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Tag: Fondamentalismo

Siria. La riduzione in schiavitù delle donne rapite

Ovunque il fondamentalismo porta alla schiavitù delle donne

The Cradle, La bottega del Barbieri, 29 aprile 2025

Nella Siria post-Assad, il Rapimento di Massa e la Riduzione in Schiavitù Sessuale delle donne Alawite sotto il Regime di Sharaa (al-Julani) rispecchiano le più oscure atrocità dell’ISIS, eppure incontrano il silenzio globale.

Da dicembre, quando l’ex affiliata di al-Qaeda, Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ha rovesciato il governo di Bashar al-Assad, la Siria ha assistito a un’agghiacciante ondata di misteriosi rapimenti di giovani donne, prevalentemente appartenenti alla comunità Alawita.
Continuano a emergere prove che queste donne, principalmente appartenenti alla componente religiosa Alawita, siano state rapite e condotte a vivere come schiave sessuali nel Governatorato di Idlib, tradizionale roccaforte di HTS, da fazioni armate affiliate al nuovo governo siriano.
Incredibilmente, il rapimento di massa e la riduzione in schiavitù di donne Alawite, ora perpetrati da fazioni affiliate a HTS, rispecchiano la Riduzione in Schiavitù di migliaia di donne Yazide da parte dell’ISIS durante il Genocidio del 2014 a Sinjar, in Iraq.

L’ATTIVISTA CHE HA DENUNCIATO

In un post di Facebook ora cancellato, Hiba Ezzedeen, un’attivista siriana di Idlib, ha descritto il suo incontro con una donna che ritiene sia stata catturata e portata nel Governatorato come schiava sessuale durante l’ondata di massacri perpetrati dalle fazioni affiliate al governo e dalle forze di sicurezza contro gli Alawiti nelle zone costiere del Paese il 7 marzo.

“Durante la mia ultima visita a Idlib, ero in un posto con mio fratello quando ho visto un uomo che conoscevo con una donna che non avevo mai incontrato prima”, ha spiegato Hiba.” Quest’uomo si era sposato diverse volte in precedenza e si ritiene che attualmente abbia tre mogli. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stato l’aspetto della donna: in particolare, era chiaro che non sapesse indossare correttamente l’hijab e il suo velo era indossato in modo disordinato”.

Dopo ulteriori indagini, Ezzedeen ha appreso che la donna proveniva dalle zone costiere dove si sono verificati i massacri del 7 marzo, in cui sono stati uccisi oltre 1.600 civili Alawiti.
“Quest’uomo l’aveva portata al villaggio e l’aveva sposata, senza ulteriori dettagli disponibili. Nessuno sapeva cosa le fosse successo o come fosse arrivata lì, e naturalmente la giovane donna aveva troppa paura di parlare”, ha aggiunto Ezzedeen.
Poiché la situazione le sembrava così strana e allarmante, ha iniziato a chiedere a tutti quelli che conosceva, “ribelli, fazioni, attivisti per i diritti umani”, informazioni sul rapimento di donne Alawite dalla costa.
“Purtroppo, molti hanno confermato che ciò è effettivamente accaduto, e non solo da una fazione. In base a quanto affermato dagli amici, le accuse puntano a fazioni dell’Esercito Nazionale e ad alcuni combattenti stranieri, con motivazioni diverse”, ha riferito.
Le nuove forze di sicurezza siriane guidate da HTS hanno incorporato gruppi estremisti armati, tra cui Uiguri del Partito Islamico del Turkestan e turcomanni siriani appartenenti a fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dai servizi segreti turchi, fin dalla loro ascesa al potere a Damasco.
Diversi comandanti dell’Esercito Nazionale Siriano ed estremisti stranieri sono stati nominati a posizioni di vertice nel Ministero della Difesa siriano.
Mentre le unità della Sicurezza Generale, dominate da HTS, hanno partecipato ai massacri del 7 marzo in molte zone, si ritiene che ex fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano e di combattenti stranieri abbiano guidato la campagna. I militanti sono andati porta a porta nei villaggi e nei quartieri Alawiti, giustiziando tutti gli uomini in età militare che hanno trovato, saccheggiando case e, a volte, uccidendo donne, bambini e anziani.
Ezzedeen ha concluso il suo post affermando: “Questa è una questione seria che non può essere ignorata. Il governo deve rivelare immediatamente la sorte di queste donne e rilasciarle”.
Invece di indagare sulla questione e cercare di salvare le donne prigioniere, il Governatore di Idlib nominato da HTS ha emesso un ordine di arresto per Ezzedeen, sostenendo che avesse “insultato l’hijab”.
La coraggiosa rivelazione di Ezzedeen ha fatto luce sul destino di molte giovani donne appartenenti a comunità minoritarie, misteriosamente scomparse negli ultimi mesi, dopo che il Presidente Ahmad al-Sharaa e HTS avevano rovesciato Assad e preso il potere a Damasco.

UN MODELLO DI RAPIMENTI

In uno dei primi casi, una giovane donna Drusa del sobborgo di Jaramana a Damasco, Karolis Nahla, è scomparsa la mattina del 2 febbraio 2024, mentre si recava all’università nella zona di Mezzeh. Il caso era singolare perché non fu richiesto alcun riscatto e non si seppe più nulla di lei.

Col tempo, iniziarono a trapelare informazioni secondo cui giovani donne come Karolis venivano rapite e portate a Idlib come schiave, come infine confermato da Hiba Ezzedeen.
Il 21 marzo, Bushra Yassin Mufarraj, madre Alawita di due figli, è scomparsa dalla stazione degli autobus di Jableh. Suo marito ha poi pubblicato un video di appello in cui affermava che era stata rapita e portata a Idlib.
“Mia moglie è stata rapita a Idlib. C’è qualcosa di più crudele al mondo che possa accadere a un uomo? Che sua moglie e la madre dei suoi figli si trovi in tali circostanze”, ha dichiarato in un video di appello pubblicato sui social media dieci giorni dopo.
La scomparsa di Bushra è stata seguita da un’ondata di rapimenti nei giorni e nelle settimane successive. L’Agenzia Curda Jinha ha riferito il 25 marzo, citando fonti locali, che più di 100 persone sono state rapite da gruppi armati nelle regioni costiere della Siria nelle 48 ore precedenti, tra cui molte donne.

Il 5 aprile, la ventunenne Katia Jihad Qarqat è scomparsa. L’ultimo contatto con lei è avvenuto alle 9:40 del mattino presso la farmacia del circolo Bahra a Jdeidat Artouz, nella campagna di Damasco. La sua famiglia ha implorato che chiunque l’avesse vista o avesse informazioni su di lei li contattasse.

L’8 aprile, la diciassettenne Sima Suleiman Hasno è scomparsa alle 11:00 del mattino dopo aver lasciato la sua scuola nel villaggio di Qardaha, nella campagna di Latakia. Sima è stata rilasciata quattro giorni dopo a Damasco, dove è stata riconsegnata alla zia da membri del governo siriano guidato da HTS.
I filmati di sorveglianza dei negozi vicino al luogo del rapimento sono circolati ampiamente sui social media, scatenando un’ondata di indignazione.
L’11 aprile, alle 16:00, si è persa la comunicazione con la ventiduenne Raneem Ghazi Zarifa nella campagna di Hama, nella città di Masyaf.
“Siamo estremamente preoccupati per lei. Chiediamo a chiunque abbia informazioni su di lei, anche minime, di contattarci immediatamente”, ha dichiarato la sua famiglia in un post sui social media.
Il 14 aprile, Batoul Arif Hassan, una giovane donna sposata con un bambino di tre anni di Safita, è scomparsa dopo aver fatto visita ai familiari nel villaggio di Bahouzi. I contatti con lei si sono interrotti intorno alle 16:00 mentre viaggiava su un minibus pubblico sulla strada Homs-Safita. La sua famiglia ha chiesto in un post sui social media a chiunque avesse informazioni sulla sua posizione di contattare telefonicamente suo fratello.
La mattina del 16 aprile, Aya Talal Qassem, 23 anni, è stata rapita dopo aver lasciato la sua casa nella città costiera di Tartous. Tre giorni dopo, il rapitore di Aya l’ha liberata e l’ha condotta a Tartous, sull’autostrada per Homs, solo per essere arrestata dalla Procura Generale guidata da HTS.
La madre di Aya ha pubblicato un video sui social media in cui spiegava che alla sua famiglia non era permesso stare con lei durante la detenzione e che suo padre era stato arrestato perché aveva insistito per vederla. La madre ha affermato che la Procura Generale ha cercato di costringere Aya a testimoniare, affermando che non era stata rapita, ma che era fuggita con un amante. La madre ha aggiunto di essere stata costretta a raccontare una simile storia nonostante la presenza di tagli e ferite sanguinanti sul suo corpo. Un video è stato pubblicato in Rete nel momento del suo emozionante ritorno a casa, tra familiari e parenti che l’attendevano con ansia.

Il 21 aprile, Nour Kamal Khodr, 26 anni, è stata rapita insieme alle sue due figlie, Naya Maher Qaidban di 5 anni e Masa Maher Qaidban di 3.
Nour e le sue figlie hanno lasciato la loro casa nel villaggio di Al-Mashrafa, nella zona rurale di Homs, a mezzogiorno, dirigendosi verso l’abitazione di un vicino. Testimoni hanno visto un gruppo mascherato affiliato alla Sicurezza Generale guidata da HTS rapirle, caricarle su un veicolo contrassegnato con l’emblema del gruppo prima di darsi alla fuga.

