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Tag: rifugiati

Iran, il grande esodo dei rifugiati afghani

L’Iran espelle milioni di rifugiati verso un Paese in ginocchio, senza risorse e aiuti. Intersos: arrivano in un Paese che non conoscono più, un trauma anche culturale

Francesca Mannocchi, La Stampa, 1 settembre 2025

A.R. è il primo a scendere dal camioncino che ha trasportato la sua famiglia da Islam Qala, sul confine tra Afghanistan e Iran, a Herat. È il primo a scendere e il più anziano, viaggia con la moglie, tre dei suoi quattro figli e i nipoti. Uno dei figli è rimasto in un centro medico di confine con la moglie che stava per partorire e non avrebbe potuto affrontare altre ore di viaggio. Si erano tutti trasferiti in Iran quattro anni fa, dopo la caduta di Kabul. Hanno cercato un lavoro, un alloggio, e ricominciato una vita lontani da casa. Una vita da esuli.

Una vita faticosa e piena di restrizioni, ma tollerabile. Almeno fino a giugno, quando è scoppiata la guerra tra Israele e Iran. Da allora, dice A.R., i pericoli e i divieti, la paura e gli abusi, sono diventati intollerabili. Non potevano camminare liberamente, non riuscivano a trovare un pezzo di pane per i bambini. Non riuscivano a trovare un ospedale dove far partorire le donne.

Un giorno degli uomini hanno bussato alla sua porta, lo hanno bendato e portato in una caserma, non saprebbe dire dove né se la base militare fosse ufficiale o meno, quello che sa è che le persone che lo hanno prelevato lo hanno accusato di essere una spia del Mossad, i servizi segreti israeliani, e che gli hanno detto di pagare o andare via, perché per gli afgani nel Paese non c’era più posto. Lui ha negato, dopo tre giorni è riuscito a tornare dalla sua famiglia e ha detto loro che era arrivato il momento di tornare in Afghanistan.

E così hanno lasciato tutto e sono partiti di nuovo, percorrendo la strada in direzione inversa a quattro anni fa. A.R. sa che la sua famiglia in Afghanistan non ha futuro. Se ne avessero avuto uno, dice, quattro anni fa non sarebbero fuggiti.

Oggi hanno un terreno a Laghman ma non hanno una casa, hanno braccia per lavorare ma non hanno lavoro, hanno bocche da sfamare ma non hanno cibo.

Due milioni di ritorno dall’Iran

Al valico di frontiera di Islam Qala oggi arrivano dalle cinque alle seimila persone al giorno, a giugno ne arrivavano anche trentamila. Le organizzazioni umanitarie stimano che con le nuove limitazioni e le nuove scadenze imposte dall’Iran, nei prossimi mesi altre cinquecentomila persone potrebbero riversarsi qui. La sabbia e la polvere coprono tutto, le persone e i carretti che trascinano. Arrivano donne, uomini, bambini, in uno spazio troppo affollato per le esigenze sanitarie a cui deve far fronte. Gli operatori umanitari di Intersos dicono che i sistemi sanitari locali non sono attrezzati per gestire situazione e che è necessario un intervento strutturale per far fronte alla crisi dei fondi per gli aiuti destinati all’Afghanistan.

Il governo talebano de facto, riconosciuto solo dalla Russia come governo legittimo dell’Afghanistan, è alle prese con il collasso economico e una crisi umanitaria aggravata dalle sanzioni occidentali e dai tagli draconiani agli aiuti decisi dall’amministrazione Trump a febbraio di quest’anno.

«Assistiamo a una vera e propria emergenza, con milioni di persone che arrivano bisognose di cure sanitarie, sia fisiche che psicologiche, e di supporto economico per poter accedere a beni essenziali come cibo, acqua e alloggio – dice una operatrice umanitaria di Intersos – Molti di loro tornano in un Paese che non conoscono e oltre all’impatto della fuga e degli sfollamenti devono far fronte a uno choc culturale. È fondamentale intervenire tempestivamente, offrendo anche supporto per il recupero della documentazione e per l’accesso a servizi vitali».

Secondo i dati delle Nazioni Unite, quasi due milioni di afgani sono scappati o sono stati deportati dall’Iran da gennaio, dopo la stretta del governo sui rifugiati ritenuti irregolari. Mezzo milione di persone ha attraversato il confine soltanto a giugno, in concomitanza con la guerra tra Israele e Iran. Numeri giganteschi, che rendono quella in corso al confine di Islam-Qala una delle peggiori crisi di sfollati dell’ultimo decennio.

La presenza di afgani in Iran è antica, per quarant’anni il Paese ha offerto riparo a milioni di persone che scappavano dalle continue guerre e dalla povertà, tanto che la diaspora afgana ha raggiunto numeri impressionanti. Secondo le istituzioni iraniane, il Paese ospita dai 4 ai 6 milioni di persone, la stragrande maggioranza dei quali proviene dall’Afghanistan. Numeri che rendono l’Iran il paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo.

Dopo l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, l’Iran aveva accolto milioni di afghani, concedendo loro lo status di rifugiato e dando quindi l’accesso ai servizi.

Ma dagli anni Novanta le politiche sono cambiate e la solidarietà si è trasformata in contenimento. Le frontiere che erano aperte sono state chiuse e i servizi limitati.

Limitati i luoghi in cui potevano vivere (10 province su 31) e anche i lavori che potevano fare, solo quelli pesanti e poco qualificati, gli afgani da decenni hanno difficoltà a acquistare una tessera telefonica o ottenere documenti per regolarizzare la loro posizione nel Paese, il che rende quasi impossibile l’accesso all’istruzione o all’assistenza sanitaria.

Già a marzo il governo di Teheran aveva annunciato una stretta sui rifugiati, fissando per l’estate la scadenza per le “partenze volontarie”, ma dopo la guerra di giugno la repressione si è rafforzata, sono aumentati i posti di blocco, gli arresti, le espulsioni.

