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Tag: Iran

“Ci hanno buttati via come spazzatura”: l’Iran accelera la deportazione di 4 milioni di afghani prima della scadenza

The Guardian, 7 luglio 2025 di Hamasa Haqiqatyar e Rad Radan, da Zan Times

Migliaia di donne sole costrette a tornare affrontano una repressione estrema e l’indigenza a causa delle leggi dei talebani che proibiscono loro di lavorare o viaggiare senza un tutore maschio.

I rifugiati costretti a tornare a vivere sotto il regime sempre più repressivo dei talebani hanno parlato della loro disperazione mentre l’Iran accelera la deportazione di circa 4 milioni di afghani fuggiti nel paese.

Solo nell’ultimo mese, oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, sono tornate in Afghanistan dall’Iran, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni. I numeri sono aumentati prima della scadenza di domenica, fissata dal regime iraniano, per tutti gli afghani senza documenti che devono lasciare il Paese.

I talebani, tornati al potere nel 2021, sono stati accusati di aver imposto un sistema di apartheid di genere in Afghanistan. Le donne che tornano nel Paese devono convivere con leggi oppressive che impediscono loro di mostrare il proprio volto, parlare o apparire in pubblico, oltre a essere escluse dalla maggior parte dei lavori e dell’istruzione. Chiunque venga sorpreso a violare queste regole rischia la fustigazione in pubblico .

Una donna dietro il finestrino di una cabina parla con una donna che indossa un velo in prima fila fuori

Parlando con il Guardian e con l’agenzia di stampa afghana Zan Times , a un valico di frontiera nel sud dell’Afghanistan, Sahar*, 40 anni, viaggia con cinque figli e afferma di non avere idea di dove andrà a vivere ora. Vedova originaria di Baghlan, una città nel nord dell’Afghanistan, viveva in Iran da oltre un decennio. Gestiva una piccola sartoria e aveva recentemente versato una caparra per una casa. La scorsa settimana, racconta, è stata arrestata, prelevata con i figli da un campo profughi vicino alla città meridionale di Shiraz e deportata.

“Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato.” Sahar, deportata afghana “Non sono nemmeno riuscita a mettere in valigia i loro vestiti. Sono arrivati ​​nel cuore della notte. Li ho implorati di darmi solo due giorni per recuperare le mie cose. Ma non mi hanno ascoltato. Ci hanno buttati fuori come spazzatura.”

Fino a poco tempo fa, le donne venivano raramente rimpatriate forzatamente dall’Iran. Gli uomini, spesso lavoratori clandestini, avevano maggiori probabilità di essere arrestati ed espulsi. Ma i funzionari di frontiera afghani affermano che di recente si è verificato un cambiamento, con almeno 100 donne non accompagnate espulse attraverso un unico valico di frontiera nella provincia di Nimroz, nel sud del Paese, tra marzo e maggio di quest’anno.

Tornare in Afghanistan senza un tutore maschio mette le donne in diretto conflitto con la legge talebana, che proibisce loro di viaggiare da sole. Molte di quelle rimpatriate dall’Iran si ritrovano bloccate al confine, impossibilitate a proseguire il viaggio.

Con temperature che ora raggiungono i 52 °C, le autorità locali affermano che diverse persone sono morte durante gli attraversamenti forzati. I funzionari di frontiera affermano che almeno 13 corpi sono arrivati ​​nelle ultime due settimane, ma non è chiaro se siano morti per il caldo e la sete o se siano stati uccisi durante i raid aerei israeliani in Iran.

Chi arriva ai valichi di frontiera nell’Afghanistan meridionale dice di essere assetato, affamato ed esausto, dopo aver camminato per ore sotto il sole. La maggior parte non ha effetti personali, documenti o un piano su dove vivere.

“Da Shiraz a Zahedan [vicino al confine afghano], ci hanno portato via tutto. Sulla mia carta di credito c’erano 15 milioni di toman (110 sterline) . Una bottiglia d’acqua costava 50.000 toman, un panino freddo 100.000. E se non ce l’avevi, tuo figlio se moriva”, racconta Sahar.