ECHI DI SINJAR

Entro il 17 aprile, l’emittente irachena Al-Daraj ha riportato la notizia di dieci rapimenti confermati di donne Alawite nelle regioni costiere. Secondo una sopravvissuta, pseudonimo Rahab, è stata rapita in pieno giorno e tenuta chiusa a chiave in una stanza con un’altra donna.
Una donna che ha parlato con Al-Daraj con lo pseudonimo Rahab è stata rilasciata dopo che i rapitori avrebbero temuto un’irruzione della Sicurezza Generale. Ha dichiarato di essere stata rapita in pieno giorno e tenuta in una stanza con un’altra donna, affermando:
“Ci hanno torturato e picchiato. Non ci era permesso parlarci, ma ho sentito l’accento dei rapitori. Uno aveva un accento straniero e l’altro un accento locale di Idlib. Lo sapevo perché ci insultavano perché eravamo Alawite”.
L’altra donna, trattenuta con lei, pseudonimo Basma, rimane prigioniera. È stata costretta a chiamare la sua famiglia per dire loro che stava “bene” e per rassicurarli che “non avrebbero dovuto pubblicare nulla” sul suo rapimento.
Al-Daraj ha anche documentato il caso di una ragazza di 18 anni, anch’essa rapita in pieno giorno, nelle campagne di una città costiera in Siria.
La sua famiglia ha poi ricevuto un messaggio di testo che la intimava di rimanere in silenzio sul suo rapimento, altrimenti sarebbe stata riconsegnata morta. La ragazza ha poi inviato alla famiglia una registrazione vocale da un numero di telefono registrato in Costa d’Avorio, dicendo che stava bene e che non sapeva dove fosse stata portata.
I media iracheni hanno paragonato questi casi al Genocidio degli Yazidi perpetrato dall’ISIS a Sinjar. Oltre 6.400 Yazidi sono stati ridotti in Schiavitù dall’ISIS nel 2014.
Migliaia di loro sono stati trafficati in Siria e Turchia, venduti come Schiavi domestici o sessuali, o addestrati per il combattimento. Molti risultano ancora dispersi.

HTS: LA CONTINUITÀ IDEOLOGICA DELL’ISIS

Che donne Alawite stiano ora comparendo a Idlib non sorprende, data la discendenza ideologica di HTS.
HTS, che ha conquistato Idlib nel 2015 con missili TOW forniti dalla CIA, condivide la stessa visione Genocida dell’ISIS.
È stata fondata dall’ISIS e guidata da Sharaa, allora noto come Abu Mohammad al-Julani, inviato in Siria nel 2011 dal defunto “Califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi per fondare il Fronte Al-Nusra, precursore di HTS.

Nel 2014, l’analista siriano Sam Heller descrisse quindi i religiosi di Al-Nusra come promotori di un “fanatismo tossico, persino Genocida” nei confronti degli Alawiti, basato sugli insegnamenti dello studioso islamico medievale Ibn Taymiyyah.
Sebbene HTS e ISIS si siano scontrati nel 2014, i loro legami sono durati. Quando Al-Baghdadi fu ucciso nel 2019, si nascondeva a Barisha, appena fuori Sarmada, controllata da HTS. All’epoca, anche numerosi Yazidi ridotti in Schiavitù si trovavano a Idlib.
Il quotidiano The Guardian lo ha confermato, citando Abdullah Shrem, un soccorritore Yazida, e Alexander Hug della Commissione Internazionale per le Persone Scomparse, i quali hanno affermato che le persone scomparse venivano spesso trattenute “in aree al di fuori del controllo governativo”.
Nel 2019, Ali Hussein, uno Yazida di Dohuk, raccontò alla giornalista della Radio Pubblica Nazionale Jane Arraf del suo tentativo di comprare la libertà di una bambina Yazida di 11 anni, rapita dall’ISIS ma “venduta a un emiro di un’organizzazione affiliata ad Al-Qaeda in Siria, Jabhat Al-Nusra, e non più vergine”.
“Vi avevo detto 45.000 dollari (40.000 euro) fin dall’inizio. So quanto pagano a Raqqa. Vi avevo detto che in Turchia avrebbero pagato 60.000 o 70.000 dollari (53.000 – 62.000 euro) e le avrebbero asportato gli organi. Ma non voglio farlo”, minacciò il contatto dell’ISIS durante la trattativa.
Reuters ha riportato il salvataggio di un giovane Yazida, Rojin, catturato e ridotto in schiavitù dall’ISIS insieme al fratello nel 2014. A 13 anni, Rojin fu portato nel campo Curdo di Al-Hol, nella Siria Orientale. Fu trattenuto lì insieme a migliaia di famiglie e sostenitori dell’ISIS dopo la sconfitta finale dell’organizzazione nella città di confine siriana di Baghouz nel 2019.
Il combattente saudita dell’ISIS che aveva acquistato Rojin organizzò poi il suo trasporto clandestino da Al-Hol a Idlib. Fu liberato cinque anni dopo, nel novembre 2024, mentre HTS preparava il suo assalto lampo ad Aleppo.
Reuters ha riferito che in un altro caso, un Yazida di 21 anni di nome Adnan Zandenan ricevette un messaggio su Facebook da un fratello minore che presumeva morto, ma che era stato anch’egli portato clandestinamente a Idlib.
“Mi tremavano le mani. Pensavo che uno dei miei amici mi stesse prendendo in giro”, ha ricordato Zandenan. Tuttavia, l’euforia di Zandenan si è rapidamente trasformata in disperazione quando suo fratello, ormai diciottenne e profondamente indottrinato dall’ideologia Salafita-Jihadista, si è rifiutato di lasciare Idlib e tornare nella comunità Yazida di Sinjar.

IL CALIFFATO RICONFEZIONATO

Nel dicembre 2024, appena un giorno dopo l’ingresso di HTS di Jolani a Damasco per rovesciare Assad, il giornale curdo iracheno Rudaw riferì che una donna Yazida di 29 anni era stata salvata dalla schiavitù a Idlib, affermando che molte donne Yazide erano state salvate dal campo di Al-Hol, gestito dai Curdi.

Tuttavia, altre “sono state trovate in zone della Siria controllate dai ribelli di HTS o da gruppi armati sostenuti dalla Turchia (Esercito Nazionale Siriano), e alcune sono state localizzate in Paesi terzi”, aggiunse.
Nei giorni successivi alla caduta di Assad, folle esultanti si riversarono nelle piazze cittadine, intonando canti a sostegno di al-Julani, ora ribattezzato Ahmad al-Sharaa.
Eppure, mentre i diplomatici occidentali si affrettavano a incontrare il nuovo sovrano, il significato della sua “libertà” divenne rapidamente chiaro. I rapimenti di donne Alawite, che rispecchiano la tragedia Yazida, hanno dimostrato che al-Julani aveva semplicemente riconfezionato il modello ISIS.
Con la scusa della liberazione, un brutale sistema di violenza fanatica, schiavitù e stupri è stato scatenato contro coloro che ora erano sotto il suo controllo.
In risposta al crescente negazionismo, l’esperto di genocidio Matthew Barber ha messo in guardia contro lo stesso schema che ha caratterizzato i primi giorni del genocidio Yazida: incredulità, rifiuto e derisione, finché la verità non si è rivelata ben peggiore.
“Nessuno credeva che potesse accadere. Persino analisti e giornalisti occidentali non credevano alle nostre affermazioni”, ha detto Barber. “La realtà era persino peggiore di quello che affermavamo”.
Il silenzio delle vittime non è volontario, è forzato. E mentre questa campagna di terrore di genere continua, la domanda rimane: per quanto tempo il mondo distoglierà lo sguardo?

Traduzione: La Zona Grigia.

Le madrase talebane: una bomba a orologeria

Un articolo sulle madrase purtroppo ancora molto attuale

William Maley, AIIA, 16 maggio 2024

Passando inosservati, i talebani afghani hanno rapidamente ampliato una rete di madrase per propagare la loro ideologia a un auditorio di prigionieri. Questo potrebbe rivelarsi uno degli sviluppi più spaventosi nell’Asia sud-occidentale da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’Afghanistan ai talebani nel 2020-’21.

Gli attacchi terroristici e i gruppi terroristici raramente nascono dal nulla. Al contrario, sono spesso il prodotto della socializzazione di persone vulnerabili nel corso di un periodo di tempo considerevole. È quindi importante essere vigili sui processi di incubazione del terrorismo, e un paese che dovrebbe essere fonte di crescente allarme è l’Afghanistan sotto il controllo dei talebani.

