Austria. Il primo rimpatrio verso Kabul: ordine pubblico o corto circuito europeo?

Notizie Geopolitiche, 23 ottobre 2025, di Giuseppe Gagliano
Dopo la Germania, Vienna ha deportato un cittadino afghano condannato per reati gravi: è la prima volta dal ritorno dei Talebani nel 2021. Il cancelliere Christian Stocker rivendica “tolleranza zero” e annuncia altri casi. Il segnale è chiaro: l’esecutivo vuole riappropriarsi dell’agenda sulla sicurezza, sottraendo terreno all’estrema destra dell’FPO. Ma il messaggio travalica i confini austriaci: in gioco ci sono precedenti legali, linee comuni UE e rapporti pragmatici con Kabul.
Il principio di non respingimento impone di non rimandare persone verso Paesi dove rischiano persecuzioni o trattamenti inumani. L’Afghanistan talebano resta ad alto rischio, dicono ONG e Nazioni Unite. Vienna risponde che si tratta di condannati per reati e quindi “non più titolari del diritto a restare”. La frattura sta qui: sicurezza vs garanzie fondamentali. Il riferimento tedesco – contatti tecnici con le autorità de facto per facilitare i voli e la gestione documentale – apre un fronte delicatissimo: per riprendere i rimpatri si legittima, di fatto, un’interlocuzione con chi non si riconosce. Un ossimoro diplomatico che molti governi sono pronti a tollerare pur di mostrare fermezza.
Sul piano interno, la mossa serve a congelare la narrativa dell’FPO: “solo noi sappiamo essere duri”. Il governo OVP punta a dimostrare che la macchina statale può espellere chi ha commesso reati, riducendo la pressione mediatica su crimini a forte impatto emotivo. È deterrenza amministrativa: rendere credibile la minaccia di rimpatrio per alzare il costo dell’irregolarità. Ma la deterrenza, per funzionare, ha bisogno di volumi, non di simboli: se i casi restano pochi, l’effetto politico si sgonfia; se aumentano, cresce il rischio di contenziosi e di contraccolpi reputazionali.
Diciannove ministri dell’Interno hanno sollecitato Bruxelles a consentire rimpatri volontari o forzati verso l’Afghanistan. La Germania ha già riaperto il canale con voli per condannati, mediati inizialmente dal Qatar e poi con contatti diretti; Belgio e Austria guardano a Berlino come modello. Si profila una “coalizione dei rimpatri” dentro l’UE, con il rischio di una spaccatura politica fra Stati che privilegiano la sicurezza e Stati che difendono rigidamente il non-refoulement. Se il blocco “securitario” cresce, la Commissione dovrà scegliere se codificare prassi già in corso (normalizzando i contatti con Kabul) o se frenare, accettando lo scontro con diversi governi.
I Talebani possono capitalizzare l’apertura europea per ottenere riconoscimento implicito, accesso consolare e leve negoziali (visti, liste di deportati, cooperazione di polizia). In cambio, promettono collaborazione sui rimpatri e sulla sicurezza. È una moneta politica spendibile anche sul mercato regionale: più canali con l’Europa significano più legittimità con attori mediorientali e asiatici. Sul piano geoeconomico, la gestione dei flussi e dei documenti (biometrie, archivi consolari) è un asset: chi controlla i dati controlla le persone. Qui si addensano i maggiori timori dei difensori dei diritti.
Due criticità emergono. Primo: filtrare davvero solo i condannati senza trascinare nel meccanismo persone vulnerabili o richiedenti protezione con posizioni non ancora definite. Secondo: blindare il ciclo informativo. L’ingresso di funzionari talebani nelle sedi consolari europee solleva il tema dell’accesso a dati sensibili di diaspora e dissidenti. Qualsiasi fuga informativa può tradursi in ritorsioni familiari in Afghanistan. Senza un perimetro cibernetico e archivistico robusto, il danno reputazionale per i governi europei è dietro l’angolo.
Nel breve periodo Vienna incassa un dividendo politico: fermezza, controllo, “caso pilota”. Nel medio, l’Austria sarà giudicata sulla capacità di:
sostenere operativamente i rimpatri senza violare il non-refoulement,
coordinarsi in modo coerente con partner UE per evitare forum shopping dei casi,
reggere la pressione giudiziaria e mediatica qualora emergano abusi o errori.
Se la prassi si consolida, cambierà la postura europea sull’Afghanistan: meno tabù diplomatici, più condizionalità tecniche. È la realpolitik dei confini difficili: si parla con chi c’è, non con chi si vorrebbe. Ma ogni passo va pesato: l’equilibrio fra sicurezza e diritti non ammette scorciatoie.