a una storia millenaria, vissuta in quei luoghi dove vengono a toglierti la vita. La tua lotta è ideale, e da mesi è rivolta alla sopravvivenza verso chi la insidia con le armi. Addirittura armi chimiche, come in guerra, perché lo stato turco sta praticando una guerra contro civili definiti terroristi. Visto che i muri crivellati di proiettili vengono giù, ti rifugi in cantina, sperando che l’onda di fuoco s’attenui. Magari scompaia. Invece l’incubo resta.

Chi ti bracca aspetta e ti tiene a tiro. Mira a prenderti per sete, vuol farti soffrire e poi ghermirti. Oppure ti dà la caccia, viene a prenderti sottoterra per metterti lui sottoterra. Il copresidente del partito filo kurdo Hdp Selahattin Demirtaş usa il termine genocidio per definire l’azione repressiva attuata dal governo turco nelle province sud orientali del Paese, poste da settimane sotto assedio e scenario di terribili violenze contro i civili. Un concetto respinto da chi identifica il genocidio solo coi grandi numeri. Di fatto gli stermini pianificati non hanno bisogno di annunci pubblicitari, avvengono spesso in silenzio, aiutati dall’omertà di chi non vuol vedere.

Ciò che accade alle comunità di Cizre, Sur, Şırnak (e Urfa, Mardin e molte altre cittadine) è uno stillicidio sistematico, una pianificazione della morte con gli strumenti più vari. Attuata da chi, come il partito-regime dell’Akp, teorizza una nazione basata su un partito, un leader, una bandiera, un’etnìa alla maniera del peggior fascismo vecchio e nuovo. Da leader d’opposizione ovviamente Demirtaş fa politica e sostiene come tale disegno distruttivo può essere fermato solo da un blocco alternativo, come quello creato dal suo schieramento, che segua la via pacifica della conciliazione delle genti dell’attuale Turchia, aperta alla collaborazione e a una reale democrazia per l’eguaglianza e la giustizia. L’esatto contrario del percorso intrapreso negli ultimi due anni da Erdoğan e Davutoğlu che usano la confessione islamica per introdurre pratiche militariste e fasciste.

Combattono per interposta guerriglia in Siria, e non disdegnano l’eventuale intervento diretto, ma soprattutto sfruttano il caos attaccando i kurdi fuori e dentro i confini nazionali. Una linea della guerra esterna e del massacro interno, condito col terrore e la paura. Se l’establishment non recede lo facciano almeno quei turchi, in divisa e abiti civili che hanno una coscienza. Rifiutandosi d’uccidere, aprendo gli occhi alla tragica realtà, questo è il messaggio lanciato da Demirtaş per fermare l’orrore.

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