Indottrinamento della gioventù

L’incubazione di atteggiamenti mentali distruttivi ha una lunga storia. Nel febbraio del 1921, nella Russia bolscevica, fu emanato un decreto per istituire una “Commissione per il miglioramento della vita dei bambini” (Komissiia po uluchsheniiu zhizni detei). Si trattava in parte di una risposta all’elevato numero di orfani in circolazione conseguenza della guerra civile russa, ma aveva anche una dimensione più sinistra. Il primo presidente della Commissione, Feliks Dzierżyński, era anche il capo della polizia segreta del regime, la Čeka, e col tempo la Commissione divenne l’incubatrice di una nuova generazione di sostenitori del regime. In questo senso, fu un precursore della creazione, da parte dei successivi regimi autocratici, di istituzioni che avrebbero socializzato i giovani secondo i loro modi di pensare: tra queste, la Lega dei Giovani Comunisti (Kommunisticheskii soiuz molodezhi, o Komsomol) in URSS e la Gioventù Hitleriana (Hitlerjugend) e la Lega delle Ragazze Tedesche (Bund Deutscher Mädel) nella Germania nazista.

Il potenziale dirompente della gioventù radicalizzata non fu solo un fenomeno europeo; si manifestò in modo evidente nella forma delle Guardie Rosse in Cina alla fine degli anni ’60, durante l’apice della “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”. C’era una logica cupa in queste iniziative; come avrebbe detto Sant’Ignazio di Loyola, “Datemi il bambino fino a 7 anni e vi mostrerò l’uomo”.

Un paese che non sfuggì a questo problema fu l’Afghanistan. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979, il regime fantoccio sovietico adottò il precedente dei bolscevichi del 1921 e, il 5 settembre 1981, fu istituito un organismo chiamato “Casa Famiglia della Patria” (Parwareshgah-i Watan), il cui primo direttore fu il dottor Najibullah, capo della polizia segreta del regime. Con l’obiettivo di creare una “classe di giannizzeri”, sovrintendeva all’invio di orfani in URSS per l’addestramento e alcune famiglie, temendo un più ampio programma di allontanamenti forzati, fuggirono dal paese per impedire che anche i loro figli venissero selezionati per l’invio.

Uno sviluppo ancora più pericoloso si stava delineando oltre confine, in Pakistan, dove milioni di rifugiati afghani si erano rifugiati in seguito all’invasione sovietica. Gli orfani dei campi profughi venivano reclutati in collegi islamici radicali ( madrase ) dove ricevevano una  vera dose di ideologia religiosa.

All’epoca questo non fu molto considerato: persino il materiale didattico fornito dagli Stati Uniti tendeva a enfatizzare l’idea della lotta religiosa ( jihad ) come strumento motivazionale contro l’URSS. A lungo termine, tuttavia, i laureati di queste madrase costituirono truppe d’assalto chiave del movimento talebano, che dal 1994 fu promosso dal Ministro degli Interni pakistano e dall’Inter-Services Intelligence Directorate (ISI) come strumento per bloccare la crescita dell’influenza indiana in Afghanistan.

L’estremismo dei Talebani si è manifestato in tutta la sua potenza durante l’occupazione di Kabul, dal 1996 al 2001, ed è riemerso con forza dopo che gli Stati Uniti hanno abbandonato i loro alleati afghani filo-occidentali, firmando alle loro spalle un accordo di uscita con i Talebani il 29 febbraio 2020. Sebbene l’attenzione si sia ora decisamente spostata dall’Afghanistan – un teatro umiliante di cui pochi politici occidentali vogliono parlare – i pericoli derivanti dalla presa del potere da parte dei Talebani sono ancora molto concreti, non da ultimo a causa della loro lunga storia di utilizzo del terrorismo e per l’accoglienza dei vari altri gruppi terroristici. E uno dei pericoli maggiori deriva dal desiderio dei Talebani di formare una nuova generazione socializzata nel loro modo di pensare estremista.

Esplosione di madrase

Mentre alcuni attivisti hanno cercato di sostenere che l’Afghanistan sia ingiustamente oppresso dalle sanzioni occidentali e dal congelamento dei beni della banca centrale detenuti negli Stati Uniti, i Talebani non hanno avuto difficoltà a mobilitare risorse per una massiccia espansione del numero di madrase nel paese. Si tratta di un fenomeno senza precedenti nell’Asia sudoccidentale dall’esplosione numerica delle madrase nella provincia del Punjab, nel vicino Pakistan, all’inizio degli anni ’90, che ha alimentato anni di feroce violenza settaria in quel paese.

Un organismo indipendente dal nome inquietante, “Direzione Generale delle Scuole Jihadiste” ( Riasat-e umumi-i madaras-e jehadi ), è stato istituito all’interno del Ministero dell’Istruzione dei Talebani. Secondo la Direzione, attualmente in Afghanistan ci sono 6830 madrase , di cui non meno di 5618 istituite dopo presa del potere da parte dei Talebani. Come i pesantren più radicali in Indonesia che hanno generato gruppi come gli attentatori di Bali, il sistema “educativo” dei talebani si sta configurando come una fabbrica di estremismo. Il pericolo più ampio di tali sistemi radicalizzati è che possono sfuggire di mano, producendo laureati con ambizioni più oscure e più espansive di quanto persino i loro insegnanti avrebbero potuto immaginare o prevedere. La potenziale minaccia che ciò rappresenta – non solo per le minoranze vulnerabili in Afghanistan, come gli Hazara, prevalentemente sciiti, i Panjsheri, perseguitati di recente, e gli attivisti democratici, ma per il mondo in generale – non dovrebbe essere sottovalutata.

Il numero di nuove madrase è di per sé preoccupante, ma diventa ancora più allarmante se si considera l’approccio più ampio dei Talebani ai contenuti del curriculum. Come riflesso della mentalità anti-occidentale dei Talebani, persino le scuole che insegnavano un curriculum moderno sono costrette a eliminare componenti cruciali per far spazio all’ideologia religiosa talebana.

Un percorso alternativo per le ragazze?

Naturalmente, l’aspetto dell’approccio dei Talebani all’istruzione che ha attirato maggiore attenzione è stata l’esclusione delle ragazze dall’istruzione secondaria o universitaria, un aspetto cruciale della loro più ampia politica di apartheid di genere. Questo ha indotto alcuni a ipotizzare che le madrase femminili potrebbero aprire un percorso alternativo all’istruzione femminile. Ciò che ha ricevuto meno attenzione, tuttavia, è il modo in cui i Talebani hanno modificato il curriculum anche per le scuole di base che le ragazze possono ancora frequentare, rifocalizzandoli specificamente sul tipo di dottrine religiose sunnite a cui i Talebani aderiscono.

E mentre nel breve periodo l’apertura delle madrase alle ragazze più grandi potrebbe superficialmente sembrare una via di fuga dalla situazione di tipo carcerario che molte sopportano, a lungo termine potrebbe consolidare l’ espansione dell’estremismo negli ambienti domestici. Mentre alcune figure talebane mandano ipocritamente le proprie figlie all’estero per studiare, la misoginia della leadership talebana a Kandahar è radicata e profonda, ed è illusorio pensare che le madrase offrano una via di mezzo sulla strada del ritorno alle pari opportunità. Al contrario, le madrase non sono assolutamente la soluzione al problema di garantire un adeguato accesso all’istruzione alle ragazze in Afghanistan.

Ciò non dovrebbe sorprendere. Si dimentica troppo facilmente che i Talebani – noti prima dell’agosto 2021 per i loro attacchi terroristici contro insegnanti e studenti nelle università afghane, nonché per la distruzione di scuole nelle aree rurali – non hanno alcun interesse nei confronti di forme moderne e pluraliste di educazione critica. Quando i sostenitori propongono di cercare un impegno con i Talebani attraverso misure come l’assistenza ai Talebani nel pagamento degli stipendi degli insegnanti, dovrebbero prima chiedersi cosa insegnerebbero tali insegnanti.

Una cosa dovrebbe essere chiara: per gli Stati occidentali, sovvenzionare inavvertitamente o inconsapevolmente la diffusione dell’ideologia talebana sarebbe sia l’ignominia definitiva dopo anni trascorsi a fraintendere le intenzioni dei Talebani, sia una fonte di reale pericolo per il futuro.

 

Il professore emerito William Maley , AM, FASSA, FAIIA è autore di Rescuing Afghanistan (2006), What is a Refugee? (2016), Transition in Afghanistan: Hope, Despair and the Limits of Statebuilding (2018), Diplomacy, Communication and Peace: Selected Essays (2021) e The Afghanistan Wars (2021), ed è coautore (con Ahmad Shuja Jamal) di The Decline and Fall of Republican Afghanistan (2023).

Questo articolo è pubblicato con licenza Creative Commons e può essere ripubblicato citandone la paternità.

L’intervento di Belquis Roshan alla conferenza stampa presso la Camera dei deputati

Belquis Roshan, Cisda, 28 aprile 2025

Saluto le amiche del CISDA, le mie compagne in Italia, e gli onorevoli membri Parlamento italiano, che hanno consentito lo svolgersi dell’incontro odierno.

Rappresento le donne dell’Afghanistan e apprezzo il vostro impegno e senso di responsabilità per aver voluto far sentire il grido di chi sottostà alle leggi del governo più medievale, misogino e malvagio della storia. Vi sono immensamente grata per avermi invitata all’evento di oggi. Le donne afgane, da quasi quattro anni, sono sotto l’ombra sinistra dei talebani; la loro libertà è repressa con le pratiche più barbare.

