Skip to main content

Tag: Iran

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

Una petizione e una raccolta firme del Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane chiede al nostro governo e all’Onu di riconoscere un nuovo crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. Intanto è il Parlamento su iniziativa di Laura Boldrini ad accogliere la proposta. Mentre Kabul lancia un ultimatum alle Ong contro l’impiego di personale femminile. Per abbattere le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

ANPI, Redazione, 7 gennaio 2025

Se ne parla da anni, con un nulla di fatto. Ma le donne sono determinate quando si tratta di affermare la loro dignità e la richiesta di rispetto e parità. Perché se la strada del riscatto di genere è lunga e tortuosa, la storia delle battaglie dei movimenti femminili lo è altrettanto, e ha temprato lotta dopo lotta.

Cos’è l’apartheid di genere

L’iniziativa è internazionale, volta a sensibilizzare e ottenere “il riconoscimento legale di qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, stabilisce, mantiene o perpetua il dominio di un genere sull’altro attraverso la segregazione, l’oppressione o la discriminazione”. Questo il significato di “apartheid di genere” elaborato da giuriste del Cisda, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane.

Una nuova fattispecie di reato, dunque, diverso da quello di discriminazione razziale come definito nello Statuto di Roma che, entrato in vigore nel 2002, ha istituito la Corte penale internazionale. Un delitto non ancora previsto dai trattati globali, permettendo così impunità giuridica a chi, realtà statuali o gruppi organizzati, viola i diritti umani con angherie sessuali, stupro, negazione dei diritti riproduttivi, sia delle donne sia della comunità Lgbtqi+.

Come sottolinea la campagna lanciata dal Cisda esiste una stretta relazione tra l’apartheid di genere e tutti i fondamentalismi. Perché il tema non riguarda unicamente alcune rigide interpretazioni dei precetti islamici o le posizioni estreme dei movimenti cristiani antiabortisti, e nemmeno solo la religione. Abita dovunque, precisa l’associazione, prevalga con la forza e la violenza l’idea che tra sfera pubblica – fedeltà a un credo o a una visione politica – e vita civile non ci possa essere distinzione.

La campagna del Cisda, a cui tra le altre associazioni ha subito aderito l’Anpi con il Coordinamento Donne, è stata lanciata, o meglio rilanciata lo scorso 10 dicembre, Giornata mondiale per i diritti umani, in vista del Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in elaborazione alle Nazioni Unite. Le negoziazioni vere e proprie saranno avviate nel 2028 e 2029, quindi per l’iter necessario a stabilire accordi internazionali il tempo stringe.

L’etimologia della parola apartheid deriva dalla lingua afrikaans dei coloni bianchi nell’Africa meridionale, ma il termine è ormai utilizzato a livello globale per indicare una forma di dominio sistematico di una categoria, sia etnica sia di genere sull’altra. Proprio come in Afghanistan, dove alle donne è vietato perfino parlare in pubblico.

Si tratta anche di assumersi una responsabilità storica e politica: Paesi e potenze mondiali dove la laicità è un valore condiviso, pur di garantire “la loro egemonia coloniale hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti, generando decenni di guerre con migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate”. Così con i talebani e così dopo il crollo del regime di Assad in Siria, arrivando al paradosso di sentir definire “ribelli” i paramilitari dell’impronunciabile Al Qaeda, ora dipinta in Occidente come democratica e liberatrice.

Il dibattito a Montecitorio

Pochi giorni fa, l’Italia grazie a una mozione presentata da Laura Boldrini in Commissione Esteri a Montecitorio (presieduta da Giulio Tremonti, che con la “cultura non mangia, ricordate”?), ha accolto all’unanimità la proposta di introdurre nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu il reato di “segregazione di genere”.

In un’oretta di dibattito, dove la Lega avrebbe voluto che “genere” si riferisse “esclusivamente ai due sessi, maschile e femminile, escludendo la tutela della comunità Lgbtqi+, e altri rappresentanti della maggioranza di governo (per esempio Forza Italia) si siano opposti ad adottare il termine “apartheid”, nonostante in sede di Parlamento europeo lo scorso settembre avessero votato favorevolmente, il risultato è stato tuttavia raggiunto. Frutto di mediazione lessicale, il vocabolo “segregazione” proposto dal Pd ha messo tutti d’accordo.

Ben disposto anche il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli (arrivato agli onori delle cronache una manciata di giorni fa per aver affermato che “Il tratto distintivo più profondo del fascismo era uno spirito straordinario di libertà”). Conclusione: nonostante la riformulazione non corrisponda esattamente agli obiettivi prefissati “L’Italia sosterrà l’introduzione del reato di ‘segregazione di genere’ nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu”.

Resta essenziale quindi, politicamente ed eticamente, sostenere la campagna del Cisda. Perché bisogna salvare vite umane in Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Yemen, dovunque l’essere donna è in sé fonte di “persecuzione di Stato”.