L’Iran si giustifica sostenendo che le nuove politiche siano una risposta alla crisi economica, acuita dalla guerra, e siccome nell’effetto domino delle crisi c’è sempre qualcuno a cui va attribuita la colpa, il capro espiatorio in questo caso sono stati i rifugiati afgani, accusati di approfittare degli aiuti, rubare il lavoro e in ogni caso non più benvenuti. Nelle due settimane successive al conflitto con Israele, sono state circa 700 le persone arrestate perché accusate di essere spie e sabotatori al soldo di Tel Aviv, proprio come A.R.

Oggi tornano in un Paese piegato dalla crisi economica, in cui non c’è lavoro, non ci sono case per tutti, non c’è assistenza sanitaria, in cui metà dei quaranta milioni di abitanti ha bisogno di sostegno economico e aiuti umanitari per sopravvivere. Un Paese uscito dai radar dell’attenzione globale e in cui gli appelli delle organizzazioni umanitarie per gli aiuti sono largamente sottofinanziati: quest’anno solo un quinto delle necessità umanitarie è stato finanziato.

Il transito verso un futuro incerto

S.R. ha 27 anni, è appena arrivato al centro di transito di Herat con sua moglie e il loro bambino. Ha 14 giorni. Quando hanno ricevuto il foglio di espulsione S.R. ha chiesto di poter aspettare che sua moglie partorisse, che passasse almeno un po’ di tempo dopo la nascita del bambino. Ma le istituzioni iraniane non ne hanno voluto sapere, così una settimana dopo la nascita di suo figlio i tre si sono messi in viaggio da Teheran, e sono arrivati prima al confine e poi a Herat.

Erano andati via non tanto per il ritorno dei talebani al potere, ma perché non avevano da mangiare, non avevano niente.

S.R. dice che era scappato perché troppe sere andava a dormire senza aver messo in bocca nemmeno un pezzo di pane, e che oggi tornano, non hanno cibo, ma hanno una bocca in più. Dice così «non ci interessano le regole che dovremo seguire, abbiamo tre stomaci vuoti e non abbiamo pane».

Quando arrivano al punto di transito, a Herat, i volti sono diversi, il viaggio dal confine a Herat ha reso tutti più consapevoli, tutti più preoccupati.

Passata la furia dell’attraversamento, le ore sotto i tendoni, le file per i primi documenti, il successivo punto di approdo è un centro di smistamento a Herat. La struttura può ospitare solo 700 persone al giorno, sono divise in tende, spazi per famiglie, o stanze con letti di ferro. Salvo casi eccezionali, gli afgani che arrivano qui possono restare una notte, il tempo di riposare, ricaricare i telefoni, ricevere una piccola somma di denaro che possa garantire loro lo spostamento dal centro e un eventuale ritorno nelle zone d’origine. Il resto è una storia che comincia da zero una volta varcata la soglia del cancello. Una volta tornati, molti si ritrovano in province prive anche dei servizi più basilari, costringendo migliaia di persone a trasferirsi in tendopoli improvvisate o insediamenti informali. Molti arrivano senza più documenti d’identità, rendendo ancora più difficile l’accesso agli aiuti.

È dopo che i rifugiati hanno varcato la soglia del centro di transito che si sente di più la carenza di assistenza, lì che serve più aiuto, è che Intersos, supportata dai finanziamenti dell’Unione Europea, opera con le cliniche mobili fornendo assistenza sanitaria, sia per la malnutrizione che per le donne incinte, sia come supporto per la protezione umanitaria che per quello psicologico.

Molte delle bambine e giovani donne che arrivano al valico di frontiera non hanno mai messo piede in Afghanistan, figlie di rifugiati delle guerre di decenni fa, nate in Iran, oggi tornano in un Paese che non conoscono, e che non hanno mai visto.

Indossano scarpe da ginnastica, i jeans stretti, le camicie alla moda.

Le bambine hanno ciocche di capelli colorate, i brillantini sulle magliette, le madri insegnano loro a indossare l’hijab, le bambine ridono, scherzano, ballano trascinando i veli, ancora inconsapevoli delle regole che dovranno rispettare.

A.R. è originario di Mazar-i-Sharif, ha lasciato l’Afghanistan con i suoi genitori quando era bambino. Prima Mashdad, poi Teheran. Ha iniziato a studiare lì, poi ha lasciato la scuola perché i suoi genitori avevano bisogno che lavorasse e ha cominciato a lavorare come carpentiere.

A Teharan ha conosciuto sua moglie S., anche la sua famiglia è di origine afgana ma lei del Paese non ha praticamente ricordi. S. ha una lunga treccia che le cade sulla spalla, e che il velo copre a malapena, una camicia chiara le copre il ventre e le gambe su cui è seduto il loro bambino di un anno e mezzo. In Iran aveva molta libertà, camminava da sola, lavorava come sarta per aiutare A.R. a pagare l’affitto della stanza in cui vivevano.

Oggi ad attenderla ci sono le regole dell’Emirato Islamico. Non potrà più passeggiare sola, né lavorare. A.R. dice che nessuno dei due aveva scelta, e che questo rientro rappresenta la fine della vita, sia per lui che per sua moglie, che è pronto a rinunciare al suo futuro, perché non aveva alternative, ma che non può rassegnarsi al fatto che i suoi figli non lo abbiano i suoi figli.

Una nazionale di calcio di donne afghane, nasce la speranza

Di fronte all’apartheid di genere cui sono sottoposte le atlete afghane, la FIFA dovrebbe cambiare le sue regole senza indugio e seguire l’esempio del Comitato internazionale cricket, il quale pone come requisito essenziale per la partecipazione degli Stati che questi abbiano sia la squadra maschile, sia la femminile. Senza questa volontà politica di cambiare le regole, si tratta solo di propaganda e i talebani sorridono perché vedono che la stessa FIFA – non una piccola federazione di sport cosiddetti “minori” – non è disponibile a cambiare le sue regole per rendere lo sport davvero inclusivo e senza discriminazioni di genere. Quindi, sulla scena internazionale le atlete afghane non saranno uguali alle altre atlete, anzi subiranno una doppia discriminazione.
O le federazioni credono nei principi e nei diritti sanciti nelle convenzioni internazionali, che riguardano anche il diritto allo sport come diritto umano, e quindi agiscono di conseguenza per impedire realmente ogni discriminazione. Oppure, non ritenendo importante che lo sport sia davvero inclusivo, scelgono politiche di riduzione delle discriminazioni ma mantenendole sostanzialmente in vita.
È giusto che le atlete afghane non possano partecipare appieno alle competizioni internazionali perché discriminate dal loro paese in quanto donne? No, non lo è.
È giusto che la FIFA non riconosca a delle atlete che subiscono tale discriminazione il diritto ad essere pienamente come tutte le altre atlete e gli altri atleti? No, non lo è.
Può la FIFA cambiare le regole? Certo che sì, basta che lo voglia. Ci vogliono azioni decise e radicali e non mezze azioni. (Red. Cisda)

Ansa, 1 agosto 2025

A Sydney si selezionano 23 rifugiate: ‘Occasione straordinaria’

Prima del ritorno dei talebani in Afghanistan nel 2021, la nazionale femminile di calcio era un simbolo per le donne.