I governi occidentali, in particolare quello degli Stati Uniti, hanno tradito il popolo e le donne dell’Afghanistan consentendo ai talebani, quattro anni fa, di riprendere il potere. I talebani ricevono segretamente sempre più sostegno finanziario e diplomatico, e questo garantisce la continuazione del loro regime degenerato. Gli interessi strategici ed economici dei governi occidentali in Afghanistan hanno la netta prevalenza rispetto al destino del popolo, specialmente delle donne. La maggior parte di questi governi, e anche le Nazioni Unite, si dicono preoccupati per i diritti delle donne in Afghanistan, ma non hanno simpatia per il nostro popolo e hanno fatto accordi vergognosi con i terroristi talebani.

In questa situazione, qualsiasi voce si alzi da parte delle forze libere e progressiste dei paesi del mondo, specialmente dell’Occidente, a sostegno delle donne afghane è lodevole e preziosa. Avete fatto il vostro dovere umano e di base, diventando così buoni amici delle donne afghane.

Ciò che accade alle donne afghane non è soltanto sotto la categoria “gender apartheid”. Contro le donne vengono commessi crimini brutali e barbarie, le donne non sono considerate esseri umani, sono private di tutti i diritti e non possono svolgere alcuna attività sociale. Non solo il lavoro e l’istruzione sono vietati. La maggior parte delle ragazze viene privata della scuola e deve sottostare alle leggi maschili, e in molti casi, le ragazze sono costrette a una vita terribile.

I talebani, come tutti i gruppi fondamentalisti e aggressivi, vogliono cancellare le donne, la metà della popolazione, confinandola in casa, in modo che per l’altra metà della popolazione, gli uomini, sia più facile reprimerle e ridurle in schiavitù. Ma la maggior parte delle donne afghane si è finora opposta ai talebani in vari modi, le donne non si sono arrese.

Avete fatto molto per riconoscere l’apartheid di genere contro le donne afghane e avete creato un documento prezioso. Questi sforzi, pur non avendo un impatto diretto e duraturo sulla situazione delle donne afghane sono un esempio di solidarietà del popolo occidentale, e dimostrano che, a differenza dei loro governi, ci sono persone che nutrono una sincera simpatia e mostrano solidarietà nei confronti delle donne afghane. In questi quattro anni, le donne afgane hanno cercato di fare sentire la loro voce nella maggior parte dei paesi in cui sono presenti amici come voi, speriamo che in questa lotta sarete i primi, speriamo che il vostro governo riconosca l’apartheid di genere.

Sappiamo che anche se l’apartheid di genere verrà riconosciuto questo non impedirà ai governi occidentali di cooperare con i talebani. Nella pratica vediamo che i governanti guerrafondai dell’Occidente non hanno minimamente rispettato le leggi e i trattati universali che hanno firmato, e li hanno calpestati ogni volta che avevano necessità di tutelare i loro interessi. In molti casi abbiamo visto che non hanno rispettato e hanno fatto carta straccia delle risoluzioni dell’ONU. Proprio adesso, con lo sgomento e la rabbia di tutti coloro che vedono ciò che accade, il fascista Netanyahu, il macellaio di un popolo sofferente, nonostante sia stato emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti da parte della Corte penale internazionale, ha viaggiato tranquillamente in Europa, e nessun governo europeo osa alzare la voce contro questo criminale di guerra.

Questi sono i giochi dei governanti occidentali con i diritti umani. E nel mondo sono molti gli esempi di queste pratiche. Serajaldin Haqqani, il leader degli attentatori suicidi e assassino del popolo afghano, che gli Stati Uniti avevano messo nella lista nera, mettendo una taglia di milioni di dollari per la sua cattura, negli scorsi tre anni ha viaggiato liberamente nei paesi arabi per fare accordi vergognosi con i paesi occidentali e con gli Stati Uniti. Sapeva che in seguito i suoi crimini sarebbero stati perdonati dal suo alleato americano.

Ma se il vostro lavoro darà buoni frutti e l’apartheid di genere dei talebani verrà riconosciuto come tale, sarà un risultato prezioso per l’alleanza globale in difesa delle donne afghane e incoraggerà le donne afgane a proseguire la loro lotta per i diritti contro il fondamentalismo e il terrorismo talebano. Il successo di questo lavoro dimostrerebbe che c’è una distanza profonda tra i governi oppressivi e il popolo occidentale che ama la libertà.

Devo però mettere in guardia i veri amici delle donne oppresse dell’Afghanistan: gli Stati Uniti, l’Occidente e le sue istituzioni hanno cercato negli ultimi quattro anni di introdurre un certo numero donne che si fanno passare come rappresentanti delle donne afghane e promuovono invece gli interessi degli stati imperialisti. Tra queste Fawzia Kofi, Habiba Sarabi, Sima Samar, Mahboubeh Seraj, Fatemeh Gilani, Shakriyeh Barakzai Shahrzad Akbar e altre, che sono manovrate dall’intelligence occidentale e cercano di deviare la lotta delle donne afghane dal cammino per la libertà. Durante i colloqui di Doha, in cui il potere è stato restituito ai talebani, queste donne erano tra i lobbisti che hanno favorito il ritorno al potere di questi criminali sanguinari.

Sono stata con alcune di queste donne per molti anni in Afghanistan perché facevo parte del parlamento, so che queste sono le nemiche delle donne oppresse e hanno fatto dei diritti delle donne uno strumento per raggiungere le proprie mire ambiziose. Ma poiché sono diventate competenti e capaci, l’America e l’Occidente ne hanno beneficiato per oltre vent’anni. Sono certa che in occasione di importanti conferenze mondiali, presso le Nazioni Unite e il Parlamento europeo, e ovunque esse abbiano degli interessi, verranno assegnati loro premi internazionali. Nessuna di loro rappresenta le donne afghane; rappresentano solo l’imperialismo e i governi occidentali, quindi non hanno posto nella lotta per la liberazione delle donne. Anche alcune delle donne che ho citato parlano di apartheid di genere, ma bisogna essere consapevoli che c’è una differenza tra voi e loro. Voi, con la formalizzazione dell’apartheid di genere, dovreste anche denunciare e prendere una posizione chiara contro il sostegno ai fondamentalisti talebani e dei jihadisti da parte dell’imperialismo in modo che la vostra campagna sia distinta dalla loro e mostri la vostra reale volontà di difendere le donne afghane. Dovreste essere molto decise.

Qui voglio sottolineare un altro punto importante, anche se va al di là del disastro afghano. Quando si tratta di tutelare i propri interessi gli stati imperialisti del mondo non esitano ad allearsi con fascisti e fondamentalisti massacratori di popoli; parlo ad esempio dell’orribile genocidio del regime sionista di Israele a Gaza, parlo dell’aver portato al-Qaeda e ISIS al potere in Siria, oggi guidata da Jolani, parlo delle guerre in Yemen, Iraq, Ucraina condotte grazie alle armi e al sostegno finanziario delle potenze mondiali. È una necessità storica e politica incredibilmente importante che i movimenti decoloniali dichiarino che l’imperialismo, il fondamentalismo e il terrorismo sono facce della stessa medaglia e pericolosi nemici dell’umanità; fino a quando non ci sarà un’alleanza globale e popolare contro questi gravi pericoli il futuro dell’umanità e del pianeta sarà a rischio.

Vi invito a creare questa alleanza. Infine vi chiedo, in quanto rappresentanti del popolo italiano nel parlamento, di unire il popolo italiano e le donne afghane nella lotta contro l’apartheid di genere in Afghanistan. Non dimenticate la lotta contro i fondamentalisti e non lasciate che il governo dei talebani in Afghanistan sia riconosciuto dai vostri governi.

Ancora una volta, stringo la mano del vostro onorevole e umano sostegno e mi inchino a ciascuno di voi per il vostro lavoro e la vostra solidarietà con le donne oppresse dell’Afghanistan. Viva l’unità dei popoli del mondo.

Belquis Roshan, ex parlamentare dell’Afghanistan è ora rifugiata in Europa

Comunicato L’apartheid di genere ci riguarda

“Apartheid di genere” (ADG) è stata la parola chiave della conferenza stampa che l’8 aprile il Cisda ha convocato presso la sala stampa del parlamento per illustrare la campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere e la petizione al governo italiano – finora firmata da 2000 persone e 80 associazioni, ma è ancora possibile aderire – che chiede l’intervento attivo dell’Italia sia nel riconoscimento che in Afghanistan è in atto un sistematico e intenzionale ADG, sia nel sostegno del reato specifico di ADG nella Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in preparazione all’ONU e che sarà in discussione all’Assemblea degli Stati nel 2026/27.

Una giornata importante per la nostra campagna, che nel pomeriggio si è concretizzata con la presentazione al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove sono intervenuti/e rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni.

Dopo la presentazione del Cisda che ha ripercorso la situazione attuale in Afghanistan e spiegato le motivazioni della campagna e della petizione al governo italiano, è intervenuta Belquis Roshan, ex parlamentare dell’Afghanistan ora rifugiata in Europa, ricordando che le donne afghane sono sottoposte a condizioni di vita orrende sotto il regime fondamentalista del suo paese. Alle donne è vietato lavorare e le ragazze, che non possono più frequentare la scuola, sono costrette, ancora giovanissime, a sposare i talebani, nell’immobilismo della maggior parte dei governi del mondo che si limitano a dichiarare il loro rammarico ma senza fare nulla, mentre gli Usa continuano a finanziare il governo talebano per difendere i loro interessi economici e strategici.

