Sete, infezioni e speranze nel Rojava occupato
Enrico Campofreda dal suo Blog – 1 aprile 2021
Più della pandemia da Covid, come in tanti angoli del mondo comparsa nel tardo inverno 2019, è stato l’autunno di quell’anno a obnubilare le informazioni sulla reale utopia che dal 2012 aveva assunto la denominazione di Rojava. I notiziari hanno perso le tracce di quell’Amministrazione Autonoma dei territori a cavallo d’un confine segnato sulle mappe e nella giurisdizione degli Stati nazionali di Turchia e Siria, una demarcazione che in natura manca poiché gli spazi sono aperti, colorati da una campagna feconda, compresa fra i millenari Eufrate e Tigri, non a caso definita Mezzaluna fertile. I media hanno smarrito le coordinate sul Rojava quando i carri armati turchi iniziavano a occupare e pattugliare 480 km di quel territorio, per una profondità anche di più di trenta.
Un passo scaturito dagli accordi fra i governi di Ankara, Mosca e Teheran. Con Damasco alla finestra, poiché beneficiando da anni della protezione militare degli alleati russo-iraniani, il fantasma del regime Baath non ha fiatato sull’iniziativa. Anzi, l’ha gradita. Il clan Asad non ha mai amato la comunità kurda che lì vive. L’ha repressa, tutt’al più in certe fasi l’ha tollerata. Ma nella rivolta che dieci anni or sono incendiava un gran pezzo del Medio Oriente – trasformata in Siria in sanguinosissima guerra civile – l’iniziativa dei kurdi di salvaguardare se stessi autodeterminandosi con l’arma della politica e la politica delle armi, è stata subìta dal potere siriano che considerava il Rojava un’usurpazione. Per tacere del sovversivo intento di unire le genti di quella regione: kurdi, arabi, aramaici, armeni, turkmeni, siriaci. Perciò le tre entità statali di Turchia, Siria, Iran accondiscendevano alla sferzante occupazione definita (sic) “Primavera di pace”. Con Putin nel ruolo di frigido arbitro. Le Unità di difesa del popolo e delle donne – che nella carneficina del conflitto siriano tutelavano i propri spazi, soprattutto contro le milizie jihadiste dell’Isis, di Al-Nousra, di Ahrar al-Sham e Faylaq al-Sham (con undicimila le vittime fra militanti e civili) – dopo i successi ottenuti sul campo, erano costrette a una ritirata strategica verso est, nel Kurdistan propriamente detto, seguite da più di mezzo milione di abitanti. Eppure gli altri quattro milioni continuavano e continuano a vivere e convivere con le citate etnìe nelle città e villaggi, dove il presente è diventato difficile per il sopraggiungere della pandemia e lo scorrazzare dell’esercito turco.
Invece l’attuale “pacificazione” porta con sé una velenosa coda per ostacolare la vita a chi è restato, prendendolo, ad esempio, per sete. Una storia che solo gli attivisti conoscono riguarda la stazione idrica di Alouk, presso Serê Kanyê, una cinquantina di chilometri a sud-est di Mardin. Dove per iniziativa di delegati turchi, comparsi in loco all’inizio delle operazioni militari, il pompaggio dell’acqua viene periodicamente interrotto e circa mezzo milione di persone sono private dell’indispensabile elemento. Il diritto internazionale considera simili atti coercizioni criminose, ma da mesi nessuno controlla e interviene. Altra iniziativa impositoria è il reclutamento forzato e la ‘turchizzazione’ di certa quotidianità. Lo denunciano rapporti della comunità kurda di al-Bab, 40 km da Aleppo, e Jarablus, sulle sponde dell’Eufrate, dove specie i giovani vengono forzatamente spinti da agenti dellaMıt a corsi di “rieducazione”. Gli s’impone di dimenticare quel che sono, gli si dice che la propria vera identità è turcomanna. Li si prende per fame: se seguiranno i consigli offerti troveranno un lavoro, vestendo la divisa dell’esercito, male che vada finendo in qualche gruppo islamista che stipendia gli adepti. All’inizio della scorsa estate la Fondazione delle donne libere del Rojava e l’Accademia Medica Mesopotamia, attive nei campi profughi che raccolgono sfollati da alcune zone attualmente pattugliate dai carri turchi e russi, hanno riscontrato la presenza di malattie infettive (Leishmaniosis) scaturite sia dalle scarse condizioni igienico-sanitarie in cui i rifugiati vivono, sia dalle carenze alimentari, frutto di blocchi dei rifornimenti predisposti dai controlli militari. La struttura dell’Amministrazione Autonoma tuttora esistente deve provvedere a oltre quattro milioni d’individui, fra cui 1.5 milioni di sfollati provenienti da città riconquistate all’Isis, come Raqqa, e dall’area di Idlib. Alcuni campi pongono seri problemi. Quello di Al-Hol, che raccoglie oltre 60.000 persone a una quindicina di chilometri dal confine iracheno, di recente è passato alla cronaca per i reiterati omicidi perpetrati da cellule fondamentaliste interne che puniscono i “traditori” disposti a collaborare coi “carcerieri”.
