Siria, la lunga sporca guerra sui civili
Enrico Campofreda, dal blog, 12 ottobre 2019
I costi umani della guerra sporca – ora contro i kurdi, negli anni passati contro siriani sunniti anti Asad e siriani alawiti pro Asad, e cristiani e drusi, diciamo la guerra che la gente di Siria ha subìto prima di aver scelto – contano otto anni di sangue, lutti, fughe, miseria.
Numeri pazzeschi fra morti (oltre mezzo milione) e profughi (otto milioni). Finora c’è stato di tutto. Porcherie di eserciti invasori e autoctoni, di milizie dei tagliagole che i fedeli islamici non chiamano neppure jihadisti, additando l’usurpazione che costoro fanno del jihadh trasformandolo da fondamento coranico a fondamentalismo interpretativo. Mercenari d’ogni risma e partigiani di varie bandiere, insieme alle kurde del Rojava ultimamente insidiate, quelle dei miliziani Hezbollah a difesa dei propri spazi in Libano e di uno Stato amico, dei ‘consiglieri’ pasdaran, delle Intelligence di potenze mondiali addestratrici d’ogni milizia islamista oppure legittimista. E le ingerenze Nato o russe, volte a stabilizzare situazioni e regimi secondo precisi interessi geostrategici, altro che sostegno ai diritti e ai popoli sovrani. E’ andata così anche in altri periodi, col Medio Oriente costruito sulle mappe tramite accordi segreti, guerre-lampo, annientamenti e trasmigrazioni etniche, parecchie taciute o negate di fronte alla cinica indifferenza di chi ne è solo sfiorato.
Certo, che l’ulteriore vampata di bombe in una terra già straziata, la dispersione di centomila kurdi nella pianura che dopo Raqqa e l’Eufrate diventa deserto rosso, rappresenta una nuova tragedia umana e politica. Perché quelle Unità di difesa del popolo attaccate dalla mezzaluna armata di Erdoğan nulla possono a reale protezione di questo popolo contro l’aviazione e i mezzi corazzati turchi. E il disegno di Ankara, incentrato sul palese ricatto dell’immigrazione siriana orientabile verso i confini d’Europa si regge sulla cattiva coscienza del ceto politico continentale che insulta il Sultano ma si serve del suo contenitore di profughi senza neppure saldarne i debiti. Le estorsioni sono esecrabili come lo è la viltà, e in questo l’intero quadro del dramma siriano ha presentato e continua a farlo la parata di propagandisti d’ogni fronte, più o meno precostituito, con tanto di prove vere o taroccate che non salvano nessuno, perché nessuna delle numerose componenti in lotta ha ragioni assolute sulla sua sponda. Tutti si sono macchiati di orrori, recitando a soggetto a proprio favore, mentendo sulle proprie colpe e additando quelle altrui. Non è cerchiobottismo sostenere che nella macelleria siriana nessuno può vantare coscienza e mani pulite. Alcuni, sicuramente i sedicenti jihadisti dell’Isis o prossimi a loro, si sono macchiati di nefandezze e hanno trovato un fronte variegato che li ha combattuti.
Sicuramente i kurdi, la guerra contro i civili, l’hanno finora più subìta che praticata, ma in certi combattimenti anti Isis s’è sparato anche sulla gente rimasta, per scelta o disperazione, dietro ai miliziani. Nulla a che vedere con le stragi aeree, per asfissia da armi chimiche (usate da chi, ciascuno ha accusato gli avversari, e in alcuni casi nessuna commissione d’inchiesta dell’Onu o di Damasco è riuscita a indagare a fondo), per fame come in taluni assedi di quartieri e città. Era il marzo 2011: negli sviluppi d’una rivolta alla linea d’un governo, trasformatasi presto in guerra civile, quindi nel disegno di disgregazione d’uno Stato nazionale, negli scontri su un territorio diventato gigantesco campo di battaglia, l’esercito disarmato di milioni di abitanti della Siria, gente di varia etnìa e religione o credenti d’una democrazia laica come quella sognata nel Rojava, è diventato il bersaglio delle ragioni e degli interessi dei contendenti. Così i presidenti, attenti ai confini da difendere come sosteneva Asad mentre il suo popolo si dissanguava, oppure rivendicando limiti da varcare per crearsi lo spazio vitale contro presunti “terroristi”, come tuona in queste ore Erdoğan, praticano quel terrorismo di Stato che non preserva la propria gente, la sacrifica sull’altare potere. Il proprio.
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