I talebani affermano di offrire alloggio a breve termine e assistenza per il trasporto alle donne deportate senza un mahram (un uomo adulto che possa accompagnarle durante il viaggio). Ma molte rimpatriate affermano di non aver ricevuto alcun aiuto. Secondo la politica dei talebani, alla maggior parte delle donne single è vietato ricevere terreni, viaggiare da sole nella propria provincia d’origine o trovare un impiego.

Sahar dice che le sue opzioni in Afghanistan sono scarse. Ha una madre anziana a Baghlan, ma non ha casa, lavoro e marito, il che significa che, sotto il regime talebano, non può viaggiare da sola né lavorare legalmente. “Ho chiesto terra [ai talebani], qualsiasi cosa per ricominciare. Mi hanno detto: ‘Sei una donna, non hai mahram. Non hai i requisiti'”.

Molti finiscono per affidarsi alla famiglia allargata o a reti informali. Una donna, tornata di recente con un neonato, racconta di essersi vista negare cibo e alloggio. “Mi hanno detto: ‘Non sei idonea. Non hai un uomo con te’. Ma il mio bambino ha solo quattro giorni. Dove dovrei andare?”

L’agenzia delle Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e altri gruppi forniscono aiuti temporanei ai valichi di frontiera, ma non hanno il mandato o le risorse per un supporto a lungo termine.

Sugli autobus che trasportano le deportate dai centri di detenzione ai confini con l’Afghanistan, le donne raccontano anche di essere state oggetto di abusi verbali, richieste di tangenti per i servizi di base e di mancanza di aria condizionata a causa del caldo estremo. “Dicevano che era uno spreco per voi afghani. Mio figlio piangeva per il caldo, ma l’autista rideva e ci prendeva in giro”, racconta Zahra*.

* I nomi sono stati cambiati

Kreshma Fakhri ha contribuito a questo articolo.

[Trad. automatica]

 

All’ombra della guerra e della repressione: un messaggio dalla prigione di Qarchak

Sillingers Collective, 2 luglio 2025

Lettera aperta di Golrokh Iraee, Reihaneh Ansari e Verisheh Moradi dalla prigione di Qarchak

Non consideriamo la nostra sofferenza di oggi più grande di quella che è stata imposta al popolo iraniano. Lunedì 23 giugno, mentre oltre tremila persone erano rinchiuse dietro le porte chiuse in varie sezioni della prigione di Evin, i razzi israeliani hanno colpito il complesso carcerario e i suoi edifici. Oltre alle vittime, non si hanno ancora notizie di alcuni detenuti che erano rinchiusi in celle di isolamento.

Martedì mattina, le donne di Evin sono state trasferite nelle carceri di Qarchak e Varamin, sottoposte a severe restrizioni di sicurezza, e circa tremila uomini di Evin sono stati trasferiti nella prigione di Teheran Grande. Sebbene ci troviamo in condizioni peggiori rispetto a prima del nostro trasferimento, dichiariamo, insieme ai nostri compagni e fratelli della prigione di Teheran Grande che sono stati attaccati e sottoposti a pressioni contemporaneamente a noi, che la situazione attuale non fermerà la nostra lotta. Perché sappiamo che questo percorso non è mai stato privo di difficoltà.

Dalla Rivoluzione Costituzionale a oggi, nonostante le numerose guerre, i colpi di stato contro il popolo, il massacro di persone indifese e di dissidenti politici da parte di regimi autoritari nel corso dell’ultimo secolo, e i molti alti e bassi di cui la storia è testimone, il cammino della lotta continua. Oggi siamo nella prigione di Qarchak, ad affrontare le condizioni che più di mille donne con varie accuse hanno sopportato e vissuto per anni. Donne ai margini, che recano sofferenze impresse nel profondo dei loro occhi, testimonianze dei cicli di ingiustizia che ci uniscono nella lotta per spezzarli. Sono le naufraghe ai margini della società, che non trovano posto in nessuna dimensione della vita, non sono presenti nei notiziari o nei media e non sono menzionate nei rapporti sui diritti umani. I loro nomi, le loro storie e il loro dolore rimangono invisibili e inascoltati.