Poi la messa al bando, il mancato riconoscimento da parte della Federcalcio afghana, la fuga per salvarsi la vita.

Lo scorso mese di maggio la Fifa ha riconosciuto la squadra delle rifugiate ed avviato una serie di iniziative per la selezione delle calciatrici attraverso tre camp, il primo dei quali si è tenuto a Sydney, in Australia – dove si sono rifugiate tante atlete – la settimana scorsa, sotto la guida dell’allenatrice Pauline Hamill. L’obiettivo è quello di formare una squadra di 23 giocatrici che parteciperà alle amichevoli approvate dalla Fifa alla fine di quest’anno, riportando così il calcio femminile afghano sulla scena internazionale anche se non in competizioni ufficiali. Dal 2018 le calciatrici afghane (una ottantina delle quali si è rifugiata in Australia) non disputano una partita ufficiale poiché la Federcalcio afghana non riconosce le squadre femminili, e la Fifa – in base alle sue regole – non può riconoscere ufficialmente le rifugiate come nazionale afghana, nonostante da più parti, Amnesty international in testa, si chieda un’eccezione per far partecipare una squadra di Kabul ai tornei internazionale ufficiali. Ma con la squadra in via di formazione a Sydney è la speranza a nascere “Essere una calciatrice mi ha dato la possibilità di essere qui. La mia vita è al sicuro – ha raccontato al sito Fifa Nilab, una delle calciatrici che ha partecipato alle selezioni di luglio – Ho molte opportunità. La mia voce è forte e il calcio aiuta me e le altre ragazze. Il calcio mi ha aiutato molto e mi ha fatto sentire libera in tutto. Il calcio ha qualcosa di speciale. Ci offre molte opportunità e sostegno”.

“Il mio obiettivo non riguarda solo me – ha continuato Nilab – Riguarda tutto l’Afghanistan, in particolare le donne e le ragazze. Questo progetto mi aiuta, mi sostiene e ci insegna come possiamo aiutarci a vicenda e come rappresentare il nostro paese”. “A un anno dall’impegno preso a Parigi, sono rimasto profondamente commosso nel vedere le prime immagini del camp di selezione dei talenti per la squadra femminile afghana di rifugiate e nel sentire quanto sia stata importante questa esperienza”, ha commentato il presidente della Fifa, Gianni Infantino. “Sono convinto che abbiamo compiuto un passo importante nella giusta direzione, offrendo a queste donne l’opportunità di giocare a livello internazionale, dando priorità alla loro sicurezza e al loro benessere – ha aggiunto – Questo fa parte della più ampia strategia della Fifa, che include il sostegno alle donne afghane in esilio, aiutandole a entrare in contatto con i percorsi calcistici esistenti, nonché il continuo impegno con le parti interessate per assistere anche quelle che si trovano in Afghanistan. Siamo orgogliosi di questo, di aver dato vita a questo progetto pilota, e il nostro obiettivo è quello di ampliarlo in futuro per includere anche donne di altri paesi”.

Attraverso la squadra femminile afghana di rifugiate, la Fifa intende rafforzare il legame tra le rifugiate e la loro terra d’origine, la loro patria d’adozione, lo sport e le altre giocatrici. Questi primi camp hanno lo scopo di selezionare e identificare le giocatrici che prenderanno parte alle partite amichevoli. Ma sono anche qualcosa di più dei tradizionali provini. Indipendentemente dal fatto che entrino a far parte della squadra, le giocatrici avranno accesso a una serie di servizi di supporto offerti dalla Fifa, oltre ai benefici e alla gioia di giocare a calcio.”È fantastico avere le giocatrici qui – ha commentato la selezionatrice, la scozzese Pauline Hamill – Ora abbiamo la possibilità di lavorare con loro e cercare di valutare le loro prestazioni, e tutte possono ritrovarsi in un ambiente di cui hanno sempre desiderato far parte. Penso che sia un progetto incredibile. Ha dato alle giocatrici la possibilità di esibirsi e giocare di nuovo insieme. Penso che creeranno ricordi che altrimenti non avrebbero mai avuto, e creare ricordi con la propria squadra è davvero speciale”.

La squadra femminile afghana di rifugiate darà alle giocatrici l’emozione di rappresentare il proprio Paese e di mantenere il loro attaccamento all’Afghanistan, mentre mettono radici più profonde e significative nelle loro attuali comunità. I provini di Sydney sono stati un segno ispiratore di progressi tangibili. Naturalmente, l’attenzione del mondo si concentra spesso sulle partite più importanti e sui nomi più famosi. Ma in fondo, il calcio è la libertà di riunirsi, giocare e competere. Il camp di selezione dei talenti in Australia è stata una celebrazione dello spirito puro del calcio.

L’Afghanistan fuori dal mondo

Enrico Campofreda dal suo Blog 3 agosto 2025

Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid. Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama – istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 – forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti.

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army – come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times – da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini. Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani.

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo.Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.

 

 

La disumanizzazione dei rifugiati afghani in Iran

Nahid Fattahi, Zan Times, 24 luglio 2025

Il mondo deve smettere di guardare altrove

Avevo cinque anni quando sono arrivata in Iran come rifugiata in fuga da una guerra che non capivo. Era il 1985. La mia famiglia, come milioni di altre, era scappata dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Abbiamo attraversato i confini non per cercare una vita migliore, ma solo per restare vivi.

