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Tag: Iraq

Quanto sono costate le guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Afghanistan?


Si stima che oltre 20 anni di guerre statunitensi abbiano causato la morte diretta di circa 940.000 persone e siano costate agli Stati Uniti 5,8 trilioni di dollari

Marium Ali, Hanna Duggal,  AlJazeera, 24 giugno 2025

Il coinvolgimento militare decennale degli Stati Uniti in Medio Oriente si è nuovamente intensificato questa settimana, dopo che i loro aerei da guerra hanno bombardato almeno tre impianti nucleari iraniani.

Secondo un briefing del generale statunitense Dan Caine, presidente dello stato maggiore congiunto, sette bombardieri stealth B-2, ciascuno del valore di circa 2,1 miliardi di dollari, hanno sganciato almeno 14 bombe bunker-buster del valore di milioni su Fordow e Natanz.

In totale, alla missione hanno preso parte più di 125 velivoli statunitensi, tra cui bombardieri, caccia, petroliere, aerei da sorveglianza ed equipaggi di supporto, il cui dispiegamento e funzionamento hanno comportato un costo di centinaia di milioni di dollari.

Gli Stati Uniti spendono per le forze armate più di qualsiasi altro paese al mondo, più dei successivi nove paesi messi insieme, circa tre volte più della Cina e quasi sette volte più della Russia.

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2024 gli Stati Uniti hanno speso 997 miliardi di dollari per le forze armate, pari al 37% dell’intera spesa militare mondiale.

Il costo umano delle guerre condotte dagli Stati Uniti
Secondo un’analisi del Watson Institute of International & Public Affairs della Brown University, le guerre condotte dagli Stati Uniti a partire dal 2001 hanno causato direttamente la morte di circa 940.000 persone in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e altre zone di conflitto post 11 settembre.

Questo numero non include i decessi indiretti, ovvero quelli causati dalla perdita di accesso al cibo, all’assistenza sanitaria o dalle malattie legate alla guerra. Si stima che questi decessi indiretti siano compresi tra 3,6 e 3,8 milioni, portando il bilancio totale delle vittime, inclusi decessi diretti e indiretti, a una cifra compresa tra 4,5 e 4,7 milioni, e il numero è in aumento.

In quel periodo, furono uccisi almeno 30.000 militari statunitensi, appaltatori e truppe alleate. Tra questi, almeno 7.052 soldati, 8.189 appaltatori e 14.874 truppe alleate.

Mezzo milione di persone uccise nelle guerre in Afghanistan e Iraq

La guerra in Afghanistan iniziò il 7 ottobre 2001 in risposta agli attacchi dell’11 settembre e mirava a distruggere al-Qaeda e a deporre i talebani dal potere. Meno di due anni dopo, il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti e i loro alleati lanciarono la guerra in Iraq , con l’obiettivo di eliminare le sue presunte armi di distruzione di massa (ADM) e di deporre Saddam Hussein dal potere. Tuttavia, non furono mai rinvenute scorte di ADM.

Durato quasi 20 anni, il conflitto in Afghanistan, comprese le vittime nelle regioni confinanti con il Pakistan, è stato il più prolungato impegno militare nella storia degli Stati Uniti e ha causato circa 243.000 vittime dirette. In Iraq, circa 315.000 persone sono state uccise direttamente durante la guerra.

Secondo il Watson Institute, insieme rappresentano almeno 558.000 decessi diretti tra ottobre 2001 e agosto 2021.

Il costo economico delle guerre condotte dagli Stati Uniti

Si stima che gli Stati Uniti abbiano speso circa 5,8 trilioni di dollari per finanziare oltre due decenni di guerra.

Ciò include 2,1 trilioni di dollari spesi dal Dipartimento della Difesa (DOD), 1,1 trilioni di dollari dal Dipartimento della Sicurezza Interna, 884 miliardi di dollari per aumentare il bilancio di base del DOD, 465 miliardi di dollari per l’assistenza medica ai veterani e un ulteriore trilione di dollari in pagamenti di interessi sui prestiti contratti per finanziare la guerra.

Gli Stati Uniti continuano a pagare per le loro guerre

Oltre ai 5,8 trilioni di dollari già spesi, si prevede che gli Stati Uniti spenderanno almeno 2,2 trilioni di dollari per obblighi relativi all’assistenza ai veterani nei prossimi 30 anni.

Ciò porta il costo totale stimato delle guerre degli Stati Uniti dal 2001 a 8 trilioni di dollari.