Lo sforzo che si sta facendo per il riconoscimento dell’ADG subito dalle donne afghane è importante – ha inoltre affermato Roshan – e dimostra un’alleanza sincera con le donne afghane.

Anche se sappiamo che molti governi hanno dimostrato di ignorare e calpestare i trattati internazionali e le risoluzioni delle Nazioni Unite, com’è avvenuto per i mandati di arresto verso personaggi politici che sono rimasti inapplicati senza che alcun governo abbia alzato la voce contro quei criminali e mentre Haqqani veniva vergognosamente graziato, il riconoscimento dell’ADG sarà un importante traguardo per le donne, la legalizzazione dei loro diritti e delle loro lotte.

Inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani

Ci sono voluti 45 anni, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, perché anche i diritti delle donne fossero dichiarati inalienabili, indivisibili e parte integrante dei diritti umani, nel 1993 con la Dichiarazione della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna.

Poiché le convenzioni fra gli stati e le leggi esistenti riconoscono i diritti delle donne e dei bambini solo in situazione di guerra, e il crimine di Persecuzione di genere non è sufficiente a difendere le donne perché può essere applicato solo se connesso con altri crimini, è necessaria una Convenzione dell’ONU sui crimini contro l’umanità che contempli specificatamente il reato di Apartheid di genere, che è l’unico che può definire esaurientemente la situazione di segregazione e persecuzione che subiscono le donne in quanto genere nei paesi fondamentalisti e in particolare in Afghanistan, il più emblematico tra tutti.

Questo ha spiegato la giurista Laura Guercio, relatrice intervenuta alla conferenza stampa per illustrare la definizione di ADG redatta con il Cisda e inviata alla 6° Commissione dell’Onu incaricata di preparare i lavori della Convenzione con il contributo anche della società civile e dell’associazionismo. Definizione che ha già avuto un importante riscontro di apprezzamento da parte degli incaricati dell’ONU.

Ma la nostra Campagna non si limita a questo: chiede che il governo italiano, coerentemente con i trattati per la difesa delle donne e dei diritti umani sottoscritti dall’Italia, neghi il riconoscimento giuridico e di fatto al governo fondamentalista dei talebani, impedisca loro l’agibilità politica nei consessi internazionali e si associ all’azione degli Stati nella denuncia ai Tribunali internazionali.

La Conferenza stampa ha visto la partecipazione e il sostegno dei parlamentari Livia Zanella e Francesca Ghitta di AVS, Valentina Ghio del PD, Oscar Scalfarotto di Italia Viva, oltre a Marilena Grassadonia della Segreteria Nazionale di Sinistra Italiana, che hanno dichiarato la loro disponibilità a farsi carico degli obiettivi della Campagna con iniziative presso il Parlamento.

Finché non saranno diritti per tutte, i nostri saranno solo privilegi

Molto interessante è stato anche il dibattito proposto da CISDA nel pomeriggio al Polo Civico Esquilino. A esporre le loro esperienze e le tematiche di riflessione relative al fondamentalismo religioso e politico e alle ripercussioni sulla vita e i corpi delle donne, accanto a Belquis Roshan c’erano alcune rappresentanti dell’associazionismo: l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, Celeste Grossi dell’ARCI, Mirella Mannocchio della Federazione italiana delle donne evangeliche, Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.


In questo incontro Belquis ha avuto modo di raccontare con maggiore libertà e tempo la sua vita, iniziata durante la guerra che ha ucciso milioni di afghani e proseguita prima in Iran poi in Pakistan. Tornata in Afghanistan con la promessa degli Usa di ristabilire la democrazia, decide di impegnarsi in politica e vince varie elezioni fino a diventare parlamentare nel 2018, unica rappresentante a opporsi al patto di sicurezza con gli Usa, considerato paese invasore, e a opporsi alla liberazione delle migliaia di terroristi talebani nel 2020.

Costretta a lasciare il paese nel 2021, vive attualmente in Germania dove rappresenta la comunità afghana e lavora a sostegno delle donne afghane.

Parlando del suo paese, dice che il corpo delle donne afghane è un campo di battaglia tra Occidente e talebani, oggetto di trattativa per ottenere riconoscimento e fondi. Il governo talebano riceve sostegno economico da tutti i paesi del mondo, ma se questi aiuti non arrivassero non resisterebbe un solo giorno. Il fondamentalismo è uno strumento nelle mani occidentali per portare avanti i propri interessi geopolitici ed economici in alcune parti del mondo. “Solo con la solidarietà internazionale possiamo sopravvivere e combattere insieme le guerre nel mondo”.

Mayswon Majidi, imprigionata in Italia con l’assurda accusa di essere una scafista, e poi scagionata, ha parlato della sua esperienza di vita e di lotta con le donne curde contro il regime iraniano, lotta che è diventata globale perchè l’ADG è diffuso in tutti i Paesi anche se in forme meno evidenti. In Italia il patriarcato si manifesta con i femminicidi, in Iran con la repressione politica e la sharia. Tutte le situazioni sono legate e bisogna trovare una soluzione mondiale, fare alleanze per la pace fra tutte le donne facendo crescere in loro la consapevolezza dei loro diritti e delle loro capacità.

Mirella Mannocchio, pastora metodista presidente della FDEI, network di donne e organizzazioni appartenenti alle chiese evangeliche, da anni si impegna nella lettura della bibbia secondo una visione femminista e nella sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le donne.

Il termine fondamentalismo è nato all’interno del cristianesimo, da cui poi sono derivati tutti i fondamentalismi. L’idea che la donna deve avere il corpo coperto proviene dall’ambito religioso, è legata al bisogno maschile di controllare il corpo femminile che riproduce la vita, capacità interdetta all’uomo. Nelle prime comunità cristiane alle donne veniva riconosciuto un ruolo di potere, ruolo perduto con l’istituzionalizzazione del cristianesimo. Da qui la necessità di recuperare una diversa interpretazione della bibbia e dei testi.

Celeste Grossi, della segreteria nazionale dell’Arci, ha spiegato che la sua associazione fin da subito ha sostenuto la campagna contro l’ADG e sostiene le donne iraniane e afghane anche con corridoi umanitari e case rifugio. Questo non per altruismo ma nella consapevolezza che finché i diritti non saranno per tutte, i nostri sono solo privilegi. “Siamo immerse nella cultura patriarcale e abbiamo atteggiamenti patriarcali. In alcuni luoghi il patriarcato è sistematico, in altri, come qui da noi, i diritti si stanno perdendo e quindi non dobbiamo accomodarci perché i diritti non sono per sempre. Bisogna sostenere le lotte di tutte, non sono le nostre lotte, sono le nostre lotte insieme alle loro e le loro insieme alle nostre”.

Lorena Di Lorenzo ha parlato dell’Afghanistan che è in Italia, quello delle migranti afghane. L’associazione, nata sul binario 15 della Stazione Ostiense, dove arrivavano e ripartivano i migranti afghani prevalentemente maschi, è ora un luogo di amicizia e di scambio paritario con un’ottantina tra donne e bambini, con funzione ponte tra i bisogni delle immigrate e i servizi del territorio e in dialogo con chi è rimasto là.

Dal 2021 stanno arrivando donne diverse, che sono scomode in Afghanistan perché contro corrente. Costrette in un sistema di assistenza frammentario e carente, rimangono deluse nelle loro aspettative e molte se ne vanno via. Bisogna parlare di cosa manca alle donne qui e non solo in Afghanistan, far accogliere un approccio di genere nelle politiche migratorie che colga la complessità dei loro bisogni e competenze.

Il lungo incontro è stato seguito con interesse e ha visto la presenza nel pubblico di diverse donne afghane immigrate in Italia da più o meno anni interessate ad avere un confronto con chi, come Belquis, è uscita dal paese in tempi recenti e ha avuto un ruolo di donna leader nel precedente sistema. Una giusta occasione per chi è sempre stata costretta a stare in silenzio.

Costruire un’impresa come donna nell’Afghanistan dei Talebani

 Atia FarAzar, Zan Times, 8 aprile 2025
Il mio laboratorio si trovava all’interno di una casa in un villaggio a pochi chilometri dalla città di Faizabad. Nel settembre del 2023, decisi di trasferire la filiale del laboratorio in città, ma per farlo era necessario il permesso del Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Un giorno, io e un amico andammo nel loro ufficio, ma quando arrivammo all’indirizzo indicato non ci fu permesso entrare.

Quel ministero è fondato sull’odio e l’esclusione delle donne. Quel giorno, nemmeno la guardia all’ingresso ci ha guardato, né ci ha parlato direttamente. Quando ho provato a parlargli, se n’è andato senza rispondere e ha portato un altro uomo. Anche quell’uomo ci ha parlato con disprezzo e riluttanza.

A causa del mio genere, mi trattavano con disprezzo, si vergognavano della mia presenza in pubblico e accanto a loro. Mentre iniziavo a spiegare il motivo della mia visita, la guardia mi interruppe e disse: “Il nostro capo non ti riceverà. Vai a casa e fai le faccende domestiche. Cosa c’entra una donna con gli affari? Gli affari sono per gli uomini”. Le sue parole mi sembrarono proiettili al cuore: crudeli e disumanizzanti. Risposi con fermezza: “Ho una licenza del governo talebano, perché non dovrebbe essermi permessa?”. Senza dire una parola o lasciarmi finire, si voltò e scomparve nel suo ufficio.