Non eravamo trattati alla pari, ma con umanità. Non avevamo gli stessi diritti, ma avevamo dignità. Questo contava. Quando si scappa dalle bombe, la sopravvivenza viene prima dell’appartenenza.

Ricordo il profumo del pane sangak prima dell’alba e il suono della pala del fornaio che raschiava le pareti del forno. Ricordo di aver copiato versi di Hafez e Saadi sui miei quaderni, anche quando non ne comprendevo appieno il significato. Ricordo i vicini che avevano tutte le ragioni per vederci come estranei, ma che ci hanno accolto lo stesso.

Iran, casa mia

Tra i cinque e i tredici anni, l’Iran è stato la mia casa. Mi ha dato ciò che la guerra mi aveva rubato: continuità, ritmo e rifugio. Non l’ho mai dimenticato.

Ora sono costretta a farlo.

Quello che sta accadendo oggi ai rifugiati afghani in Iran è il collasso dei diritti umani.

I bambini vengono trascinati via dalle loro case e scaricati in frontiere che non hanno mai attraversato. Le persone vengono ammassate in centri di detenzione senza un regolare processo, senza accuse e senza motivo. Secondo l’OIM, il numero totale di persone deportate nel 2025 ha superato il milione.

Molti di loro sono nati e cresciuti in Iran. Non hanno mai messo piede in Afghanistan. Non stanno tornando in una patria. Vengono esiliati in un territorio sconosciuto, spesso senza cibo, denaro o documenti.

Alcuni vengono picchiati. Alcuni scompaiono. Alcuni non tornano affatto.

Il messaggio è chiaro: non siete fatti per restare. E se vi abbiamo permesso di restare, è stato un favore. Ora quel favore è finito.

Questa violenza non è esplosa da un giorno all’altro. È stata prevista dal sistema fin dall’inizio.

Oggi, più di cinque milioni di afghani vivono in Iran, molti dei quali senza documenti, apolidi e invisibili. La maggior parte di loro è lì dagli anni Ottanta. Hanno raccolto colture iraniane, costruito strade iraniane, trasportato rifiuti iraniani, assistito anziani iraniani e servito in case iraniane. Hanno pagato le tasse. Hanno rispettato le regole. Ma non sono mai stati invitati a far parte della storia nazionale iraniana.

Gli è stato permesso di esistere. Ma non di farne parte.

Non è mai stata una svista. È stata una strategia. Puoi vivere qui, ma non sarai mai “di qui”. Potete lavorare, ma non chiedete protezione. Potete sopravvivere, ma non aspettatevi dignità.

Invisibilità forzata usata come arma

Ora, quella politica decennale di invisibilità forzata è diventata un’arma.

Human Rights Watch ha documentato modelli di abuso che sembrano un copione dell’orrore: detenzioni arbitrarie, estorsioni da parte delle autorità, pestaggi, separazioni familiari ed espulsioni nel cuore della notte in zone di confine remote e pericolose. Amnesty International riferisce che i deportati vengono spesso scaricati in aree afflitte dalla violenza, senza risorse o supporto.

La caduta libera dell’economia iraniana fa da sfondo. Decenni di sanzioni hanno strangolato il Paese. L’inflazione è salita alle stelle. La repressione si è intensificata. Quando i regimi autoritari si trovano di fronte a un collasso interno, fanno quello che fanno sempre: trovano capri espiatori.

Gli afghani non hanno diritti legali, né diritto di voto, né sostegno diplomatico. Sono i bersagli perfetti.

Come psicoterapeuta, ho lavorato con persone la cui vita è stata sconvolta dall’esilio. L’esilio non è solo una ferita. È una condizione cronica. Divora le profondità di una persona.

Il tempo si distorce. Il futuro si dissolve.

Il corpo è in costante stato di allerta. I bambini cresciuti in questo stato non conoscono sicurezza, ma solo vigilanza. Gli adulti perdono la capacità di immaginare una vita che vada oltre la sopravvivenza. Diventa difficile sognare. Diventa difficile riposare. Diventa difficile sentirsi un essere umano completo.

Questa è la violenza silenziosa della cancellazione sponsorizzata dallo Stato. Non uccide solo i corpi, ma disintegra le anime.

La comunità internazionale non fa nulla

La comunità internazionale assiste a questa situazione senza fare quasi nulla. L’UNHCR ha rilasciato dichiarazioni che sembrano modelli di comunicati stampa. I governi occidentali danno cenni di preoccupazione, ma non offrono alcuna azione. Non ci sono vertici di emergenza, né ulteriori sanzioni legate alle violazioni dei diritti umani, né grida morali.

Perché? Perché i rifugiati afghani non sono vittime convenienti. Non si adattano alle ordinate narrazioni di eroismo o vittimismo che l’Occidente trova convincenti. Non sono vestiti con i giusti traumi. Non muoiono nei modi giusti. Sono troppo poveri, troppo marroni, troppo silenziosi, troppo numerosi.

È così che funziona la cancellazione. Non solo attraverso la violenza, ma anche attraverso il silenzio, il distogliere lo sguardo e l’oblio.

Alla diaspora afghana: se avete una voce, usatela. Se avete uno status, usatelo. Se avete sicurezza, non accaparratevela. Questa non è la lotta di qualcun altro. È la nostra.

Agli alleati iraniani: Molti di voi hanno rischiato tutto per sfidare la brutalità del vostro governo. Avete difeso i diritti delle donne, la libertà di parola e i prigionieri politici. Ora difendete le famiglie afghane che spazzavano le vostre strade, sedevano nelle vostre aule, lavoravano nei vostri cantieri. Facevano parte della vostra società, anche se il vostro governo non li ha mai riconosciuti.

Alla comunità mondiale dei diritti umani: Smettetela di fingere che sia complicato. Non lo è. È violenza contro gli apolidi. È la disumanizzazione di chi è già invisibile. È un fallimento morale al rallentatore.

Una volta l’Iran ha dato rifugio alla mia famiglia e per questo sarò sempre grata. Ma la gratitudine non è un ordine di bavaglio.

