Italia-Turchia: l’indignazione a ore e le armi vendute al Talebano di Ankara Erdogan
Globalist – 21 marzo 2021, di Umberto De Giovannangeli
L’articolo pone una giusta domanda a quanti si sono, giustamente, indignati per la “guerra alle donne” scatenata da Erdogan: sostenere la lotta delle attiviste turche per i diritti umani, non passa anche da uno stop totale della vendita di armi al regime che questa guerra ha scatenato? Tra coloro che si sono indignati vi sono anche donne e uomini del Pd e dei 5Stelle, forze di Governo.
La Turchia è uno dei maggiori clienti dell’industria bellica italiana e le loro forze armate dispongono di elicotteri T129 di fatto una licenza di coproduzione di AW129 Mangusta di Augusta Westland.
Come volevasi dimostrare. L’indignazione per la decisione del governo turco di uscire dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza alle donne è durato un sol giorno. Il tempo di una dichiarazione slva-coscienza, di un Tweet di denuncia. E poi, si passa oltre. E’ l’indignazione a ore made in Italy.
Lacrime e armi
Quella che non è a ore ma dura nel tempo è la vendita di armi alla Turchia di Erdogan.
Un passo indietro nel tempo. Il 22 ottobre 2020, cinque mesi fa, la Rete Italiana Pace e Disarmo emette questo comunicato: Nei giorni scorsi notizie di stampa hanno riportato la richiesta del Ministro degli esteri greco ad Italia, Francia, Spagna, Germania per un’iniziativa di embargo sulla vendita di armi alla Turchia. Una richiesta che trae le sue motivazioni dalle tensioni tra i due Paesi, entrambi alleati Nato, sul Mar Egeo e in generale dalla politica di proiezione militare messa in atto da Ankara negli ultimi tempi. La Rete Italiana Pace e Disarmo, pur non volendo entrare nello specifico del contenzioso tra i due Paesi, rilancia in questo contesto la richiesta di blocco completo del flusso di armamenti verso la Turchia e il regime di Erdogan.
L’evidente autoritarismo del governo turco, le gravi violazioni dei diritti umani e le ingerenze dirette in vari conflitti (Libia, Nagorno Karabakh) e indirette su tutto lo scacchiere geo-strategico del Mediterraneo giustificano una tale richiesta sia secondo i dettati delle norme nazionali ed internazionali sia secondo valutazioni di carattere politico. La nostra Rete pone questo problema in particolare dall’ottobre 2019, quando la Turchia ha deciso di intervenire militarmente nel Kurdistan siriano. L’attenzione di media e politica verso tali ostilità ci avevano permesso di sottolineare la grande rilevanza della Turchia come cliente dell’industria bellica italiana e avevano portato il Ministro gli Esteri di Maio ad una serie di dichiarazioni e decisioni, di cui però non è mai stata rivelato il dettaglio formale e concreto, relative a ripensamenti e rivalutazioni delle licenze di esportazione rilasciate verso Ankara. In particolare il 16 ottobre dell’anno scorso il Ministro Di Maio aveva annunciato di aver firmato un atto interno alla Farnesina per bloccare le «vendite future di armi alla Turchia» e per «avviare un’istruttoria sui contratti in essere». Nonostante tale presa di posizione l’Italia ha nei fatti continuato a inviare armamenti alla Turchia. Un’attenta analisi dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) dei dati del registro dell’Istat sul commercio estero evidenzia infatti che da novembre del 2019 a luglio del 2020 sono stati esportati in Turchia più di 85 milioni di euro di “armi e munizioni”, una cifra che costituisce il massimo storico dal 1991. Solo nel primo semestre del 2020 l’export si attesta a quasi 60 milioni di euro. Si tratta in gran parte di munizionamento pesante, prodotto ed esportato soprattutto da aziende della provincia di Roma (ad esempio il colpo completo di calibro 105/51 millimetri HEAT-T e di 120 millimetri HEAT-MP-T). Sono tipi di munizionamenti multi-purpose altamente esplosivi che vengono impiegati nei teatri di guerra anche in funzione anti-carro. Ciò significa che sono continuate le forniture alla Turchia di munizionamento militare autorizzate negli anni scorsi… Inoltre la Relazione governativa al Parlamento sull’export di armi (richiesta dalla Legge 185/90) non solo non fa alcuna menzione della decisione del Ministro degli Esteri di ottobre 2019 prima ricordata, ma vengono evidenziate nuove autorizzazioni per oltre 63 milioni di euro e nuove consegne per oltre 338 milioni che fanno della Turchia il primo destinatario delle forniture di armamenti italiani nell’anno. Le 59 nuove autorizzazioni rilasciate nel 2019 – e mai ufficialmente sospese – riguardano anche armi automatiche, munizioni, bombe, siluri, razzi e missili, apparecchiature per la direzione del tiro e aeromobili.