Finanziamento statunitense del genocidio israeliano a Gaza

Israele è stato costantemente il maggiore beneficiario degli aiuti esteri degli Stati Uniti, avendo ricevuto almeno 251,2 miliardi di dollari al netto dell’inflazione dal 1959, secondo il Watson Institute della Brown University. Dal 2016, gli Stati Uniti si sono impegnati a erogare a Israele 3,8 miliardi di dollari all’anno nell’ambito di un memorandum d’intesa decennale, valido fino al 2028. La maggior parte di questa somma è destinata ai finanziamenti militari esteri.

Tuttavia, nell’anno successivo agli attacchi dell’ottobre 2023, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele ulteriori 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari, il totale annuo più alto di sempre. Questo include 6,8 miliardi di dollari in finanziamenti militari, 4,5 miliardi di dollari per la difesa missilistica e 4,4 miliardi di dollari per il rifornimento di armi a Israele provenienti dalle scorte statunitensi.

Il costo umano del genocidio israeliano a Gaza

Secondo gli ultimi dati sulle vittime forniti dal Ministero della Salute palestinese a Gaza, aggiornati al 24 giugno 2025:

Morti confermate: almeno 56.077
Feriti: almeno 131.848
Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo:

Morti confermate: almeno 5.759
Feriti: almeno 19.807
Si teme che migliaia di altri morti siano rimasti sepolti sotto le macerie.

 

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

Dall’Iraq all’Afghanistan: come i diritti fondamentali delle donne vengono erosi in tutto il mondo

Nessun paese al mondo ha ancora raggiunto l’uguaglianza di genere. Donne e ragazze continuano a subire discriminazioni in tutti gli angoli del mondo, e la situazione sembra peggiorare, ma nonostante tutto continuano a resistereLa conversazione

Hind Elhinnawy, NDTV Word, 22 novembre 2024

Dall’Iraq all’Afghanistan fino agli Stati Uniti, le libertà fondamentali delle donne vengono erose mentre i governi cominciano ad abrogare le leggi esistenti.

Solo pochi mesi fa, il divieto alle donne afghane di parlare in pubblico è stata l’ultima misura introdotta dai talebani, che hanno ripreso il controllo del paese nel 2021. Da agosto, il divieto ha incluso cantare, leggere ad alta voce, recitare poesie e persino ridere fuori casa.

Il ministero dei talebani per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, che attua una delle interpretazioni più radicali della legge islamica, fa rispettare queste regole. Fanno parte di un insieme più ampio di leggi “vizio e virtù” che limitano severamente i diritti e le libertà delle donne. Alle donne è persino vietato leggere il Corano ad alta voce ad altre donne in pubblico.

Negli ultimi tre anni, in Afghanistan, i talebani hanno privato le donne che vivono lì di molti diritti fondamentali, al punto che è loro concesso fare ben poco.

Dal 2021, i talebani hanno iniziato a introdurre restrizioni all’istruzione delle ragazze, iniziando con il divieto di classi miste e poi con il divieto di frequentare le scuole secondarie. A ciò è seguita la chiusura delle scuole per ragazze cieche nel 2023 e l’obbligo per le ragazze dalla quarta alla sesta elementare (dai nove ai 12 anni) di coprirsi il viso mentre si recano a scuola.

Le donne non possono più frequentare università o ricevere un certificato di laurea a livello nazionale, o seguire corsi di formazione in ostetricia o infermieristica nella regione di Kandahar. Alle donne non è più consentito fare le assistenti di volo o accettare un lavoro fuori casa. Le panetterie gestite da donne nella capitale Kabul sono state ora vietate. Le donne non sono più in grado di guadagnare denaro o di uscire di casa. Nell’aprile 2024, i talebani nella provincia di Helmand hanno detto ai media di astenersi persino dal dare voce alle donne.

L’Afghanistan è all’ultimo posto nel Women, Peace and Security Index e i funzionari dell’ONU e di altri enti lo hanno definito “apartheid di genere” . Le donne afghane stanno mettendo a rischio la propria vita, affrontando sorveglianza, molestie, aggressioni, detenzioni arbitrarie, torture ed esilio, per protestare contro i talebani.

Molti diplomatici discutono di quanto sia importante “impegnarsi” con i talebani, ma questo non ha fermato l’assalto ai diritti delle donne. Quando i diplomatici “si impegnano”, tendono a concentrarsi sulla lotta al terrorismo, alla lotta alla droga, agli accordi commerciali o al ritorno degli ostaggi . Nonostante tutto quello che è successo alle donne afghane in questo periodo , i critici suggeriscono che questo raramente rientra nella lista delle priorità dei diplomatici.

