Estorsioni in nome della Sharia
Le estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane
Sayeh, شفق همراه, settembre 2025
Le autorità preposte alla promozione del bene e la proibizione del male, che secondo i leader del gruppo talebano dovrebbero attuare la Sharia, sono progressivamente diventati un apparato estorsivo.
Questi funzionari accusano le donne per il mancato rispetto dell’hijab (velo) e per la mancanza di un mahram maschile (parente maschio), mentre gli uomini sono incolpati di indossare abiti contrari alla cultura islamica afghana, di tagliarsi i capelli in violazione della Sharia e di avere tatuaggi. Con minaccie di punizirli, portarli in caserma e rinchiuderli in prigione, li spaventano per poter estorcere loro denaro e oggetti di valore. Queste estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane.
Non si tratta solo di fatti occasionali: ogni giorno ci sono donne e giovani che vengono violate e insultate in qualche parte della città; a causa del “hijab” o del “zahir” (aspetto), subiscono violenze e umiliazioni e sono costrette a pagare e a consegnare i loro beni di valore per non essere portate via e subire abusi.
Sajeda, che ora ha lasciato l’Afghanistan, racconta la sua terribile esperienza: “L’estate scorsa stavo facendo i preparativi per un viaggio e sono uscita di casa per fare degli acquisti. Indossavo uno scialle semplice e modesto, ma avevo lasciato fuori alcune ciocche di capelli che, in realtà, non pensavo potessero essere oggetto di biasimo. Questo, però, è bastato perché la cosiddetta banda talebana mi fermasse”.
Mentre arrivava a Pul-e-Sorkh, incontrò le forze dell’ordine talebane che le ordinano di fermarsi. “Uno di loro disse ad alta voce: ‘Fermati, ragazza. Che razza di vestito è questo?'”.
Quando lei spiegò che il suo vestito era in regola, uno di loro disse che aveva i capelli che uscivano dal velo e che la sua famiglia doveva venire a garantire per lei per
chè fosse lasciata libera. “Mi hanno costretta a seguirli al terzo distretto, ma quando siamo stati nelle vicinanze mi hanno fatta entrare in un vicolo che scende in fondo al mare e uno dei più giovani mi ha detto: ‘Dammi cinquemila afgani e sei libera’. All’inizio ho opposto resistenza e ho detto che non avevo soldi, ma loro non hanno accettato».
Le prensero il cellulare, guardarono le foto contenute e poi, indicando quelle della famiglia, le dissero: ‘La vostra famiglia ha un problema con l’hijab’. Nella galleria del mio cellulare c’erano foto del matrimonio di mio fratello e della mia festa di compleanno. Quando ho detto che quelle foto erano private, uno di loro ha gridato con rabbia: ‘La Sharia deve essere osservata sia in pubblico che in privato’”.
“Mentre ci avvicinavamo al posto di polizia, continuavano a minacciarmi e a ripetermi che il mio crimine era grave, perciò ho capito che mi avrebbero trattenuta e che non avevo alcuna possibilità di venirne fuori. Quindi mi sono decisa a pagare tremila afghani per salvarmi”.
Questo caso mostra come il “mahram” e l’“hijab” non costituiscano un principio religioso per i talebani, ma un mezzo di intimidazione e di controllo finalizzato all’estorsione. Quando una ragazza viene arrestata con l’accusa di aver indossato un velo troppo corto, presa in ostaggio e ricattata con il pretesto di qualche ciocca di capelli e sottoposta a un processo sommario, è evidente che l’obiettivo è il controllo e il ricatto. Questo comportamento intimidatorio e umiliante compromette la sicurezza delle donne anche nelle più semplici attività e movimenti quotidiani.
Anche i ragazzi sono presi di mira
Vahid “Mastar”, un ragazzino che ha un piccolo tatuaggio sul polso ed è stato molestato più volte dai talebani per questo, racconta l’ultima volta che ciò è accaduto: “Avevo fatto il tatuaggio prima che arrivassero i talebani. All’inizio, quando mi rimboccavo le maniche, mi molestavano sempre, perciò lo nascondevo. Questa primavera mentre stavo tornando a casa, non mi ero abbottonato la manica e il mio tatuaggio era visibile. Una persona mi ha invitato a raggiungerla, ma quando ha visto il tatuaggio, mi ha schiaffeggiato e ha detto: “Questo è un segno di infedeltà”.
Però non si trattò solo di una minaccia: lo portò direttamente alla polizia di zona togliendogli il cellulare. «Mi ha fatto passare davanti a un container e ha minacciato di rinchiudermi lì. Uno dei talebani, che non indossava l’uniforme bianca e che non sembrava essere un membro dell’Amr al-Ma’ruf, era seduto su uno sgabello. Mi si è avvicinato e ha detto: “Promettimi che rimuoverai il tatuaggio e verrai rilasciato'”.
Quando ritornò il funzionario talebano, Wahid iniziò a supplicarlo e a promettere di cancellare il tatuaggio. Dopo qualche istante, lui accettò e gli portò carta e penna per scrivere la promessa. “Poi mi disse: ‘Ora ti conosco e se vedo che hai ancora il tatuaggio non ti perdonerò’. Mentre me ne andavo, gli ho detto che aveva il mio cellulare. Mi si avvicinò e mi disse: ‘Non credo che tu abbia capito perché ti ho rilasciato così facilmente’. Mi resi conto che non mi avrebbe restituito il cellulare. Onestamente, ero spaventato perchè avevo visto molte persone picchiate senza motivo”.
Quando Vahid uscì dal commissariato, il funzionario lo seguì e gli fece notare che non aveva affatto un cellulare e che se gli avesse rivisto un tatuaggio, si sarebbe messa male per lui.
Ora le strade di Kabul e di altre città sono diventate un terreno di ricatto e di guadagno per il gruppo talebano; quella che chiamano “imporre ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato” è in realtà una pratica di estorsioni e umiliazioni, un luogo in cui le donne vengono fermate a causa dei loro capelli e il colore dei loro vestiti e i giovani a causa del loro aspetto fisico, mentre sono sottoposti a estorsioni, insulti e umiliazioni.