La Rete Italiana Pace e Disarmo reitera dunque la propria richiesta di blocco totale e immediato di qualsiasi fornitura militare verso la Turchia, decisione che si sarebbe già dovuta e potuta prendere senza dover mettere in campo istruttorie e verifiche sul passato, nel pieno rispetto del dettato Costituzionale (art. 11), della legge 185/1990 che regolamenta le esportazioni di armamenti e delle norme internazionali (Posizione Comune UE e Trattato ATT) sottoscritte dall’Italia”.
La petizione di Amnesty
“ Come riportato da Rete Disarmo, la Turchia è da molti anni uno dei maggiori clienti dell’industria bellica italiana e che le forze armate turche dispongono di diversi elicotteri T129 di fatto una licenza di coproduzione degli elicotteri italiani di AW129 Mangusta di Augusta Westland.
Chiediamo all’Italia di sospendere tutte le forniture di armi verso la Turchia e di non limitare lo stop solo alle commesse future.
La sospensione dovrebbe rimanere in vigore fino a quando le forze turche non potranno dimostrare l’esistenza di meccanismi efficaci per garantire che armi, munizioni e altre attrezzature e tecnologie militari non vengano utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani o del diritto umanitario internazionale; tutte le presunte violazioni devono essere oggetto di indagine approfondita e imparziale; e i presunti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani dovranno essere perseguiti in processi equi”. La petizione di AI è stata firmata da oltre 110mila persone. Ma da Palazzo Chigi e dalla Farnesina, nessuna risposta.
A questo punto lasciamo la parola a uno che dei più seri e documentati analisti di cose militari in Italia: Giorgio Beretta. “Anche nei confronti della Turchia – scrive Beretta in un articolo per unimondo.org – l’Europarlamento invita il Vicepresidente/Alto rappresentante a “introdurre un’iniziativa in seno al Consiglio affinché tutti gli Stati membri dell’UE sospendano la concessione di licenze di esportazione di armi”. La risoluzione “condanna fermamente la firma dei due memorandum d’intesa tra la Turchia e la Libia sulla delimitazione delle zone marittime e su una cooperazione militare e di sicurezza globale che sono interconnessi e violano chiaramente il diritto internazionale e la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che impone un embargo sulle armi nei confronti della Libia”. La risoluzione ricorda la “decisione presa da alcuni Stati membri di sospendere la concessione di licenze di esportazione di armi alla Turchia”. Decisione che l’anno scorso ad ottobre il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha annunciato di aver implementato firmando un “atto interno alla Farnesina” – che non è mai stato reso pubblico – per bloccare però solo le “vendite future di armi alla Turchia” e per “avviare un’istruttoria sui contratti in essere». Come ha rivelato un’ampia inchiesta di Altreconomia, nonostante questi annunci, l’Italia ha continuato a fornire armamenti alle forze armate di Ankara.
Le forze armate turche sono il secondo più grande esercito della Nato dopo gli Stati Uniti e l’ottavo esercito del mondo. 17esima al mondo nella classifica delle spese militari, Ankara stanzia un budget di circa 19 miliardi di dollari ogni anno per la sua difesa, ovvero l’1,9% del suo Pil. I numeri sono stimati in 350.000, cifra a cui vanno aggiunti i 170.000 uomini che prestano servizio nella gendarmeria e le 54.000 ausiliari armati reclutati nel sud-est del Paese nell’ambito della lotta contro il Pkk.
Con questa potenza di fuoco, il Sultano di Ankara alimenta il disegno imperiale neo-ottomano: combatte, per procura, in Siria, occupa una parte della Libia, si proietta nel Caucaso, militarizza il Mediterraneo orientale, prosegue la sua campagna di sterminio dei Curdi.
A quanti si sono, giustamente, indignati per la “guerra alle donne” scatenata da Erdogan, una domanda: sostenere la lotta delle attiviste turche per i diritti umani, non passa anche da uno stop totale della vendita di armi al regime che questa guerra ha scatenato? Non è una domanda retorica. Perché tra coloro che si sono indignati vi sono anche donne e uomini del Pd e dei 5Stelle, forze di Governo. “Disarmare” il Sultano è dare solidarietà concreta ai tanti e tanto che in Turchia si battono contro il nazional-islamismo di Erdogan. Un regime autoritario, sessuofobico. Un regime che fa paura.
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