Ciò che ci ha stupite negli ultimi giorni è la verità della vita di queste donne. Donne piegate su letti corti grandi come tombe, desiderose delle più elementari condizioni di vita e di igiene. Tra muri lerci e incrostati che portano il segno di anni di privazioni, molte di loro, senza un solo rial a disposizione, si offrono ai loro compagni di cella solo per i soldi delle sigarette. Per sfruttamento. Per lo sfruttamento sessuale. E si sottopongono a ogni forma di umiliazione. Per riempire lo stomaco. E per ottenere il minimo di ciò che desideravano. Lavorano nella sezione di lavoro del carcere e si prodigano quotidianamente senza sosta (dal trasporto di cibo e rifiuti alla pulizia delle aree di riposo e ai contatti con le guardie carcerarie), senza ricevere alcun salario, solo per qualche minuto in più di telefonate.

Nell’officina del carcere, sono impegnate a cucire e cucire per ottenere un pacchetto di sigarette alla fine della giornata. Queste sono le donne da cui noi, come prigioniere politiche, siamo solitamente separate, a meno che le autorità non ci mettano deliberatamente insieme come forma di punizione o esilio. E ora, anche se siamo state sistemate nella prigione di Qarchak separatamente da loro, le nostre disgrazie non sono separate dalle loro.
Accanto alle instancabili lotte dei popoli contro la dittatura, con obiettivi precisi e una linea d’azione decisa, continueremo a percorrere il cammino della resistenza fino al rovesciamento e all’eliminazione di ogni forma di tirannia. E al fianco di queste vittime dimenticate che sono state escluse dal flusso della vita, rilanciamo la nostra resistenza con maggiore determinazione di prima. E a coloro che alzano le loro voci per noi e per le nostre difficili condizioni, diciamo con voce ancora più forte: ciò che ci è stato imposto oggi non è più grande degli anni di sofferenza che queste donne hanno patito. Quindi impegnatevi per migliorare le condizioni di “noi”, a prescindere dalle accuse che ci vengono rivolte, e per migliorare le condizioni di “noi” che siamo state trasferite nelle carceri di Qarchak e della Grande Teheran, a prescindere dal nostro sesso.

E sappiate che coloro che sono scomparsi sotto le macerie dell’attacco e coloro che sono stati scacciati dal circolo spietato della vita hanno bisogno di aiuto più di noi.
Che noi si possa essere un anello della catena della lotta del popolo iraniano per l’uguaglianza e la libertà, un popolo che ha sopportato oltre un secolo di tirannia e sfruttamento e che continua ad andare avanti.

[Trad. a cur di Cisda]

Il velo ci riguarda tutte

 

Non solo in Iran, o in Afghanistan… il velo ci riguarda tutte. Una riflessione di Giuliana Sgrena

Giuliana Sgrena,  Facebook, 4 luglio 2025

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.

A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura».

Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi.

Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?

Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.

Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.

 

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.
A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura». Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi. Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?
Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.
Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.

A giugno, secondo le Nazioni Unite, oltre 250.000 afghani hanno lasciato l’Iran

Aleks Phillips, Soroush Pakzad, BBC, 1 luglio 2025

Più di 256.000 afghani hanno lasciato l’Iran nel solo mese di giugno, segnando un’impennata nei rientri in Afghanistan da quando Teheran ha fissato una scadenza rigida per i rimpatri, come dichiarato dall’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato 28.000 afghani che hanno lasciato l’Iran in un solo giorno a giugno, dopo che il regime iraniano ha ordinato a tutti gli afghani sprovvisti di documenti di lasciare il Paese entro il 6 luglio.

Il numero di rifugiati afghani in Iran è aumentato da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021; molti di loro vivono senza uno status legale.