L’età del consenso in Iraq

Nel frattempo, in Iraq, il 4 agosto 2024, il parlamentare Ra’ad al-Maliki ha proposto un emendamento alla legge sullo status personale del 1959, che potrebbe abbassare l’età del consenso per il matrimonio da 18 a 9 anni (o 15 con il permesso di un giudice e dei genitori), sostenuto dalle fazioni conservatrici sciite nel governo.

La legge avrebbe il potenziale di far sì che questioni di diritto di famiglia, come il matrimonio, siano giudicate dalle autorità religiose. Questo cambiamento potrebbe non solo legalizzare il matrimonio infantile ma anche privare le donne dei diritti relativi al divorzio, all’affidamento dei figli e all’eredità.

In Iraq si registra già un tasso elevato di matrimoni precoci : il 7% delle ragazze si sposa prima dei 15 anni e il 28% prima di aver raggiunto la maggiore età.

I matrimoni non iscritti, non legalmente registrati in tribunale ma celebrati attraverso autorità religiose o tribali, impediscono alle ragazze di accedere ai diritti civili e lasciano donne e ragazze vulnerabili allo sfruttamento, agli abusi e all’abbandono, con limitate possibilità di ottenere giustizia.

Molti gruppi di donne si sono già mobilitati contro la legge . Ma l’emendamento ha superato la seconda lettura in parlamento. Se introdotto, potrebbe aprire la strada a ulteriori modifiche che approfondiscono le divisioni settarie e allontanano ulteriormente il paese da un sistema legale unificato. Sarebbe anche un passo indietro particolarmente preoccupante nella protezione dei diritti dei bambini e dell’uguaglianza di genere.

Diritti all’aborto negli Stati Uniti

Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’accesso delle donne all’aborto è stato notevolmente eroso negli ultimi anni. Verso la fine del 2021, gli Stati Uniti sono stati ufficialmente etichettati come una democrazia in declino da un think tank internazionale.

Sei mesi dopo, la storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Roe v Wade, che aveva salvaguardato il diritto costituzionale all’aborto per quasi 50 anni, è stata ribaltata. Ciò ha portato a una cascata di leggi restrittive, con più di un quarto degli stati degli Stati Uniti che hanno promulgato divieti assoluti o severe restrizioni all’aborto .

La deputata repubblicana degli Stati Uniti Marjorie Taylor Greene ha suggerito, a maggio 2022, che le donne dovrebbero rimanere celibi se non vogliono rimanere incinte . Se solo tutte le donne avessero questa scelta. Infatti, negli Stati Uniti si verifica un’aggressione sessuale ogni 68 secondi . Una donna americana su cinque è stata vittima di un tentativo di stupro o di uno stupro completato . Dal 2009 al 2013, le agenzie dei servizi di protezione dell’infanzia degli Stati Uniti hanno trovato forti prove che indicavano che 63.000 bambini all’anno erano vittime di abusi sessuali .

Questi sviluppi riflettono un modello preoccupante. Ci sono prove dal primo mandato di Donald Trump che potrebbe esserci un’ulteriore erosione dei diritti delle donne nella sua seconda presidenza. Durante il suo mandato precedente ci sono stati tentativi significativi di indebolire l’accesso all’assistenza sanitaria , con la sua politica estera che ha ripristinato la Global Gag Rule che limita l’accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva delle donne in tutto il mondo tramite limitazioni di finanziamento.

Fragilità dei diritti delle donne

Se il mondo riesce a tollerare gli abusi dei talebani, le leggi restrittive dell’Iraq e le restrizioni statunitensi all’accesso all’aborto, ciò rivela la fragilità dei diritti delle donne e delle ragazze a livello globale e quanto sia facile negarli.

L’agenzia delle Nazioni Unite, UN Women, afferma che potrebbero volerci altri 286 anni per colmare i divari di genere globali nelle tutele legali. Nessun paese ha ancora raggiunto l’uguaglianza di genere , in base al divario retributivo di genere, all’uguaglianza legale e ai livelli di disuguaglianza sociale . Donne e ragazze continuano a subire discriminazioni in tutti gli angoli del mondo, e la situazione sembra peggiorare. Ma nonostante tutto le donne continuano a resistere .La conversazione

(Autore:  Hind Elhinnawy , docente di ruolo, Facoltà di Scienze Sociali, Università di Nottingham Trent )