Ciò che sta accadendo ora richiede indignazione. Richiede un intervento. Richiede di fare onestamente i conti con l’ipocrisia della politica globale sui rifugiati e con la nostra incapacità di ritenere i governi responsabili quando le vittime sono povere, straniere e scomode.

I rifugiati afghani non sono fantasmi. Non sono macerie. Non sono usa e getta.

Sono esseri umani. E meritano di essere visti.

Nahid Fattahi, LMFT, è psicoterapeuta e docente aggiunto presso il Pacific Oaks College. Il suo lavoro si concentra sulla cura della salute mentale olistica e culturalmente sensibile. È stata pubblicata in riviste come The San Francisco Chronicle, The Daily Beast, Ms Magazine, US News e Psychology Today.

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

CISDA, Appello, 15 luglio 2025

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.

L’esodo invisibile degli afghani cacciati dall’Iran, 500mila da giugno

Il manifesto, 17 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Iran-Afghanistan Il pretesto: sono «collusi con il nemico sionista». Ogni giorno dal posto di confine più trafficato passano da 35mila a 50mila persone

Teheran mostra i muscoli e rispedisce in patria centinaia di migliaia di afghani, innescando una bomba demografica e sociale che l’Emirato islamico, il governo dei Talebani, non è in grado di gestire, e che qualunque governo avrebbe difficoltà a governare.

DA DIVERSE settimane l’Iran ha intensificato un processo avviato da mesi: dopo la guerra lampo con Israele, in qualche modo approfittando di una crisi che è economica oltre che politica e militare, ha accelerato le deportazioni dei migranti afghani, considerati una minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza interna. Almeno cinquecentomila quelli rispediti oltre confine da inizio giugno, soprattutto attraverso le province afghane di Herat e di Nimruz, 1 milione e trecentomila dall’inizio dell’anno, con la minaccia di rimpatriarne altrettanti. Gli afghani sono accusati di «collusione con il nemico sionista», di fornire informazioni a Israele, di violare le leggi sull’immigrazione, di gravare sulle casse dello Stato o di commettere crimini.

Accuse ingiuste, ma sufficienti a scatenare un flusso migratorio senza precedenti, anche in chiave storica: l’Iran è infatti, insieme al Pakistan, il Paese che negli ultimi 4 decenni più ha accolto la diaspora afghana, diventando una destinazione prioritaria soprattutto per quegli afghani che cercavano e cercano maggiore sicurezza economica e, dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, in alcuni casi anche sicurezza fisica, incolumità personale. Ogni giorno, nel posto di confine più trafficato, Islam Qala, che divide la città iraniana di Mashad da quella afghana di Herat, si registrano dai trentamila ai cinquantamila attraversamenti. Numeri impressionanti, che hanno spinto Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul, a visitare Islam Qala due giorni fa.

OTUNBAYEVA ha richiamato alle proprie responsabilità la comunità internazionale: «L’enorme volume di ritorni, molti di questi bruschi e involontari, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme in tutta la comunità globale. È una prova della nostra umanità collettiva. L’Afghanistan, già alle prese con la siccità e una crisi umanitaria cronica, non può assorbire questo shock da solo», ha detto Otunbayeva nel corso della visita, accompagnata dalle autorità di fatto. Ha poi lanciato un appello ai donatori: «Non voltatevi dall’altra parte. I rimpatriati non devono essere abbandonati».

Il suo appello finirà pressoché nel vuoto, come quello, di poche ore prima, di Tom Fletcher, il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu. Dopo una recente visita nel Paese, il suo ufficio ha rivolto un nuovo appello finanziario per soddisfare i bisogni primari della popolazione afghana e per un Paese dove, ha ricordato Fletcher, «in pochi mesi sono stati chiusi 400 presidi sanitari» per mancanza di fondi. Ma i soldi faticano ad arrivare. Spesso con il pretesto che al governo ci sono i Talebani, la cui macchina della diplomazia si è attivata per provare a convincere Teheran a rallentare i rimpatri. L’Iran, da parte sua, non fa altro che replicare quanto fa da poco meno di due anni Islamabad.

IL GOVERNO pachistano dalla fine del 2023 ha già rimpatriato 1 milione di persone, considerate senza documenti validi (parte dei quali nata in Pakistan), nell’ambito di un ambizioso piano di rimpatri forzati la cui seconda fase è iniziata l’1 aprile. Un piano usato anche come leva negoziale con il governo di Kabul, che è già alle prese con una profondissima crisi umanitaria: sono 23 milioni gli afghani che, secondo le agenzie dell’Onu, hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere.

Senzatetto a casa: i rimpatriati si scontrano con gli affitti alle stelle e la negligenza dei talebani

KabulNow, 18 luglio 2025, di Maisam Iltaf

Quando l’anno scorso Ghulam Farooq ha affittato una modesta casa nella provincia occidentale di Herat, in Afghanistan, credeva di aver trovato stabilità per la sua famiglia. Oggi, quel senso di sicurezza è svanito. Il suo padrone di casa, emigrato in Iran, è tornato e ha intimato a Farooq di andarsene immediatamente.

“Da un mese il mio padrone di casa è tornato e mi ha detto di cercare un’altra casa”, ha raccontato Farooq a KabulNow. “Ho dovuto chiudere la mia attività per cercare un alloggio, ma non c’è niente di disponibile. E se c’è una casa disponibile, l’affitto è tre volte più alto di prima”.

La situazione di Farooq riflette le difficoltà di migliaia di rimpatriati e inquilini locali, mentre le deportazioni da Iran e Pakistan aumentano, spingendo il già fragile mercato immobiliare afghano sull’orlo del baratro. Herat, centro urbano e nodo di transito chiave, è diventato il punto zero di questa crisi.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) segnala che oltre 1,2 milioni di migranti sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025 – oltre 574.000 solo dall’Iran questo mese, molti dei quali sono entrati attraverso il valico di frontiera di Herat, a Islam Qala. La maggior parte di loro sono donne e bambini.

La portata di questo rimpatrio è senza precedenti, rendendolo uno dei più grandi spostamenti di popolazione di quest’anno. I centri di assistenza a breve termine e le infrastrutture locali, già indeboliti da anni di conflitto e mancanza di finanziamenti, sono sovraffollati.