Di conseguenza, non ho potuto aprire la filiale cittadina della mia officina a Faizabad.

Khatereh racconta

Mi chiamo Khatereh e ho 28 anni. Prima dei talebani, quando studiavo economia all’Università del Badakhshan, gestivo anche una piccola attività parallelamente agli studi. A quel tempo, io e un amico compravamo tessuti a poco prezzo, li facevamo cucire da un sarto e vendevamo i vestiti finiti online, guadagnando un piccolo reddito.

Dopo la laurea, mi sono trasferita a Kabul e ho trovato lavoro in un ufficio governativo. Come migliaia di altre ragazze, avevo molti sogni: costruirmi un futuro, avanzare nella mia carriera e far crescere la mia attività.

Ma nell’estate del 2021, quando i talebani entrarono in città, sembrava che tutte le porte della speranza fossero state sbattute. Il terrore travolse il Badakhshan. La gente era in preda al panico, cercava disperatamente di fuggire dal Paese: l’aeroporto era così affollato che c’era a malapena spazio per stare in piedi. A Faizabad, le notti risuonavano degli spari e dei lanci di razzi celebrativi dei talebani, a suggellare la loro vittoria. Per una come me – che, solo pochi giorni prima, inseguiva i suoi sogni – la vita sotto il dominio dei talebani divenne rapidamente insopportabile.

Col passare del tempo, alle donne vennero imposte sempre più restrizioni. Persero il diritto di studiare, lavorare o camminare da sole in pubblico. Per salvarmi dalla depressione, decisi di riprendere il mio vecchio lavoro, con qualche modifica. Alla fine del 2021, ho avviato un workshop con una formatrice e otto allieve. Non è stato facile: ho dovuto affrontare molte sfide.

Le donne sono sempre più invisibili

I talebani avevano quasi raddoppiato le tariffe per le licenze. La tariffa per le licenze delle ONG è stata aumentata da 30.000 afghani [420 dollari] a 50.000 afghani [700 dollari], e quella per le licenze commerciali da 10.000 [140 dollari] a 18.000 afghani [252 dollari]. Non potevo permettermi la licenza per le ONG, quindi mi sono registrata con una licenza commerciale. Ma con una licenza commerciale non posso candidarmi per progetti o accedere a programmi di sviluppo o assistenza di organizzazioni internazionali a sostegno delle donne.

Quando sono andata all’ufficio delle imposte per pagare la tassa di licenza, non c’era nessuna guardia al cancello. Ho bussato nervosamente ed sono entrata lentamente. Il direttore – un uomo con i capelli lunghi, la barba lunga e gli occhi cerchiati di kajal – ha urlato alle sue guardie non appena mi ha visto: “Perché avete lasciato entrare questa donna?”. Le guardie mi hanno trascinato fuori dal suo ufficio e mi hanno mandata in un’altra sezione.

Scossa e spaventata, entrai nel reparto successivo, dove fui trattata come un’aliena. Era chiaro che la presenza di una donna nel loro ufficio li metteva profondamente a disagio. Senza dirmi una parola, presero il pagamento della mia licenza e mi fecero uscire in fretta.

Questo tipo di trattamento non si limitava agli uffici governativi. Persino quando andavo a comprare materiali per l’officina, autisti e negozianti si rifiutavano di aiutarmi semplicemente perché non avevo un mahram. Avevano paura dei talebani perché avevano ordinato che nessun autista potesse dare un passaggio a una donna senza un accompagnatore maschile. Quando dovevo andare in città a fare la spesa, spesso dovevo aspettare a lungo sul ciglio della strada, finché un autista di buon cuore non provava finalmente pietà per me e mi portava in città.

Prima che i talebani salissero al potere, avevo avviato la mia attività con soli 2.500 afghani [35 dollari]. Dopo il loro ritorno, ho ripreso il lavoro con 25.000 afghani [350 dollari].

Ho anche aperto un reparto di incisione, parallelamente alla sartoria. Gli incisori incidono motivi decorativi sulle pietre preziose. Dato che l’estrazione e il mercato delle pietre preziose in Badakhshan sono fiorenti, ho potuto dare lavoro a molte donne e ragazze. Oggi, più di 100 donne e ragazze lavorano nel mio laboratorio, ognuna delle quali guadagna uno stipendio mensile che va da almeno 1.000 afghani fino a 15.000 afghani [209 dollari].

Purtroppo, la vita delle donne diventa sempre più limitata. Sotto il regime talebano, noi donne siamo oppresse con vari pretesti, non ci è permesso viaggiare o spostarci senza un accompagnatore maschile e recentemente queste restrizioni hanno raggiunto il punto in cui persino la voce delle donne è stata bandita.

Eppure, nonostante le difficoltà e le numerose sfide che ho dovuto affrontare – essere stata respinta dagli uffici a causa del mio genere, essere stata messa a tacere e licenziata – non ho perso il mio senso di femminilità né la mia determinazione. Al contrario, sento che ogni nuova pressione non fa che rafforzarmi.

Quello che è iniziato come un piccolo workshop con una formatrice e otto studentesse è ora diventato un luogo di lavoro per cento donne. Oltre al workshop, sono anche in contatto con un gruppo di giovani imprenditrici con cui lavoriamo insieme e ci sosteniamo a vicenda.

Atia FarAzar è lo pseudonimo di una giornalista dello Zan Times

Negazione delle donne, glorificazione della povertà e idealizzazione della vita rurale nel sermone del Mullah Hibatullah

Younus Negah, Zan Times, 7 aprile 2025
Durante il mese di Ramadan e l’Eid che segue, le discussioni su fame e povertà si intensificano. Religiosi e politici offrono conforto ai poveri mentre predicano ai ricchi. Parlano di come la fame purifichi l’anima e rafforzi la fede, e incoraggiano i benestanti a fare l’elemosina e a mostrare compassione.

Eppure, in questo mese, raramente i mullah dal pulpito – o i leader politici nelle società musulmane – parlano di equa distribuzione delle risorse, lotta allo sfruttamento o sforzi concreti per ridurre la povertà. Piuttosto, il messaggio dominante accetta la disuguaglianza come volontà di Dio

Nella retorica dei mullah, la povertà non ha alcuna connotazione negativa. Al contrario, è rappresentata come un vantaggio spirituale. Il termine faqir (povero) è spesso usato in modo intercambiabile con “mistico”.

Nell’Emirato dei Talebani – un’alleanza di mullah, sottoproletari, contrabbandieri e uomini d’affari – la povertà viene apertamente elogiata e il governo si dissocia da qualsiasi responsabilità per la sicurezza alimentare della popolazione. I leader talebani hanno ripetutamente affermato di non aver preso il potere per portare prosperità o benessere, spiegando che le persone devono chiedere a Dio il loro sostentamento di base e insistendo sul fatto che la quota di ciascuno è stata scritta all’alba dei tempi sulla tavola divina e che è dovere dei poveri essere pazienti e grati.

Eppure proprio questi mullah, personaggi di basso profilo e  contrabbandieri non contano su Dio per il proprio sostentamento. Invece, mettono le mani nelle tasche sia di chi ha fame, sia di chi non ce l’ha in tutto l’Afghanistan, estorcendo elemosine e tasse a venditori ambulanti, contadini, negozianti e commercianti. Pianificano il loro arricchimento, combattono e persino uccidono per ottenere quei fondi.

La competizione per la distribuzione del bilancio nazionale, i profitti derivanti dalle entrate minerarie, il controllo di redditizi uffici doganali e fiscali e l’accesso agli aiuti esteri palesi e occulti hanno portato potenti fazioni talebane, in particolare i campi del Mullah Hibatullah e della rete Haqqani, sull’orlo del conflitto aperto.

La misericordia dei ricchi e la preghiera dei poveri

Il peso della povertà della gente ha oscurato la gioia dell’Eid, persino durante il sermone del Mullah Hibatullah. Ha parlato a lungo ai poveri che si erano riuniti all’Eidgah per ascoltarlo e, attraverso loro, alla stragrande maggioranza degli affamati, di cui esige l’obbedienza incondizionata. Il suo messaggio era incentrato sulla virtù della preghiera e della pazienza tra i poveri.

Il mullah Hibatullah ha affermato che lo stesso Dio che ha creato le Sue creature provvede anche a loro, e che i poveri non dovrebbero lamentarsi o incolpare nessuno per la loro povertà. “Tizio e Caio non possono farci niente”, ha detto. Ma i “tizio e caio” a cui si riferisce sono proprio coloro che riscuotono le tasse religiose (usher) e i contributi economici dalla gente, mentre negano loro libertà, istruzione e lavoro. Se qualcuno non paga puntualmente l’usher o ritarda a dare da mangiare ai mullah e ai loro alleati, andrà incontro a una punizione severa, che non sarà rimandata al Giorno del giudizio.

Mullah Hibatullah ha sottolineato che sia la fame che l’abbondanza sono prove di Dio. I ricchi dovrebbero essere grati per ciò che hanno, e i poveri dovrebbero essere grati per la loro mancanza di sostentamento. Secondo lui, il rapporto tra musulmani ricchi e poveri dovrebbe basarsi sulla misericordia e sulla preghiera, come definito dalla legge islamica, : “I ricchi devono mostrare compassione verso i bisognosi e i poveri dovrebbero pregare per i ricchi ed essere contenti della loro condizione”.