Ciò ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-afghano in Iran, dove i rifugiati devono affrontare discriminazioni sistematiche.

Afghani rimpatriati con la forza

L’OIM ha dichiarato che, da gennaio, più di 700.000 afghani hanno lasciato l’Iran e il portavoce Avand Azeez Agha ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che il 70% di loro è stato “rimandato indietro con la forza”.

L’aumento dei rimpatri e la scadenza sono avvenuti dopo che Iran e Israele hanno ingaggiato un conflitto diretto, iniziato con l’attacco di Israele a siti nucleari e militari a metà giugno. Da allora è stato mediato un cessate il fuoco.

Mentre i due Paesi si scambiavano attacchi quotidiani, il regime iraniano ha arrestato diversi migranti afghani sospettati di spionaggio per conto di Israele, come riportato dai media statali.

In seguito a queste denunce, è iniziata una nuova ondata di rimpatri forzati. L’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Mehr ha riferito che la polizia era stata incaricata di accelerare le deportazioni, ma la polizia ha poi smentito.

“Abbiamo paura ad andare ovunque, perché c’è sempre il timore che ci accusino di essere spie”, ha dichiarato alla BBC Persian un migrante afghano in Iran, che non nominiamo per proteggerne l’identità.

“Ai posti di blocco perquisiscono le persone e controllano i telefoni . I messaggi o i video di media stranieri sui social network possono letteralmente mettere in pericolo la vita di chi li ha”.

“Molti iraniani ci insultano, dicendo ‘Voi afghani siete spie’ o ‘lavorate per Israele'”.

Numerose notizie riportate dai media iraniani indicano che sono stati espulsi con la forza anche afghani in possesso di visti e documenti validi. Alcuni, rilasciati dopo essere stati arrestati, hanno dichiarato di essere stati accusati dai funzionari di aver tradito il Paese.

Arafat Jamal, coordinatore dell’UNHCR per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Iran, “le conseguenze di quella guerra continuano”.

“Questo movimento di espulsione era precedente, ma è stato esacerbato dalla guerra”, ha dichiarato alla BBC Pashto.

“I rimpatriati raccontano di una serie di azioni, alcune piuttosto coercitive, altre meno, che li hanno spinti a tornare”.

Sottoposti a oppressioni ovunque

I rifugiati afghani non hanno diritto alla cittadinanza iraniana, neanche se sono nati nel Paese, e molti di loro non possono aprire conti bancari, acquistare carte SIM o vivere in determinate aree. Anche le opportunità di lavoro sono fortemente limitate e spesso si riducono a lavori coercitivi con bassi salari.

In questa fase di allontanamento, le autorità iraniane hanno anche esortato il pubblico a denunciare gli afghani senza documenti.

“Ci sono oppressori qui e oppressori là”, ha detto un altro afghano in Iran. “Noi migranti non siamo mai stati liberi, non abbiamo mai vissuto una vita libera”.

Un altro ha dichiarato: “Il futuro degli afghani che vivono in Iran sembra davvero tetro”, aggiungendo: “La polizia è violenta e umiliante e ora anche i Basij [milizie volontarie] sono stati incaricati di arrestare gli afghani”.

L’aumento dei rimpatri arriva dopo che il Pakistan ha intensificato le proprie azioni di espulsione degli afghani senza documenti, affermando di non essere più in grado di ospitarli.

Jamal ha dichiarato che quest’anno il numero di rifugiati afghani rientrati in patria dall’Iran e dal Pakistan ha superato il milione. Pur ringraziando entrambe le nazioni per aver accolto, negli ultimi decenni di instabilità, milioni di afghani ha esortato i due Paesi a cercare una soluzione comune alla crisi.