Gli affitti salgono alle stelle, la disponibilità diminuisce

Gli agenti immobiliari locali affermano che la domanda è salita alle stelle. Qader (pseudonimo), che gestisce un’agenzia immobiliare, spiega che le richieste giornaliere da parte di famiglie disperate superano di gran lunga gli annunci disponibili.

“Ricevo più di 100 clienti al giorno, ma non ho immobili da offrire”, dice Qader. “Una casa che prima costava 3.000-4.000 afghani ora costa 7.000. Case che costavano 10.000 afghani ora costano 15.000-20.000.”

Altri rapporti confermano un aumento del 40-50% degli affitti nelle principali città a seguito di restituzioni di massa.

L’OIM afferma che oltre 1,2 milioni di migranti afghani sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025. Foto d’archivio
Questo ha lasciato le famiglie locali a basso e medio reddito a dover pagare un prezzo troppo alto, poiché molti rimpatriati arrivano esausti e a mani vuote. Hamidullah, deportato dall’Iran, ha descritto il calvario:

Sono tornato 20 giorni fa. Le mie cose sono al sole a casa di mio fratello. Una casa che prima costava 4.000 afghani ora ne costa 6.000-7.000. A nessuno importa della nostra lotta. Lo stress e l’incertezza sono insopportabili.

Il crollo del mercato immobiliare è solo la punta dell’iceberg. L’economia afghana, paralizzata dall’isolamento internazionale e dal ritiro degli aiuti dopo la presa del potere da parte dei talebani, ha tassi di disoccupazione superiori al 30%, secondo la Banca Mondiale. Senza lavoro, i rimpatriati non solo non hanno un tetto, ma anche una speranza.

Gli effetti a catena sono disastrosi. Le famiglie che hanno venduto i propri beni o contratto prestiti per emigrare ora si trovano ad affrontare debiti crescenti. Gli arrivi basati sulla comunità, come Ghulam e Hamidullah, dipendono da servizi di assistenza sovraffollati, ma i finanziamenti rimangono limitati. La Croce Rossa avverte che entro la fine del 2025 potrebbero arrivare fino a un altro milione di rimpatriati dall’Iran.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto un coordinamento con i Talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. I paesi donatori rimangono riluttanti a finanziare programmi che potrebbero legittimare l’autorità dei Talebani, mentre le rigide politiche del regime, come le restrizioni all’occupazione femminile, erodono ulteriormente la fiducia.

Di conseguenza, gli sforzi di reintegrazione si basano su aiuti umanitari a breve termine: pacchi alimentari, assistenza medica di base e rifugi temporanei nelle zone di confine. Queste misure tampone rappresentano solo la superficie di un problema che, avvertono gli esperti, potrebbe destabilizzare i centri urbani.

La risposta vuota dei talebani

Sotto la pressione dell’opinione pubblica, le autorità talebane affermano di monitorare il mercato degli affitti e di aver messo in guardia i proprietari contro “aumenti ingiustificati degli affitti”. Manifesti a Herat invitano i residenti a denunciare i proprietari che sfruttano gli immobili. Ma per gli inquilini, questi avvertimenti suonano vuoti.

“Nessuno osa lamentarsi”, ha detto un residente di Herat. “Se segnaliamo un proprietario, verremo sfrattati immediatamente o subiremo abusi. Non c’è alcuna tutela legale per gli inquilini”.

Il Ministero dello Sviluppo Urbano, sotto il regime talebano, ha annunciato piani per progetti di edilizia popolare nel 2022, ma non si sono registrati progressi visibili. I funzionari citano la mancanza di fondi, ma gli analisti sostengono che il problema risieda nella governance: l’isolamento dei talebani dalla finanza internazionale ha impedito al regime di finanziare iniziative di edilizia popolare o di pianificazione urbana su larga scala.

“I talebani non hanno né le risorse né le competenze tecniche per gestire una crisi di questa portata”, ha affermato un urbanista di Kabul. “Si sono concentrati quasi esclusivamente sulla sopravvivenza politica e sul controllo religioso, non sullo sviluppo delle infrastrutture”.

In città come Herat, gli uffici comunali operano con personale ridotto e budget ridotti al minimo. Non esistono programmi strutturati per il controllo degli affitti, né sussidi per i rimpatriati, né un quadro giuridico per prevenire gli sfratti forzati.

Implicazioni umanitarie

La crisi immobiliare di Herat rispecchia le tendenze nazionali. A Kabul, un’indagine di Salam Watandar ha mostrato che i costi degli affitti sono aumentati del 40% in tre anni a causa dell’ondata di rimpatri e del deterioramento delle condizioni economiche. In tutto l’Afghanistan, l’UNHCR e altre agenzie avvertono dell’imminente “crisi dimenticata”, con la diminuzione delle risorse.

Dal 2023, questo afflusso senza precedenti, aggravato dalle deportazioni da Iran e Pakistan, ha messo a dura prova la capacità di risposta umanitaria dell’Afghanistan. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), oltre 23,7 milioni di persone – più della metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria nel 2025, con i rimpatri forzati che aggiungono ulteriore pressione a risorse già ridotte.

L’UNHCR conferma che ben 1,6 milioni di rimpatriati, compresi quelli provenienti dal Pakistan, hanno messo a dura prova le comunità. Le organizzazioni umanitarie sottolineano che decine di migliaia di famiglie sono ora senza casa, senza riparo, acqua o assistenza sanitaria, mentre la malnutrizione e le malattie mentali sono in aumento.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto il coordinamento con i talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. Foto: UNAMA
L’ONU ha chiesto un urgente sostegno internazionale.

“Senza un intervento immediato – iniziative per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili, creazione di posti di lavoro e sostegno sociale – milioni di persone rischiano di essere spinte ancora più in basso nella povertà”, ha avvertito un funzionario dell’OIM sul campo.

Gli esperti affermano che la soluzione sostenibile risiede nello sviluppo edilizio su larga scala e nella regolamentazione del mercato degli affitti, misure che richiedono risorse, governance e cooperazione internazionale, tutti aspetti che rimangono irraggiungibili sotto il regime talebano. Nel frattempo, le deportazioni da Iran e Pakistan non accennano a rallentare.

