Lo scudo del Rojava è la sua gente
Siria. Viaggio nel modello dell’autodifesa popolare, cardine del Confederalismo democratico della Siria del Nord-est. Formazione politica prima che militare, unità multietniche e due linee del fronte: l’Isis e la Turchia. Mentre il mondo resta a guardare
Chiara Cruciati, Il Manifesto, 29 luglio 2021
La linea del fronte è a poco più di un chilometro dalla casa di due piani di Tel Temer diventata il quartier generale delle Msf, le unità di difesa siriache cristiane nel Rojava. Oltre quella linea stazionano le truppe turche e i miliziani islamisti che hanno occupato il cantone di Afrin nell’aprile 2018 e un anno e mezzo dopo un corridoio di terre lungo 100 chilometri alla frontiera nord.
Non ci sono solo loro. Ci sono anche tanti civili rimasti a vivere nelle loro case nonostante le forze occupanti stacchino acqua ed elettricità per costringerli ad andarsene, brucino i campi coltivati, sparino colpi di mortaio sopra i tetti.
AMAR HANNA ha 28 anni. Studiava letteratura inglese quando nel 2012 sono nate le prime forze di autodifesa contro l’avanzata islamista nel Rojava. Voleva insegnare, è diventato un combattente. Ora è il portavoce delle Msf: «L’unità siriaca è stata creata prima dell’arrivo dell’Isis – ci racconta – contro altri gruppi islamisti nati dopo l’inizio della guerra civile siriana. Oggi siamo migliaia, a Tel Temer, Raqqa, Deir Ezzor. Siamo parte delle Sdf, le Forze democratiche siriane». La federazione, formata da unità di diverse etnie e religioni, conta oggi 100mila combattenti in tutta la Siria del Nord-est, sulla solida base politica e ideologica del confederalismo democratico teorizzato dal leader del Pkk Abdullah Ocalan.
Hanna ci porta in terrazzo, ci mostra la linea del fronte. Oltre agli attacchi mai cessati delle cellule affatto dormienti dello Stato islamico, attivo soprattutto fuori Qamishlo e Deir Ezzor, l’autodifesa del Rojava è impegnata da anni contro l’occupazione turca: «Gli attacchi turchi nella parte orientale della regione hanno effetti su un milione e mezzo di persone. Negli anni passati abbiamo resistito all’Isis, difeso Tel Temer e 33 villaggi siriaci, abbiamo liberato tutti i civili che l’Isis aveva catturato. E oggi ci troviamo di fronte all’Esercito libero siriano, alleato turco, che ha un’ideologia quasi identica. I cristiani rimasti nelle zone occupate sono costretti a pagare per restare, a versare l’affitto sulle terre e sulle case».
«Contro l’Isis il cielo ci era amico – dice Hanna – Contro i turchi no. Non puoi difenderti da un caccia con un Ak47. Ma libereremo Serekaniye e Tal Abyad, Idlib e Afrin. Siamo siriani, vogliamo che tutta la Siria sia libera e che sia terra di tutte le culture e le etnie, la terra di arabi, curdi, siriaci, turkmeni. Per questo siamo parte delle Sdf, è quello il nostro modello».
Un modello che si evolve con la formazione continua, militare e politica, e l’arrivo incessante di giovani. Ci si deve adeguare: l’esercito nemico è il secondo della Nato, ha tecnologie militari avanzate e una strategia di accerchiamento dei civili che mira a depotenziare l’autodifesa. Perché se si bruciano le terre e si taglia l’acqua, è la fame a svuotare le comunità. Per questo le Sdf, per quanto possibile, tentano anche un sostegno civile, dal riallacciamento dell’elettricità agli aiuti ai civili bloccati sulla linea del fronte.
ALLA BASE STANNO le ragioni della nascita delle forze di autodifesa del Rojava, con le curde Ypg e Ypj a fare da pioniere dopo lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Anche Syamand Ali era all’università quando è cominciato tutto. Studiava ingegneria meccanica. Ha mollato e ha preso le armi. Ci accoglie in uno dei quartieri generali delle unità maschili curde, le Ypg, ad Hasakah.
Fuori sventolano le bandiere dell’unità, fondo giallo e stella rossa: «Dieci anni fa c’era chi sosteneva il regime e chi le opposizioni islamiste. Noi rifiutavamo quella dicotomia perché entrambi erano portatori di mentalità radicali. Volevamo una forza per proteggere il nostro popolo, non per attaccare qualcuno. Così sono nate Ypg e Ypj. La prima battaglia è stata a Serekaniye contro gli islamisti del Fronte al-Nusra».
«Siamo una delle facce dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-est – continua Ali – Come sul piano politico, anche nelle Ypg e nelle Sdf la formazione è continua. Si comincia con l’accademia che forma su ideologia politica, scienze, tecnologie: prima dell’addestramento militare, c’è quello politico perché ci focalizziamo su autodifesa ed etica. È questa la differenza con i normali eserciti nazionali. La nostra unità è nata tra la gente».