Dichiarazione di quattro prigioniere politiche nel carcere di Evin

Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane), 24 giugno 2025

Questa è una traduzione dal farsi di un comunicato pubblicato sulla pagina del Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane). Ho scelto di tradurlo per contribuire a colmare il vuoto informativo in lingua italiana, dove una parte della diaspora iraniana — spesso vicina a posizioni monarchiche o, purtroppo, apertamente favorevole al genocidio in corso — sta disinformando e confondendo l’opinione pubblica. Mentre vincitrici del Premio Nobel per la Pace o registi premiati con riconoscimenti politicizzati scelgono di tacere sull’illegalità di un attacco al proprio Paese e si concentrano solo sulla questione dell’arricchimento dell’uranio, leggete cosa scrivono combattenti e prigioniere politiche dal carcere di Evin.

“L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” è fondata su “aggressione” e “infanticidio”

Quattro donne prigioniere politiche nel carcere di Evin, tra cui Variesheh Moradi, condannata a morte, hanno pubblicato una dichiarazione con tono deciso, in cui definiscono i crimini del regime israeliano a Gaza e in altri Paesi del Medio Oriente come “genocidio” e “barbarie sistematica”, criticando duramente il sostegno delle potenze globali, in particolare degli Stati Uniti, a tali crimini. Sottolineando che Israele è nato con l’occupazione e la violenza, affermano che fare affidamento su forze del genere è un tradimento nei confronti del popolo iraniano e delle genti della regione.

Testo integrale della dichiarazione

Israele è nato attraverso massacri e crimini, ha preso possesso delle terre con l’occupazione, e nel corso della sua esistenza ha trasformato il Medio Oriente in un campo di guerre infinite con aggressioni e genocidi.

Israele, come avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente, è emerso come rappresentante delle superpotenze mondiali nel dopoguerra e fin dall’inizio ha mostrato la sua barbarie al mondo: in Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen, e più recentemente con il genocidio a Gaza.

In nessuno di questi Paesi si sono trovate armi nucleari né vi erano preparativi per l’arricchimento dell’uranio.

Il genocidio non ha bisogno di una giustificazione logica, ma la democrazia occidentale cerca sempre un pretesto per giustificare la sua barbarie permanente e per conservare la facciata democratica che rivendica.

L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” si è formata attraverso l’aggressione e l’infanticidio; ovunque si siano rivolti, hanno portato solo guerra e distruzione.

Condanniamo l’attacco all’Iran, l’uccisione di civili e la distruzione delle infrastrutture del Paese da parte del “regime sionista” e dei suoi sostenitori americani — come condanniamo anche gli altri loro crimini nel mondo e nel Medio Oriente.

Il sostegno a Israele e la fiducia nel suo potere distruttivo da parte di qualsiasi individuo, gruppo o movimento politico, qualunque sia il sogno o l’illusione perseguita, è anch’esso condannabile e riflette la bassezza e la meschinità dei suoi sostenitori.

La nostra liberazione, quella del popolo iraniano, dal regime dittatoriale che governa il Paese, sarà possibile solo con la lotta delle masse e facendo affidamento sulle forze sociali — non sperando nel sostegno delle potenze straniere.

Queste potenze, che da sempre perseguono i propri interessi attraverso lo sfruttamento, il colonialismo, le guerre e i massacri, non porteranno altro che rovina e una nuova forma di sfruttamento per i Paesi della regione.
La distruzione delle infrastrutture della Siria dopo la caduta di Assad, e la prospettiva di applicare lo stesso metodo in Iran, dimostrano la brama di Israele per un Medio Oriente debole e soggiogato.

Questo indica che, nel nuovo disegno per il Medio Oriente, potrà sopravvivere solo un ordine che accetti senza condizioni il dominio di “Israele” sulla regione.

Ai traditori dell’Iran,
ai traditori dei popoli del Medio Oriente,
ai traditori delle lotte per la libertà del popolo contro l’oppressione:
sappiate che il vostro tradimento e la vostra ignominia saranno registrati nella memoria del popolo iraniano e nella storia.