Se le deportazioni continueranno, gli esperti avvertono che i centri urbani afghani potrebbero collassare sotto il peso del fenomeno, causando disordini sociali e sfollamenti. I rimpatriati indifesi potrebbero tentare di migrare nuovamente, alimentando flussi irregolari e instabilità.

Per Farooq, Hamidullah e innumerevoli famiglie, il futuro è pieno di rischi.

“Tutto ciò che vogliamo è un tetto sopra la testa”, sussurrò Hamidullah a bassa voce. “Siamo tornati in patria, ma siamo ancora senza casa.”

[Trad. automatica]

Il Regno Unito ha evacuato segretamente migliaia di persone dall’Afghanistan

Il Post, 15 luglio 2025

A partire dalla primavera del 2024 il Regno Unito ha avviato un programma finora segreto con cui ha accolto migliaia di persone afghane che volevano scappare dal paese dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, nell’agosto del 2021, e il ritorno al potere dei talebani. L’esistenza del programma è stata resa nota solo oggi: tutte le informazioni in merito sono state per anni riservate per via dell’ordine di un tribunale.

L’inizio del programma è legato a un fatto successo a febbraio del 2022: un funzionario del ministero della Difesa britannico rese pubblici per errore dati e informazioni sensibili su quasi 19mila persone afghane che avevano collaborato in qualche modo con il governo britannico, e che dopo il ritorno dei talebani avevano fatto domanda per essere trasferite dall’Afghanistan al Regno Unito (l’esercito britannico arrivò in Afghanistan nel 2001 al fianco di quello statunitense, e se ne andò nel 2021).

Il governo britannico, allora guidato dai Conservatori, apprese dell’errore ad agosto del 2023, quando le informazioni di alcune persone afghane coinvolte nella fuga di dati iniziarono a comparire online. A quel punto il governo decise di avviare un programma di ricollocamento segreto, chiamato Afghan Relocation Route (ARR), per timore che qualcuna tra le persone citate potesse subire ripercussioni.

Il ministero della Difesa britannico ottenne da un tribunale un’ingiunzione di non pubblicazione: in sostanza venne vietato parlare del caso, e come detto sia l’errore del funzionario sia il programma di ricollocamento sono rimasti segreti fino a oggi, quando l’ordine è stato sollevato. Nel frattempo è stata condotta un’indagine commissionata dal ministero, secondo cui la pubblicazione di quei dati non ha messo particolarmente a rischio i cittadini afghani coinvolti.

Finora il programma segreto ha facilitato l’arrivo nel Regno Unito di 4.500 persone, tra collaboratori afghani e i loro familiari, ed è costato circa 400 milioni di sterline (460 milioni di euro). Altre 2.400 persone hanno già avviato le pratiche per trasferirsi e lo faranno a breve: in totale il costo dell’operazione è stimato in 850 milioni di sterline, quasi un miliardo di euro. L’attuale governo, dei Laburisti, ha detto di aver interrotto il programma, quindi non saranno più accettate nuove richieste.

Nessuno vuole più i rifugiati afghani, i Paesi che li ospitano vogliono rimpatriarli: rischio crisi umanitaria

Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2025, di Davide Cancarini

Pakistan, Iran e Tagikistan (ma ci sta pensando anche la Germania) impongono il rimpatrio di migliaia di afghani, mentre i Talebani faticano a gestire l’emergenza

Il governo dei Talebani in Afghanistan sta ottenendo importanti successi diplomatici e una crescente legittimazione regionale che ha portato addirittura la Russia a riconoscere ufficialmente il regime che guida Kabul, primo Paese al mondo a compiere questo passo controverso. Se da un lato quindi le cancellerie dell’area approfondiscono la propria relazione con il movimento fondamentalista, dall’altro alcune di esse stanno stringendo le maglie nei confronti dei rifugiati afghani.

A iniziare quasi due anni fa è stato il Pakistan, gigante asiatico che confina con l’Afghanistan e che ospita, o forse sarebbe meglio dire ospitava, circa 4 milioni di rifugiati provenienti dal Paese vicino. Molti di essi erano presenti sul territorio pachistano da ben prima dell’agosto 2021 e dal ritorno al potere dei Talebani. D’altronde, i motivi per fuggire non sono mancati nel corso dei decenni, tra l’invasione sovietica, vari round di regimi teocratici controllati dagli Studenti coranici e la ventennale operazione militare statunitense lanciata dopo l’11 settembre 2001. Islamabad a un certo punto ha deciso di dire stop, accusando i cittadini afgani presenti sul proprio territorio – regolarmente o meno – di compiere attentati e in generale di destabilizzare il già fragile equilibrio interno. Trovare numeri precisi non è un’impresa semplice, ma dall’inizio del 2025 sarebbero più di 800mila le persone rimandate in Afghanistan dal Pakistan.

Nel corso del tempo anche l’Iran, altro Paese che confina con il territorio afgano, si è accodato e Teheran aveva dato come scadenza il 6 luglio per il rimpatrio dei più di 4 milioni di individui di origine afghana presenti nel Paese. Tra inizio giugno e inizio luglio ecco quindi un altro esodo: l’Onu ha quantificato in circa 450mila persone il flusso di migranti rispediti in Afghanistan, una situazione che il regime dei Talebani fa sempre più fatica a gestire.

Molto meno rilevante in termini numerici, ma comunque significativo della tendenza in atto, è il caso del Tagikistan. Il governo di Dushanbe ha appena annunciato di aver stabilito un orizzonte temporale di quindici giorni per consentire agli afghani presenti sul territorio della piccola repubblica centro asiatica, geograficamente contigua all’Afghanistan, di andarsene. In questo caso, data anche la grande chiusura e il controllo capillare sul Paese da parte del regime che guida il Tagikistan, si parla di circa 9mila persone.

⁠ Addirittura, anche la Germania, attraverso il suo ministro degli Interni, ha annunciato la possibilità di stabilire un canale di dialogo diretto con il regime di Kabul per trovare il modo di deportare dalle città tedesche almeno i cittadini afghani condannati per varie fattispecie criminali.