CLICCA QUI PER FIRMARE

Per sottoscrivere la petizione “STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE” si può cliccare direttamente al link https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere. Sulla pagina online del Cisda inoltre è disponibile utile materiale informativo https://www.cisda.it/wp-content/uploads/2024/12/Press-Kit.zip

L’associazione chiede inoltre al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania, Paesi Bassi, e appoggiata da altri 22 Stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale (dove devono rispondere gli Stati) per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, il primo e finora il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne), di cui l’Afghanistan è firmatario.

Cisda inoltre chiede che Palazzo Chigi supporti l’attività di Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico di sottoporre alla Corte Penale Internazionale (che si occupa dei crimini commessi da persone in carne e ossa) per ulteriori indagini le continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

La capacità di lotta delle donne è straordinaria

Le donne di tutto il mondo possiedono una straordinaria capacità di fare tesoro delle lotte di altre donne, indipendentemente dai confini nazionali. Questa solidarietà femminile trascende le divisioni politiche, culturali e geografiche, creando una rete globale di supporto e resistenza.

La storia propone esempi. Già nell’antica Grecia, donne come Saffo e Aspasia hanno cercato di sfidare le norme patriarcali della loro epoca. Durante la Rivoluzione Francese, le femmes parigine marciarono su Versailles per chiedere pane e giustizia, un atto di coraggio che ispirò future generazioni di attiviste. Allo stesso modo, le suffragette britanniche all’inizio del XX secolo lottarono instancabilmente per il diritto di voto, influenzando movimenti simili in tutto il mondo.

Durante la Resistenza italiana le donne hanno svolto un ruolo fondamentale, non solo nella lotta contro l’occupazione nazifascista ma anche nella costruzione di una rete di solidarietà che ha superato i confini nazionali. Come corriere, infermiere e combattenti, le donne italiane hanno mostrato una straordinaria determinazione. La loro lotta non si è limitata al contesto locale; ha infatti ispirato e ricevuto sostegno da donne in tutto il mondo, creando un legame di solidarietà internazionale.

In tempi più recenti, abbiamo assistito a un incremento della solidarietà femminile internazionale.

Il movimento delle donne curde ha svolto un ruolo cruciale nella difesa e liberazione dall’Isis della regione autonoma del Rojava in Siria. Il loro motto “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà) è migrato in Iran dopo l’uccisione da parte della polizia morale iraniana di Masha Amini per sfidare le restrizioni imposte dal regime, con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Un grido che ha visto milioni di donne, da Teheran a New York, unirsi per chiedere cambiamenti significativi.

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, dal 19 dicembre scorso detenuta nel carcere di Evin, periferia della capitale, fa riflettere. Non sono state formulate precise accuse formali, solo uno scarno comunicato dell’agenzia statale Irna: “La cittadina italiana è arrivata in Iran il 13 dicembre con un visto giornalistico ed è stata arrestata il 19 per aver violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran”. Seppur si sospetta che la vicenda possa essere una rappresaglia per l’arresto in Italia di un ingegnere iraniano, il caso evidenzia le difficoltà e le sfide che le donne giornaliste affrontano in Paesi dove i diritti umani sono costantemente violati.

Le donne afghane, sotto il regime talebano, trovano nella comunità internazionale una voce che amplifica le loro richieste di diritti fondamentali. E Kabul continua con il pugno di ferro. In una lettera pubblicata qualche giorno fa su X (il social di Musk) il ministero dell’Economia del Paese ha minacciato la chiusura di tutte le ONG che impiegano donne afghane, minacciando di sospendere le attività e revocare le licenze alle organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese nei progetti di sviluppo e di aiuto.

Le guerre sono le più acerrime nemiche dei diritti delle donne. Le donne di Gaza stanno affrontando da quindici mesi una realtà devastante, segnata da sofferenze inimmaginabili. L’aggressione targata Netanyau ha causato nella Striscia la morte di oltre 41.600 persone e ne ha ferite 96.000, la maggior parte donne e bambini. La mancanza di accesso a servizi essenziali come ospedali, acqua e cibo aggrava ulteriormente la situazione. Molte donne incinte e in fase di allattamento affrontano sfide critiche per accedere alle cure prenatali e postnatali.

Un altro esempio di lotte comuni dei nostri tempi è quello delle donne migranti, che spesso affrontano discriminazioni e violenze. In risposta, organizzazioni femminili in diversi Paesi hanno creato reti di supporto per offrire assistenza e protezione, dimostrando che la forza della solidarietà può superare le barriere più ostili.

La capacità di fare patrimonio delle battaglie di altre donne è una delle più grandi risorse del movimento femminista. È un richiamo potente alla giustizia e all’uguaglianza, unito dalla convinzione che i diritti delle donne non possono essere limitati da confini nazionali. La lotta di una donna in un angolo del mondo è la lotta di tutte le donne, ovunque esse siano.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane.

La lotta contro l’apartheid di genere è una battaglia cruciale per i diritti umani non solo delle donne, nel XXI secolo è di tutte e tutti.

 

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.