Le generazioni future ricorderanno con vergogna coloro che hanno danzato sui cadaveri di un popolo indifeso.
Reyhaneh Ansari,
Sakineh Parvaneh,
Varisheh Moradi,
Golrokh Iraee

Carcere di Evin”

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

Nessuna terra da considerare sicura: una donna afghana a Teheran sotto bombardamento

Zan Times, 19 giugno 2025 , di Sarah Hossaini

Sono Sarah Hossaini e scrivo questo mentre la guerra tra Israele e Iran entra nel suo quarto giorno.

Tutto è iniziato esattamente alle 3:30 di venerdì mattina, quando ho sentito il rumore della prima esplosione in lontananza. Ho pensato che potessero essere i petardi per l’Eid al-Ghadir. La seconda esplosione è arrivata pochi istanti dopo, e di nuovo l’ho scambiata per una festa. Ma quando è risuonata la terza esplosione, la mia compagna di stanza ha urlato a squarciagola: “È successo qualcosa!”

Guardammo fuori dal quarto piano del dormitorio. Attraverso la finestra, vedemmo una densa colonna di fumo che si levava verso il cielo in lontananza.

Eravamo terrorizzati. Mi sembrava che gli occhi mi stessero uscendo dalle orbite, non sapevo cosa fare. Entrambe preparammo velocemente le nostre cose. Io buttai nello zaino il portatile e i documenti che avevo accumulato in Iran in anni di lavoro, e corremmo fuori nel cortile.

Quei momenti di panico furono profondamente sconvolgenti per me e per le altre ragazze afghane del dormitorio: un’esperienza amara che stavamo vivendo per la seconda volta. Trattenevamo il respiro, ignare del destino che ci attendeva.

Verso le cinque o le cinque e mezza del mattino, tornammo in camera. Non avevo dormito tutta la notte, e quel giorno finalmente mi addormentai, consumata dalla paura e dalla preoccupazione.

Quel giorno passò con ansia, ma senza più esplosioni. Verso le 18:30, andai nella stanza di un’altra ragazza nel dormitorio. Eravamo tutte sedute lì, pronte a prendere le nostre cose e a correre in cantina se fosse successo qualcosa.

E poi, di nuovo, un altro boom terrificante.

Tutti andarono nel panico. Corsi in camera mia. Quel giorno ero andata al supermercato e avevo comprato tonno in scatola, biscotti, bibite e pane, giusto per ogni evenienza, per sopravvivere qualche giorno se fosse successo il peggio.

Quella notte intera rimanemmo nel seminterrato del dormitorio, circondati da rumori assordanti. Alle 7 del mattino tornammo nelle nostre stanze.

Quattro giorni di guerra

Sono trascorsi quattro giorni dall’inizio della guerra tra Israele e Iran: giorni amari e dolorosi che riecheggiano i ricordi strazianti dello sfollamento del popolo afghano, in particolare di coloro che sono fuggiti in Iran in cerca di rifugio dall’insicurezza, dalla paura e dai talebani.

Quattro anni fa, quando i talebani presero il potere, ero a Kabul per un incarico di lavoro, proveniente da Mazar-e-Sharif. Durante la caduta di Kabul, cercai rifugio a casa di un parente nella parte occidentale della città. Rimasi lì da solo per un mese intero, con ogni respiro pesante nel petto, intrappolato in un silenzio soffocante.

All’epoca, seguivo le notizie in TV, guardando le scene dall’aeroporto. La folla si accalcava. C’ero andato anch’io. La gente guadava fossi sporchi, disperata per raggiungere la salvezza. Anch’io ero in quella fogna, umiliata e distrutta. Il trauma persiste ancora. Dopo anni di sforzi e lavoro, la nostra gente ha mendicato nelle fogne solo per fuggire dall’Afghanistan.

Alla fine sono arrivata in Iran con un visto per studenti, perché persino la mia casa non era più un posto sicuro.

Sono quasi quattro anni che vivo in Iran: apolide, senza un soldo, in difficoltà psicologiche e senza futuro. Questi sono gli ultimi giorni del mio visto studentesco. Nonostante mi aggrappassi alla speranza ormai affievolita che le ambasciate mi aprissero una porta, non si è mai concretizzato alcun segno di quella speranza.