Nella sua visione del mondo, la ricchezza è solo un dono divino. Nessuno può incrementarla o diminuirla, perché il sostentamento di ognuno è scritto nel suo destino. Ai suoi occhi, furto, saccheggio, sfruttamento, contrabbando e appropriazione indebita non sono le cause della povertà diffusa o dell’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. “Dio ha ordinato ogni cosa all’inizio dei tempi”, afferma.

Predicava che i poveri dovessero rimanere in silenzio e che fosse religiosamente illegittimo per loro protestare per la propria condizione. “Quando un bambino viene concepito nel grembo materno”, diceva, “Dio comanda all’angelo di scrivere il suo destino: se sarà ricco o povero, quanto sostentamento avrà e con quali mezzi lo guadagnerà”.

A suo avviso, i poveri non hanno il diritto di chiedersi perché altri ottengano la loro ricchezza attraverso furto, contrabbando, saccheggio o violenza – perché l’angelo, per ordine di Dio, lo ha scritto così fin dall’inizio. I poveri non dovrebbero chiedere al Mullah Hibatullah perché le sue spese d’ufficio nel secondo trimestre dell’ultimo anno fiscale siano ammontate a due miliardi di afghani – quasi il 6% dell’intero bilancio operativo del suo Emirato. Né dovrebbero chiedersi perché, sotto il suo governo, oltre l’80% della popolazione – secondo alcune stime, 28 milioni di persone – soffra di fame e abbia urgente bisogno di aiuti.

Secondo il Mullah Hibatullah, i poveri dell’Afghanistan devono unirsi ai comandanti talebani, ai sottoproletari loro alleati, ai contrabbandieri e ai saccheggiatori perché si trovano ad affrontare nemici ancora più grandi.

Jinn e umani: i nemici dei musulmani

Il giorno in cui il Mullah Hibatullah ha tenuto il suo sermone all’Eidgah di Kandahar, sui media è circolato un breve video. Mostrava diverse donne che gridavano aiuto mentre sedevano a terra lungo il sentiero che portava all’Eidgah.

Nell’Emirato dei Talebani, le donne sono trattate come jinn, esseri soprannaturali che devono esistere ma rimanere invisibili. Ci si aspetta che le donne siano presenti, obbedienti e fedeli, ma invisibili. Non devono essere viste pregare nelle moschee o partecipare alla vita religiosa pubblica come fanno gli uomini.

Per i talebani, le donne – come i jinn – possono essere buone o cattive. Eppure, che siano considerate buone o cattive, ci si aspetta comunque che rimangano nascoste. Proprio come Dio ha creato i jinn e li ha tenuti nascosti agli occhi umani, comandando loro di agire in amicizia o inimicizia nell’ombra, anche le donne devono vivere lontane dagli occhi degli uomini.

Nel sermone dell’Eid del Mullah Hibatullah, la presenza dei jinn era più evidente di quella delle donne. Invitò i credenti, poveri e ricchi, a unirsi, avvertendo che “tra i jinn e gli umani i nemici ” dei musulmani sono in agguato . Secondo lui, “le forze sataniche – sia jinn che umane” – sono unite e diffondono la discordia e la cospirazione nei paesi islamici.

Pertanto, ha esortato i musulmani a superare le loro divisioni personali e sociali e a prendere coscienza della minaccia. Povertà, disoccupazione, mancanza di istruzione e ingiustizie: queste, a suo avviso, non sono le vere preoccupazioni dei musulmani afghani, insistendo sulla necessità di forgiare l’unità contro i “jinn satanici e le forze umane”, minacce che superano tutte le altre.

Gli abitanti del villaggio sono amici, gli abitanti della città sono nemici

Negli ultimi quattro anni, il mullah Hibatullah non ha fatto alcuno sforzo per nascondere la sua ostilità verso la città e la vita urbana. Considera Kabul un covo di demoni – un luogo di peccato e corruzione – e ha fondato il suo Emirato a Kandahar, dove dominano costumi e codici rurali.

Sebbene nei suoi sermoni nomini jinn, diavoli, infedeli e occidentali come nemici, la lama dei suoi decreti e delle sue sentenze disumane si è abbattuta quasi esclusivamente sugli abitanti delle città. Lui e i suoi alleati hanno lavorato sistematicamente per trasformare le città afghane in villaggi.

Nel suo sermone per l’Eid, ha descritto la democrazia come “ignoranza velenosa” che è stata infine sradicata grazie ai “mujaheddin in prima linea” e alla “gente comune delle campagne”.

Ha dichiarato: “Se la jihad dovesse essere divisa, metà andrebbe ai combattenti nelle trincee e l’altra metà agli abitanti dei villaggi”. Secondo lui, gli abitanti dei villaggi hanno sostenuto la guerra contro le città e la democrazia offrendo le loro case, il cibo e persino i loro figli ai mujaheddin.

Ha poi continuato avvertendo che “gli infedeli e i sostenitori della democrazia” stanno cercando di trasformare ancora una volta l’Afghanistan in un campo di battaglia in fiamme, mirando a dividere “la gente comune” (il suo termine per i poveri abitanti dei villaggi) dall’Emirato.

Hibatullah Akhundzada, rivolgendosi alle comunità povere e rurali, ha detto: “Siete tutti sudditi dell’Emirato… e se mi vedete come vostro Imam… Unitevi… Obbedite ai miei ordini… La società ritroverà l’ordine”. E se non lo farete, “alla fine sarete coinvolti in guerre”.

Prestare attenzione a questi dettagli, come la formulazione di discorsi apparentemente ripetitivi, è essenziale per comprendere le posizioni del Mullah Hibatullah e di altri leader talebani e comprendere la situazione attuale del Paese. I Talebani presentano innumerevoli difetti, tra cui dipendenze straniere e radicati pregiudizi etnici e tribali, ma la caratteristica distintiva del gruppo è la sua arretratezza rurale.
I Talebani sono religiosi, rurali e sottoproletari che combattono contro la libertà, la democrazia, l’istruzione, la presenza sociale delle donne e tutti gli altri componenti della vita civile e democratica.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

L’UNAMA avverte: i talebani stanno rimodellando il sistema educativo afghano in stile madrasa

8AM Media, 11 aprile 2025

La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha pubblicato un rapporto completo che descrive in dettaglio gli impatti di vasta portata della legge talebana “Propagazione della Virtù e Prevenzione del Vizio”. Il rapporto, pubblicato giovedì 10 aprile, è il risultato di sei mesi di monitoraggio imparziale e osservazione sul campo quotidiana in tutto il Paese. Secondo l’UNAMA, dall’inizio dell’applicazione della legge, i talebani hanno intrapreso sforzi sempre più strutturati e organizzati per attuarla a livello nazionale.

Il rapporto rivela che comitati provinciali per l’applicazione della legge sono stati istituiti in 28 province afghane, con circa 3.300 agenti di polizia morale nominati e dotati di poteri speciali per far rispettare la legge. L’UNAMA ha sottolineato che l’attuazione della legge ha avuto ampie ripercussioni sociali ed economiche sia per gli uomini che per le donne, con effetti notevoli sulla vita pubblica, tra cui occupazione, sanità, istruzione e libertà di stampa.

L’UNAMA ha avvertito che le conseguenze dirette e indirette della legge sulla virtù e il vizio hanno ulteriormente aggravato l’attuale crisi economica in Afghanistan. Inoltre, la legge ha ostacolato la capacità delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, sia locali che internazionali, di fornire aiuti e servizi alle popolazioni vulnerabili. Il rapporto ha inoltre documentato violazioni delle libertà personali e private, in particolare negli spazi pubblici e nelle attività economiche.

Uno dei risultati più preoccupanti del rapporto è la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Secondo l’UNAMA, questo cambiamento è stato accompagnato dalla graduale sostituzione di funzionari pubblici istruiti con studiosi religiosi filo-talebani nei ministeri. Allo stesso tempo, le minoranze etniche e religiose vengono sistematicamente escluse dalle strutture di potere e dalle opportunità economiche.

Il rapporto evidenzia inoltre che i Talebani hanno concentrato i loro sforzi di applicazione della legge nelle province settentrionali dell’Afghanistan, dove si ritiene che l’opposizione alla legge sia più probabile. I risultati dell’UNAMA indicano una tendenza più ampia al radicamento ideologico da parte dei Talebani, con implicazioni a lungo termine per la governance, l’istruzione e la società civile dell’Afghanistan.

Comunicato – Il governo italiano si impegni contro l’Apartheid di genere

Le notizie di guerra e le preoccupazioni che riempiono i media in questo periodo concorrono a far sembrare ancora più lontano l’Afghanistan e più invisibili le donne sottoposte all’apartheid di genere imposto dai talebani.

Ma le donne afghane non hanno mai smesso di resistere coraggiosamente contro le farneticanti imposizioni di quel governo fondamentalista, non perdendo la speranza nonostante la progressiva completa chiusura di ogni spazio di vita, inventando sempre nuovi modi di aggirare le leggi per sfamare le loro famiglie, studiando di nascosto e leggendo insieme nel chiuso delle loro case e online, continuando a farsi belle sotto il burqa e, più semplicemente, rimanendo in vita nonostante tutti i tentativi di annientarle.