Quest’ultimi sono le Forze democratiche siriane, la milizia kurdo-araba che ha avuto la meglio su quei nemici, e che gli Usa hanno lasciato col problemino di gestire quella massa umana. Alcuni nuclei dovrebbero essere collocati in aree o nazioni di provenienza dei miliziani, ma tutto è fermo. L’Amministrazione continua a gestire l’economia creata in otto anni e proseguita anche in piena guerra. Del resto, tanto per dirne una, i cereali per la panificazione di quel che resta del popolo siriano provengono dai terreni del Rojava.
E se si parla di riserve idriche, e perfino petrolifere, vale il medesimo discorso. Certo, i soldati fedeli ad Assad, possono venir anch’essi nutriti dal granaio del nord-est, ma durante il conflitto hanno ricevuto da Mosca non solo armi, anche cibo. L’Amministrazione, fra i tanti colpi bassi subìti da chi s’avvantaggiava della lotta delle sue milizie contro l’Isis, si ritrova privata del controllo di alcune vie di comunicazione che tagliano i contatti fra i suoi tre cantoni: Afrin, Kobanê, Cizre. Continua a patire un embargo e, priva com’è di uno scalo aereo attivo, vede convogliati gli aiuti sanitari per l’attuale pandemia sull’aeroporto di Damasco.
Da lì, solo se le autorità siriane vogliono, le carovane di camion possono partire. Spesso non accade. In merito alla questione del Covid-19 dall’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia ci confermano che per ora di vaccini non se ne parla. Sars CoV2 ha colpito 10.000 abitanti, il tasso di mortalità è basso: 300 vittime. I controlli sono inesistenti, ma il contagio fra la popolazione appare limitato, sebbene la comunità kurda sia più propensa ad attuare la prevenzione consigliata dagli organismi sanitari, mentre la cittadinanza araba è meno attenta. Il materiale per tutelare la salute, soprattutto mascherine e guanti, è giunto grazie a strutture come la Mezzaluna Rossa di Italia e Germania, mentre associazioni pro kurde hanno recuperato qualche centinaio di respiratori e bombole di ossigeno. E’ indubbio che se la situazione dovesse peggiorare le carenze sono palesi, a tutto gennaio erano disponibili solo 120 posti letto per l’aggravamento della patologia. Ma chi è abituato a vivere nell’emergenza – e gli otto anni di guerra sulla propria terra sono stati più di un’emergenza, peraltro tuttora in corso – non si perde d’animo.
L’enorme forza del ‘Confederalismo democratico’ trova nella crisi di Stati nazionali, com’erano Siria e Iraq, un puntello per rilanciare questo progetto. Pur se l’attuale geopolitica stia cercando di rimettere assieme i cocci di quei regimi che dal socialismo per il popolo s’erano trasformati in dittature – personali con Saddam Hussein, familiari con gli Asad – l’autonomia gestionale richiesta e praticata tramite le assemblee e i consigli pianificati dalla Carta del Rojava, e l’economia cooperativa per oltrepassare il capitalismo, rappresentano il sogno che anima quella gente. Più difficile è il rapporto coi regimi, di Turchia e Iran, il cui nazionalismo è alimentato anche dalle chiusure del mondo verso questi Paesi. Eppure, dicono dall’Uiki: se si pensa alla lista sul ‘terrorismo mondiale’, creata dagli Usa e sposata in pieno dalla Ue dopo l’11 settembre, molte nazioni hanno usato quel sistema per i propri fini, incastrando avversari e oppositori politici. Erdoğan, da gran pragmatico, l’applica senza scrupoli: chiunque gli si opponga è accusato di terrorismo. Tale incastro rivolto ai kurdi non mira a colpire solo le migliaia di attivisti coi leader Öcalan, Demirtaș e le sigle dei partiti che rappresentano. Lo scopo primario è censurare una corposa comunità (venti milioni di cittadini sugli ottanta della Turchia), cancellarne origini, cultura, una lingua e cinque dialetti, ingabbiarne le varie religioni, soffocandone la voglia di convivenza e la gioia di vivere.
Questo articolo è presente sul numero di aprile del mensile Confronti
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