Esausta e disperata, cercavo di trovare una via d’uscita da questo limbo, quando è iniziata la guerra tra Iran e Israele, rendendo tutto ancora più insopportabile.

Ora, non ho futuro in Afghanistan, dove governano i talebani, e non c’è sicurezza in Iran, in queste condizioni terrificanti.

Ancora una volta, come anni fa, ho fatto le valigie nella speranza di sopravvivere e mi sono rifugiata a casa di un parente in un angolo sperduto di Teheran.

Dal primo giorno dell’attacco fino ad oggi, il quarto giorno, mi sono sentita persa, incerta su dove andare, sotto shock, incapace di decidere.

Altri paesi hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare l’Iran, ma solo i cittadini afghani restano intrappolati nell’incertezza più totale.

Non c’è posto per noi, nessun rifugio sicuro, nessun rifugio, soprattutto per le migliaia di ragazze afghane vulnerabili che sono arrivate in Iran per disperazione, private del diritto all’istruzione nel loro Paese, nella speranza di trovare un barlume di opportunità e continuare gli studi. Ora, in questo momento terrificante, quelle stesse ragazze sono state lasciate ancora una volta completamente sole.

Io sono uno di loro: una che è stata costretta a venire in Iran perché non aveva altra scelta. E ora, tutto ciò che cerco di fare è sopravvivere.

Mi chiedo: qual è il mio ultimo rifugio sicuro? Quanto a lungo potrò sopportare questa infinita incertezza?

Sono una ragazza fuggita dalla guerra, che ha cercato rifugio in Iran. Ora, dove posso andare da qui?

Sarah Hossaini è lo pseudonimo di una giornalista iraniana.

Il partito curdo Pjak: «Questa non è una guerra di liberazione»

Il Manifesto, 17 giugno 2025, di Tiziano Saccucci

Intervista Parla il membro del Politburo, Siamand Moeini

In risposta ai raid aerei israeliani sul territorio iraniano, il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak), promotore del progetto del confederalismo democratico nel Rojhilat (Kurdistan orientale), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà), slogan che nel 2022 ha scosso l’Iran dopo l’assassinio da parte delle forze di sicurezza della ventiduenne curda Jina Amini.

Nel comunicato, il Pjak afferma: «Questa è una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni», aggiungendo che solo una lotta popolare può portare alla libertà in Iran: «Il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale». Per Siamand Moeini, membro del consiglio di leadership del Pjak e co-presidente del partito dal 2018 al 2024, «la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica». Moeini ha ricordato come «fin dall’inizio, la Repubblica islamica dell’Iran ha avviato il suo dominio assassinando la gioventù iraniana e trasformando il Kurdistan in una terra di fuoco e sangue».

NATO NEL 2004, il Pjak è stato coinvolto in numerosi scontri con le forze di sicurezza iraniane, culminati nel 2011 in una vasta operazione militare guidata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica terminata con un cessate il fuoco firmato da entrambe le parti. «I governanti hanno dato inizio a questa guerra e i costi sono sopportati da una popolazione già colpita da crisi sociali ed economiche. L’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, mette in luce la tragica realtà che gli Stati attribuiscono scarso valore alla vita umana», prosegue Moeini, secondo cui tuttavia un indebolimento della Repubblica islamica «creerebbe un’opportunità per il popolo iraniano di proseguire la propria lotta contro la dittatura in varie forme».

Il leader di Pjak rivela che i raid israeliani hanno spaventano non poco i funzionari del regime nella regione curda: «Negli ultimi tempi appartenenti alle forze armate locali al servizio del regime hanno cercato di contattarci per assicurarsi un futuro, e questi contatti sono aumentati notevolmente nelle ultime settimane».