Gli ufficiali talebani stanno chiedendo a gran voce che il ritorno dei rifugiati avvenga in maniera progressiva, sia perché questi grandi flussi mettono ulteriore pressione sulla già disastrata situazione sociale interna, oltre a causare una crisi umanitaria di proporzioni immani, sia per i possibili contraccolpi economici. Molti afghani, infatti, hanno abbandonato il Paese di origine anche alla ricerca di migliori condizioni economiche e con le rimesse inviate in patria hanno a lungo garantito una forma di sostentamento per le proprie famiglie. Dal ritorno al potere dei Talebani, anche per le sanzioni internazionali, le rimesse sono costantemente calate e questa situazione potrebbe portare al loro definitivo crollo. Di contro, per il movimento fondamentalista stabilire delle modalità certe di rimpatrio ed ergersi a interlocutore legittimo può rappresentare una vittoria sul fronte politico e del riconoscimento internazionale così tanto ricercato.

Da molte parti si stanno alzando voci contro le espulsioni di massa di persone che rischiano sia di perdere tutto quello che erano faticosamente riuscite a costruirsi nei Paesi d’accoglienza, sia di trovare una situazione interna disastrosa o addirittura essere perseguitati per la loro opposizione al regime teocratico afgano. Difficilmente però il flusso si interromperà. Per Paesi come il Pakistan e l’Iran è infatti molto semplice additare i rifugiati afgani come responsabili di molti dei problemi interni che li affliggono e, attraverso le espulsioni e in assenza di soluzioni strutturali, alleggerire almeno in parte la crisi sociale che attanaglia i rispettivi contesti. Le espulsioni possono anche essere usate come merce di scambio con i Talebani che potrebbero essere spinti a garantire concessioni di varia natura a Islamabad e Teheran a fronte dello stop ai rimpatri. Tutto questo sempre e solo sulla pelle dei cittadini afghani.

A giugno, secondo le Nazioni Unite, oltre 250.000 afghani hanno lasciato l’Iran

Aleks Phillips, Soroush Pakzad, BBC, 1 luglio 2025

Più di 256.000 afghani hanno lasciato l’Iran nel solo mese di giugno, segnando un’impennata nei rientri in Afghanistan da quando Teheran ha fissato una scadenza rigida per i rimpatri, come dichiarato dall’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato 28.000 afghani che hanno lasciato l’Iran in un solo giorno a giugno, dopo che il regime iraniano ha ordinato a tutti gli afghani sprovvisti di documenti di lasciare il Paese entro il 6 luglio.

Il numero di rifugiati afghani in Iran è aumentato da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021; molti di loro vivono senza uno status legale.

Ciò ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-afghano in Iran, dove i rifugiati devono affrontare discriminazioni sistematiche.

Afghani rimpatriati con la forza

L’OIM ha dichiarato che, da gennaio, più di 700.000 afghani hanno lasciato l’Iran e il portavoce Avand Azeez Agha ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che il 70% di loro è stato “rimandato indietro con la forza”.

L’aumento dei rimpatri e la scadenza sono avvenuti dopo che Iran e Israele hanno ingaggiato un conflitto diretto, iniziato con l’attacco di Israele a siti nucleari e militari a metà giugno. Da allora è stato mediato un cessate il fuoco.

Mentre i due Paesi si scambiavano attacchi quotidiani, il regime iraniano ha arrestato diversi migranti afghani sospettati di spionaggio per conto di Israele, come riportato dai media statali.

In seguito a queste denunce, è iniziata una nuova ondata di rimpatri forzati. L’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Mehr ha riferito che la polizia era stata incaricata di accelerare le deportazioni, ma la polizia ha poi smentito.

“Abbiamo paura ad andare ovunque, perché c’è sempre il timore che ci accusino di essere spie”, ha dichiarato alla BBC Persian un migrante afghano in Iran, che non nominiamo per proteggerne l’identità.

“Ai posti di blocco perquisiscono le persone e controllano i telefoni . I messaggi o i video di media stranieri sui social network possono letteralmente mettere in pericolo la vita di chi li ha”.

“Molti iraniani ci insultano, dicendo ‘Voi afghani siete spie’ o ‘lavorate per Israele'”.

Numerose notizie riportate dai media iraniani indicano che sono stati espulsi con la forza anche afghani in possesso di visti e documenti validi. Alcuni, rilasciati dopo essere stati arrestati, hanno dichiarato di essere stati accusati dai funzionari di aver tradito il Paese.

Arafat Jamal, coordinatore dell’UNHCR per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Iran, “le conseguenze di quella guerra continuano”.

“Questo movimento di espulsione era precedente, ma è stato esacerbato dalla guerra”, ha dichiarato alla BBC Pashto.

“I rimpatriati raccontano di una serie di azioni, alcune piuttosto coercitive, altre meno, che li hanno spinti a tornare”.

Sottoposti a oppressioni ovunque

I rifugiati afghani non hanno diritto alla cittadinanza iraniana, neanche se sono nati nel Paese, e molti di loro non possono aprire conti bancari, acquistare carte SIM o vivere in determinate aree. Anche le opportunità di lavoro sono fortemente limitate e spesso si riducono a lavori coercitivi con bassi salari.

In questa fase di allontanamento, le autorità iraniane hanno anche esortato il pubblico a denunciare gli afghani senza documenti.

“Ci sono oppressori qui e oppressori là”, ha detto un altro afghano in Iran. “Noi migranti non siamo mai stati liberi, non abbiamo mai vissuto una vita libera”.

Un altro ha dichiarato: “Il futuro degli afghani che vivono in Iran sembra davvero tetro”, aggiungendo: “La polizia è violenta e umiliante e ora anche i Basij [milizie volontarie] sono stati incaricati di arrestare gli afghani”.

L’aumento dei rimpatri arriva dopo che il Pakistan ha intensificato le proprie azioni di espulsione degli afghani senza documenti, affermando di non essere più in grado di ospitarli.

Jamal ha dichiarato che quest’anno il numero di rifugiati afghani rientrati in patria dall’Iran e dal Pakistan ha superato il milione. Pur ringraziando entrambe le nazioni per aver accolto, negli ultimi decenni di instabilità, milioni di afghani ha esortato i due Paesi a cercare una soluzione comune alla crisi.