E COSÌ RIMANE: dopo la sconfitta dell’Isis, il Rojava è stato lasciato alla mercé turca. Sostenute e armate dalla coalizione anti-Daesh guidata dagli Stati uniti, le Sdf oggi non hanno appoggi esterni, se non una presenza militare americana intorno ai pozzi di petrolio (non compresa nel ritiro deciso da Trump nell’ottobre 2019, che aprì all’invasione turca). C’è anche Damasco, checkpoint controllati dall’esercito siriano a Qamishlo, Hasakah e sulla linea del fronte, tenue tentativo di dissuadere la Turchia da ulteriori avanzate.
Gli appoggi esterni mancano anche contro l’Isis, però: «Daesh ha cambiato strategia, oggi opera con cellule piccole che attaccano civili, capi tribù, sheikh, checkpoint. Le nostre forze anti-terrorismo sono impegnate contro di loro soprattutto a Deir Ezzor, al confine con l’Iraq e nel deserto. Ma nessuna altra forza intorno a noi lavora per fermarli e la frontiera è volutamente porosa».
A POCA DISTANZA dalla sede delle Ypg, una casa ospita l’ufficio stampa delle Ypj, le unità di difesa femminili curde. Una ventina di ragazze combattenti, provenienti da ogni angolo del Rojava, ora si occupano di documentare le operazioni militari. Ai muri sono appesi tamburelli e oud, il liuto arabo, accanto alle foto di Ocalan e di Sakine Cansiz, Fidan Digan e Leyla Soylemez, le tre attiviste curde uccise a Parigi nel 2013. Sui materassi, a terra, sono aperti libri di filosofia e storia.
«Non proteggiamo solo le donne, proteggiamo tutto il popolo – ci dice Sozda – La nascita delle Ypj ha dato speranza alle persone. All’inizio non è stato semplice per le donne prendere le armi: nei primi villaggi liberati vederci arrivare è stato quasi uno choc. Poi è diventato normale. La nostra presenza ha avuto un grande effetto soprattutto nelle zone arabe, durante le campagne a Sheddade e Manbji. Da lì è partita la nostra rivoluzione culturale: ogni mese si aggiungono alle nostre fila altre donne. Al momento siamo circa 3mila».
Le Ypj sono nate nel 2013 e ne fanno parte donne di diverse etnie. La formazione è la stessa delle Ypg, accompagnata allo studio della scienza della donna. È con le unità femminili che uno dei pilastri del confederalismo democratico, la liberazione femminile, è avanzata sul piano politico, economico e sociale: «Il nostro modello ha un impatto enorme in Medio Oriente dove tantissime donne combattono ogni giorno per la propria libertà e i propri diritti, combattenti senza confini etnici o religiosi. Siamo una medicina per i popoli».
UNA MEDICINA che ha sacrificato se stessa. Sono oltre 1.100 le martiri tra le Ypj, migliaia le ferite. Tra loro c’è Rojinda. Ha 25 anni ed è originaria di Afrin. Si è unita alle unità di autodifesa quando di anni ne aveva appena 21. Era una ballerina, ora non può più ballare: nel 2019 è stata ferita a Tal Abyad, durante l’invasione turca. I suoi compagni erano stati circondati, insieme a un altro gruppo è andata a recuperarli. Al ritorno è saltata su una mina: ha perso la gamba sinistra.
La incontriamo nella Casa dei Feriti di Qamishlo, ente autogestito dagli stessi combattenti ospiti. Ce ne sono in diverse città della Siria del Nord-est. Roduan, il più anziano, è il responsabile del centro. Ha una protesi alla mano: l’ha persa a Qamishlo nell’esplosione di un’autobomba, dopo quasi dieci anni tra le fila delle Ypg, da Serekaniye contro al-Nusra fino all’irachena Shengal: «Qui facciamo terapia psicologica e fisica e formazione – ci spiega – Ci sono combattenti che hanno perso un arto, che sono diventati ciechi, che hanno subito paralisi. La Casa dei Feriti permette loro di reinserirsi nella società, con un lavoro e una propria indipendenza. Un disabile non deve restare chiuso in casa, è ancora parte viva della sua comunità. È anche questo il significato della nostra rivoluzione».
Negli ultimi dieci anni sono rimasti feriti 27mila combattenti, di questi 5mila sono disabili permanenti. La chiusura a cui il Rojava è sottoposto, l’isolamento di fatto, impedisce l’arrivo di aiuti da fuori. Le protesi sono realizzate qui, con i pochi mezzi a disposizione, ma non sono adatte. Sono pesanti e non si piegano bene, dicono.
SHERO HA 23 ANNI, ne aveva 15 quando si è unito alle Ypg: «L’Isis era un pericolo per tutto il mondo, abbiamo combattuto per tutta l’umanità contro un’ideologia che voleva rendere le donne delle schiave. Noi non amiamo la guerra, siamo stati costretti a prendere le armi. E ora 5mila di noi non possono più usare le mani o le gambe. Dove sono quelli che ci hanno mitizzato, esaltato? In Occidente costruiscono robot, ma a noi non riescono nemmeno a fornire una protesi».
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