Nel suo comunicato, Pjak ha invitato la comunità curda, in particolare i partiti politici, a collaborare, a partire dalla creazione di gruppi di sostegno per le vittime della guerra e comitati di soccorso e cooperazione finanziaria. «Abbiamo buone relazioni con gli altri partiti curdi. Abbiamo incontri regolari e, in alcuni casi, cooperazione pratica – racconta Moeini – Abbiamo anche relazioni strette e sincere con gruppi di altre nazionalità, comprese le comunità baluche e arabe».

NONOSTANTE IL PJAK non sia l’unico partito curdo attivo in Iran, dopo lo scoppio delle proteste del 2022, Teheran ha reagito bombardando i campi dei gruppi curdi-iraniani nella Regione del Kurdistan in Iraq e firmando un accordo con il governo regionale guidato dalla famiglia Barzani, che ha costretto tre partiti – Pdk-I, Pak e Komala – al disarmo e alla ricollocazione nell’entroterra. L’accordo non ha colpito il Pjak, che rivendica ancora una presenza attiva in territorio iraniano: «Siamo l’unica organizzazione con una struttura e forze militari operanti all’interno dell’Iran. Abbiamo la capacità di intervenire in difesa del nostro popolo se necessario. Se le forze repressive della Repubblica islamica agiscono violentemente, la nostra nazione ha il diritto innegabile all’autodifesa», afferma Moeini.

DOPO LA DECISIONE del Pkk di concludere la lotta armata, Amir Karimi, neo eletto co-presidente del Pjak, aveva dichiarato: «Noi non deporremo le armi né ci scioglieremo», chiarendo tuttavia che «le armi servono per l’autodifesa». Anche Moeini ha ribadito la linea del partito nel cercare di evitare il conflitto: «Non abbiamo mai cercato guerra o spargimento di sangue e abbiamo sempre sostenuto soluzioni dialogiche e democratiche all’interno della società. Sebbene ci siano stati diversi scontri negli ultimi anni, abbiamo sempre cercato di evitare il confronto militare. Ma se il regime agisce violentemente contro il popolo, consideriamo l’autodifesa attiva come nostro diritto naturale».

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).

 

Il ministro degli Esteri iraniano incontra i talebani a Kabul per la prima volta da otto anni

euronews.com 27 gennaio 2025

Purtroppo si allarga il consenso internazionale al governo talebano”

Abbas Aragchi ha parlato con i leader talebani delle tensioni al confine, dei rifugiati afghani in Iran e del trattato sull’acqua del fiume Helmand

L’Iran ha dichiarato di sperare di migliorare i legami economici e le relazioni bilaterali con l’Afghanistan, durante la prima visita di un ministro degli Esteri iraniano a Kabul da otto anni a questa parte.

Abbas Aragchi, ministro degli Esteri di Teheran, ha avuto colloqui con alti funzionari talebani nella capitale afghana domenica, con discussioni incentrate sulle tensioni ai confini, sul trattamento dei rifugiati afghani in Iran e sulle dispute sui diritti idrici.

Il diplomatico iraniano ha incontrato il primo ministro afghano ad interim Hassan Akhund, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi e il ministro della Difesa Mohammad Yaqoob.

Aragchi ha espresso la speranza di un rafforzamento dei legami economici e di un miglioramento delle relazioni bilaterali, riconoscendo gli “alti e bassi” nei rapporti tra i Paesi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Irna.

In una dichiarazione condivisa dai talebani, Aragchi ha anche affermato che l’Iran si è impegnato per il ritorno dei circa 3,5 milioni di rifugiati afghani che vivono in Iran.

Il primo ministro afghano ha esortato Teheran a trattare i suoi rifugiati con dignità, avvertendo che un tentativo di rimpatrio su larga scala non è possibile al momento.

Ha aggiunto che incidenti come l’esecuzione di afghani in Iran hanno acuito le tensioni.

Sebbene l’Iran non riconosca formalmente il governo talebano, che ha assunto il controllo dell’Afghanistan nel 2021 dopo il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, Teheran mantiene relazioni politiche ed economiche con Kabul.

L’Iran ha anche permesso ai Talebani di mantenere l’ambasciata afghana a Teheran.