Sebbene i diritti delle donne e delle ragazze afghane siano sempre più esclusi dai problemi che contano per i governi e le istituzioni internazionali – a maggior ragione in questo periodo che vede piccole e grandi potenze impegnate a far diventare normalità quel regime repressivo e violento – alcuni segnali positivi ci sono.

Infatti, oltre ai movimenti democratici e per i diritti umani, sono ormai moltissime le istituzioni internazionali che riconoscono che in Afghanistan è in atto un vero e proprio sistema di apartheid di genere, e alcuni Stati hanno intrapreso azioni per denunciare quel regime ai tribunali internazionali per il mancato rispetto dei trattati che regolano i diritti umani riconosciuti universalmente e dallo stesso Afghanistan.

Perciò crediamo sia doveroso pretendere che anche il nostro governo si impegni in questa direzione, perché lo Stato italiano ha sottoscritto insieme a  molti altri paesi diverse convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne: la convenzione ONU del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne ( CEDAW), il patto internazionale ONU relativo ai diritti civili e politici del 1966, la convenzione europea del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, atti internazionali che pongono a carico dello Stato italiano obblighi a cui non può sottrarsi di fronte alle gravissime violazioni subite dalle donne a livello internazionale.

Il CISDA sollecita quindi con urgenza il governo italiano a un impegno concreto su tutti i fronti istituzionali affinché tali principi siano rispettati, in particolare:

  • negando il riconoscimento di diritto e di fatto al governo fondamentalista dei talebani
  • riconoscendo e denunciando che in Afghanistan è in atto un vero e proprio regime di Apartheid di genere
  • sostenendo l’introduzione del crimine di apartheid di genere nella Convenzione per i crimini contro l’umanità in discussione all’ONU
  • associandosi agli Stati che hanno denunciato i talebani e il loro governo ai Tribunali internazionali
  • impedendo l’agibilità politica ai talebani nei consessi internazionali

Il giorno 8 aprile 2025 il Cisda presenterà una PETIZIONE rivolta al governo con queste richieste attraverso una conferenza stampa in Parlamento (h 13 – Sala Stampa della Camera dei Deputati – Via della Missione 4, Roma), a cui seguirà nei giorni seguenti la consegna delle firme raccolte. 

Interverranno Laura Guercio, giurista del Cisda, Belqis Roshan, senatrice afghana in esilio, Morena Terraschi dell’ANPI provinciale di Roma e le parlamentari rappresentanti di diversi partiti che si sono impegnate a sostenerla.

Nel pomeriggio, sempre a Roma, la petizione sarà presentata al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove interverranno rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni. Ecco gli estremi dell’appuntamento:

8 aprile ore 17:30
Polo Civico Esquilino in via Galilei 57 – Roma

Hanno confermato la loro partecipazione oltre che la dott.sa Laura Guercio e Belqis Roshan, anche l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, la pastora metodista Mirella Manocchio e Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.

Speriamo che questi incontri siano occasioni di sensibilizzazione e conoscenza sul tema dell’apartheid di genere, che non riguarda solo l’Afghanistan ma invece, direttamente o in modo meno esplicito, anche le donne di molti altri Paesi, perché sempre più frequentemente i diritti delle donne sono calpestati da leggi fondamentaliste.

La consegna della petizione non sarà la conclusione della campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI.

Le nostre iniziative per i diritti delle donne afghane e contro l’apartheid di genere continueranno in diverse forme e con l’appoggio della rete di associazioni impegnate con noi a livello nazionale e internazionale.

Una lotta per mantenere viva la speranza: come resistono le donne afghane?

Zahra Nader, Zan Times, 7 marzo 2025

L’11 febbraio ho partecipato a un evento di poesia organizzato da un gruppo di donne in Afghanistan. Sono stata invitata al loro incontro su Google Meet da un’organizzatrice che mi ha anche aggiunta al suo gruppo WhatsApp. L’incontro di poesia era programmato per iniziare alle 21:00 ora locale.

“A causa dell’interruzione di corrente e della lenta connessione a Internet, inizieremo alle 22:00. Sappiamo che la maggior parte di voi non ha elettricità”, ha scritto un organizzatrice sul gruppo WhatsApp, avvisando del ritardo le 368 partecipanti, tutte donne, la maggior parte delle quali vive in Afghanistan.

Alle 22:00 in Afghanistan, mi sono unita all’incontro online. Quella sera, c’erano circa 13 partecipanti, tra cui due organizzatrici, Hijrat e Tahera. Sebbene non si fossero mai incontrate di persona, avevano gestito il loro club del libro online su WhatsApp per tre anni.

Nuovi modi per resistere

Hijrat, che vive nel nord dell’Afghanistan, ha creato il club del libro WhatsApp per promuovere una cultura della lettura tra le giovani durante la pandemia di COVID-19. “È stato un modo per tenerle motivate ​​quando tutti i centri educativi erano in lockdown”, ha detto Hijrat, 23 anni, ex insegnante universitaria, in un’intervista telefonica. Ha pubblicato l’idea di formare un club del libro online sulla sua pagina Facebook e presto si sono iscritte 100 partecipanti, tra cui Tahera, l’altra organizzatrice di quella serata di poesia a febbraio. Dopo che i talebani hanno preso il potere e hanno gettato le donne in un ulteriore isolamento proibendo loro il diritto al lavoro e all’istruzione, le donne hanno deciso di concentrarsi sul mantenere viva la speranza tra le sue partecipanti, che ora sono 370.

Spostarsi online è un modo per le donne in Afghanistan di evitare scontri sempre più pericolosi con i talebani. È anche un modo per organizzarsi, incoraggiarsi a vicenda e resistere agli editti draconiani del regime. La maggior parte delle attiviste ha spostato le proprie organizzazioni online, comprese molte delle donne manifestanti con cui ho parlato negli ultimi 19 mesi. Tuttavia, anche Internet non è completamente sicuro. Alcune sono state costrette a chiudere i propri account sui social media dopo aver notato che la loro presenza online era sorvegliata o che i loro account erano stati hackerati .

Eppure, hanno trovato nuovi modi per resistere. Un mese dopo che i talebani hanno preso il potere, due sorelle si sono rivolte a Internet per far sentire la propria voce: hanno scritto e interpretato ballate di speranza e disperazione che sono diventate virali sui social media. Hanno persino indossato il burqa per mantenere anonima la propria identità. “Questa è la nostra lotta segreta”, mi ha detto una delle sorelle . “Anche da sotto il burqa, abbiamo il coraggio e il potere di far sentire la nostra voce”, ha detto l’altra sorella.

Finora, Hijrat e Tahera sono riuscite a mantenere la loro comunità online al sicuro. Nel loro gruppo WhatsApp, gestiscono un club del libro settimanale. I suggerimenti su quale libro leggere provengono da chiunque nel gruppo. Quindi, le organizzatrici selezionano una rosa di quattro titoli. Le partecipanti  decidono la selezione finale votando in un sondaggio online. La scorsa settimana, è stato selezionato “Three Daughters of Eve” di Elif Shafak, ottenendo 46 voti su 66.

Sebbene il gruppo WhatsApp sia solitamente chiuso alla chat, tranne che per le amministratrici, ogni giovedì viene attivata la funzione di chat per consentire a tutte di condividere i propri pensieri e le proprie critiche sul libro della settimana. Il gruppo è anche il luogo in cui condividono le loro parole scritte, esprimono i loro sentimenti riguardo alle opinioni altrui e, naturalmente, le loro poesie, oltre alla serata mensile di poesia.

Condividere una risata per resistere

“La nostra serata di poesia online è uno spazio in cui si incontrano donne provenienti da diverse parti dell’Afghanistan. Recitiamo poesie e condividiamo una risata per superare questa oscurità”, spiega Hijrat.

Quel sabato di febbraio, prima dell’inizio della serata di poesia, c’è stato un momento di confronto generale per verificare le condizioni di tutte le partecipanti. Una cosa era chiara: tutte erano felici di poter superare le interruzioni di corrente e le connessioni internet lente per partecipare all’incontro.

A turno, hanno recitato le loro poesie preferite, comprese alcune opere originali delle componenti del gruppo. Tra i brani in programma c’erano anche quelli di Simin Behbahani, la più famosa poetessa iraniana, e di Mehdi Akhavan-Salis. I temi delle loro opere hanno avuto un forte impatto sulle loro vite: esperienze di ingiustizia, appelli alla resistenza e desiderio di reagire.

Una partecipante, che non ha indicato la propria provincia, ha letto una poesia appena scritta da sua zia:

“Nella città della rabbia e dello spargimento di sangue, la vita continua! Non ce ne andiamo perché la nostra vita è qui! Anche se le chiudiamo la porta in faccia, essa è ancora dall’altra parte della porta!”.

“Non ti ho mai visto, ma amo la tua voce”, ha detto una delle partecipanti dopo che la lettrice ha terminato il suo turno. Oltre che per la poesia, erano lì per sostenersi a vicenda. Il messaggio che si sono scambiate dopo ogni citazione sembra essere il filo conduttore che le ha sostenute.

“Considerata la situazione, questa è l’unica cosa che possiamo fare ora. Siamo un gruppo di donne accomunate dalla passione per la letteratura e la poesia, quindi ci riuniamo e leggiamo”, ha detto Tahera, l’organizzatrice che vive a Kabul. “Questo è il nostro modo per evitare la disperazione”.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità