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Tag: rifugiati

A giugno, secondo le Nazioni Unite, oltre 250.000 afghani hanno lasciato l’Iran

Aleks Phillips, Soroush Pakzad, BBC, 1 luglio 2025

Più di 256.000 afghani hanno lasciato l’Iran nel solo mese di giugno, segnando un’impennata nei rientri in Afghanistan da quando Teheran ha fissato una scadenza rigida per i rimpatri, come dichiarato dall’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato 28.000 afghani che hanno lasciato l’Iran in un solo giorno a giugno, dopo che il regime iraniano ha ordinato a tutti gli afghani sprovvisti di documenti di lasciare il Paese entro il 6 luglio.

Il numero di rifugiati afghani in Iran è aumentato da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021; molti di loro vivono senza uno status legale.

Ciò ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-afghano in Iran, dove i rifugiati devono affrontare discriminazioni sistematiche.

Afghani rimpatriati con la forza

L’OIM ha dichiarato che, da gennaio, più di 700.000 afghani hanno lasciato l’Iran e il portavoce Avand Azeez Agha ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che il 70% di loro è stato “rimandato indietro con la forza”.

L’aumento dei rimpatri e la scadenza sono avvenuti dopo che Iran e Israele hanno ingaggiato un conflitto diretto, iniziato con l’attacco di Israele a siti nucleari e militari a metà giugno. Da allora è stato mediato un cessate il fuoco.

Mentre i due Paesi si scambiavano attacchi quotidiani, il regime iraniano ha arrestato diversi migranti afghani sospettati di spionaggio per conto di Israele, come riportato dai media statali.

In seguito a queste denunce, è iniziata una nuova ondata di rimpatri forzati. L’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Mehr ha riferito che la polizia era stata incaricata di accelerare le deportazioni, ma la polizia ha poi smentito.

“Abbiamo paura ad andare ovunque, perché c’è sempre il timore che ci accusino di essere spie”, ha dichiarato alla BBC Persian un migrante afghano in Iran, che non nominiamo per proteggerne l’identità.

“Ai posti di blocco perquisiscono le persone e controllano i telefoni . I messaggi o i video di media stranieri sui social network possono letteralmente mettere in pericolo la vita di chi li ha”.

“Molti iraniani ci insultano, dicendo ‘Voi afghani siete spie’ o ‘lavorate per Israele'”.

Numerose notizie riportate dai media iraniani indicano che sono stati espulsi con la forza anche afghani in possesso di visti e documenti validi. Alcuni, rilasciati dopo essere stati arrestati, hanno dichiarato di essere stati accusati dai funzionari di aver tradito il Paese.

Arafat Jamal, coordinatore dell’UNHCR per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Iran, “le conseguenze di quella guerra continuano”.

“Questo movimento di espulsione era precedente, ma è stato esacerbato dalla guerra”, ha dichiarato alla BBC Pashto.

“I rimpatriati raccontano di una serie di azioni, alcune piuttosto coercitive, altre meno, che li hanno spinti a tornare”.

Sottoposti a oppressioni ovunque

I rifugiati afghani non hanno diritto alla cittadinanza iraniana, neanche se sono nati nel Paese, e molti di loro non possono aprire conti bancari, acquistare carte SIM o vivere in determinate aree. Anche le opportunità di lavoro sono fortemente limitate e spesso si riducono a lavori coercitivi con bassi salari.

In questa fase di allontanamento, le autorità iraniane hanno anche esortato il pubblico a denunciare gli afghani senza documenti.

“Ci sono oppressori qui e oppressori là”, ha detto un altro afghano in Iran. “Noi migranti non siamo mai stati liberi, non abbiamo mai vissuto una vita libera”.

Un altro ha dichiarato: “Il futuro degli afghani che vivono in Iran sembra davvero tetro”, aggiungendo: “La polizia è violenta e umiliante e ora anche i Basij [milizie volontarie] sono stati incaricati di arrestare gli afghani”.

L’aumento dei rimpatri arriva dopo che il Pakistan ha intensificato le proprie azioni di espulsione degli afghani senza documenti, affermando di non essere più in grado di ospitarli.

Jamal ha dichiarato che quest’anno il numero di rifugiati afghani rientrati in patria dall’Iran e dal Pakistan ha superato il milione. Pur ringraziando entrambe le nazioni per aver accolto, negli ultimi decenni di instabilità, milioni di afghani ha esortato i due Paesi a cercare una soluzione comune alla crisi.

Nessuna terra da considerare sicura: una donna afghana a Teheran sotto bombardamento

Zan Times, 19 giugno 2025 , di Sarah Hossaini

Sono Sarah Hossaini e scrivo questo mentre la guerra tra Israele e Iran entra nel suo quarto giorno.

Tutto è iniziato esattamente alle 3:30 di venerdì mattina, quando ho sentito il rumore della prima esplosione in lontananza. Ho pensato che potessero essere i petardi per l’Eid al-Ghadir. La seconda esplosione è arrivata pochi istanti dopo, e di nuovo l’ho scambiata per una festa. Ma quando è risuonata la terza esplosione, la mia compagna di stanza ha urlato a squarciagola: “È successo qualcosa!”

Guardammo fuori dal quarto piano del dormitorio. Attraverso la finestra, vedemmo una densa colonna di fumo che si levava verso il cielo in lontananza.

Eravamo terrorizzati. Mi sembrava che gli occhi mi stessero uscendo dalle orbite, non sapevo cosa fare. Entrambe preparammo velocemente le nostre cose. Io buttai nello zaino il portatile e i documenti che avevo accumulato in Iran in anni di lavoro, e corremmo fuori nel cortile.

Quei momenti di panico furono profondamente sconvolgenti per me e per le altre ragazze afghane del dormitorio: un’esperienza amara che stavamo vivendo per la seconda volta. Trattenevamo il respiro, ignare del destino che ci attendeva.

Verso le cinque o le cinque e mezza del mattino, tornammo in camera. Non avevo dormito tutta la notte, e quel giorno finalmente mi addormentai, consumata dalla paura e dalla preoccupazione.

Quel giorno passò con ansia, ma senza più esplosioni. Verso le 18:30, andai nella stanza di un’altra ragazza nel dormitorio. Eravamo tutte sedute lì, pronte a prendere le nostre cose e a correre in cantina se fosse successo qualcosa.

E poi, di nuovo, un altro boom terrificante.

Tutti andarono nel panico. Corsi in camera mia. Quel giorno ero andata al supermercato e avevo comprato tonno in scatola, biscotti, bibite e pane, giusto per ogni evenienza, per sopravvivere qualche giorno se fosse successo il peggio.

Quella notte intera rimanemmo nel seminterrato del dormitorio, circondati da rumori assordanti. Alle 7 del mattino tornammo nelle nostre stanze.

Quattro giorni di guerra

Sono trascorsi quattro giorni dall’inizio della guerra tra Israele e Iran: giorni amari e dolorosi che riecheggiano i ricordi strazianti dello sfollamento del popolo afghano, in particolare di coloro che sono fuggiti in Iran in cerca di rifugio dall’insicurezza, dalla paura e dai talebani.

Quattro anni fa, quando i talebani presero il potere, ero a Kabul per un incarico di lavoro, proveniente da Mazar-e-Sharif. Durante la caduta di Kabul, cercai rifugio a casa di un parente nella parte occidentale della città. Rimasi lì da solo per un mese intero, con ogni respiro pesante nel petto, intrappolato in un silenzio soffocante.

All’epoca, seguivo le notizie in TV, guardando le scene dall’aeroporto. La folla si accalcava. C’ero andato anch’io. La gente guadava fossi sporchi, disperata per raggiungere la salvezza. Anch’io ero in quella fogna, umiliata e distrutta. Il trauma persiste ancora. Dopo anni di sforzi e lavoro, la nostra gente ha mendicato nelle fogne solo per fuggire dall’Afghanistan.

Alla fine sono arrivata in Iran con un visto per studenti, perché persino la mia casa non era più un posto sicuro.

Sono quasi quattro anni che vivo in Iran: apolide, senza un soldo, in difficoltà psicologiche e senza futuro. Questi sono gli ultimi giorni del mio visto studentesco. Nonostante mi aggrappassi alla speranza ormai affievolita che le ambasciate mi aprissero una porta, non si è mai concretizzato alcun segno di quella speranza.

Esausta e disperata, cercavo di trovare una via d’uscita da questo limbo, quando è iniziata la guerra tra Iran e Israele, rendendo tutto ancora più insopportabile.

Ora, non ho futuro in Afghanistan, dove governano i talebani, e non c’è sicurezza in Iran, in queste condizioni terrificanti.

Ancora una volta, come anni fa, ho fatto le valigie nella speranza di sopravvivere e mi sono rifugiata a casa di un parente in un angolo sperduto di Teheran.

Dal primo giorno dell’attacco fino ad oggi, il quarto giorno, mi sono sentita persa, incerta su dove andare, sotto shock, incapace di decidere.

Altri paesi hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare l’Iran, ma solo i cittadini afghani restano intrappolati nell’incertezza più totale.

Non c’è posto per noi, nessun rifugio sicuro, nessun rifugio, soprattutto per le migliaia di ragazze afghane vulnerabili che sono arrivate in Iran per disperazione, private del diritto all’istruzione nel loro Paese, nella speranza di trovare un barlume di opportunità e continuare gli studi. Ora, in questo momento terrificante, quelle stesse ragazze sono state lasciate ancora una volta completamente sole.

Io sono uno di loro: una che è stata costretta a venire in Iran perché non aveva altra scelta. E ora, tutto ciò che cerco di fare è sopravvivere.

Mi chiedo: qual è il mio ultimo rifugio sicuro? Quanto a lungo potrò sopportare questa infinita incertezza?

Sono una ragazza fuggita dalla guerra, che ha cercato rifugio in Iran. Ora, dove posso andare da qui?

Sarah Hossaini è lo pseudonimo di una giornalista iraniana.

Insicurezza nazionale: gli afghani espulsi chiedono un rapido ritorno in Pakistan

Dawn e-paper, 20 giugno 2025

Il Pakistan afferma di aver espulso più di un milione di afghani negli ultimi due anni, ma molti hanno tentato rapidamente di tornare, preferendo tentare la fortuna eludendo la legge piuttosto che lottare per l’esistenza in una patria che alcuni non avevano mai visto prima.

“Tornare lì significherebbe condannare a morte la mia famiglia”, ha affermato Hayatullah, un afghano di 46 anni deportato attraverso il valico di frontiera di Torkham nel Khyber Pakhtunkhwa all’inizio del 2024.

Da aprile, con la ripresa delle deportazioni , circa 200.000 afghani hanno oltrepassato i due principali valichi di frontiera provenienti dal Pakistan, entrando a bordo di camion carichi di beni imballati in fretta.

Ma hanno poche speranze di ricominciare in un Paese povero, dove alle ragazze è vietato andare a scuola dopo la scuola primaria.

Hayatullah, uno pseudonimo, è tornato in Pakistan un mese dopo essere stato deportato, viaggiando per circa 800 chilometri (500 miglia) a sud fino al valico di frontiera di Chaman, nel Belucistan, perché per lui la vita in Afghanistan “si era fermata”.

Ha pagato una tangente per attraversare la frontiera di Chaman, “come tutti i braccianti che regolarmente attraversano il confine per lavorare dall’altra parte”.

Sua moglie e i suoi tre figli, tra cui due figlie di 16 e 18 anni, a cui sarebbe stata negata l’istruzione in Afghanistan, erano riusciti a evitare l’arresto e la deportazione.

Sicurezza relativa
Hayatullah si trasferì con la famiglia a Peshawar. “Rispetto a Islamabad, qui la polizia non ci molesta così tanto”, ha detto.

Anche Samad Khan, un afghano di 38 anni che ha parlato usando uno pseudonimo, ha scelto di trasferire la sua famiglia a Peshawar.

Nato a Lahore, mise piede in Afghanistan per la prima volta il 22 aprile, giorno della sua deportazione.

“Non abbiamo parenti in Afghanistan e non c’è traccia di vita. Non c’è lavoro, non c’è reddito e i talebani sono estremamente severi”, ha detto.

All’inizio ha cercato lavoro in un paese in cui l’85 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, ma dopo alcune settimane ha trovato il modo di tornare in Pakistan.

“Ho pagato 50.000 rupie a un camionista afghano”, ha detto, usando la carta d’identità di uno dei suoi dipendenti pakistani per attraversare il confine.

Tornò di corsa a Lahore per caricare su un veicolo i suoi averi, la moglie e i due figli che aveva lasciato lì, e si trasferì a Peshawar.

“Ho avviato un’attività di vendita di scarpe di seconda mano con il supporto di un amico. La polizia qui non ci molesta come a Lahore e l’ambiente in generale è molto migliore”, ha dichiarato all’AFP .

Reinserimento ‘difficile’
È difficile dire quanti afghani siano tornati, poiché i dati sono scarsi.

Fonti governative sostengono che centinaia di migliaia di afghani siano già tornati e si siano stabiliti nel KP, cifre che non possono essere verificate in modo indipendente.

I difensori dei diritti dei migranti in Pakistan affermano di aver sentito parlare di tali rimpatri, ma insistono sul fatto che i numeri sono limitati.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha dichiarato all’AFP che “alcuni afghani rimpatriati hanno successivamente scelto di emigrare di nuovo in Pakistan”.

“Quando le persone tornano in aree con accesso limitato ai servizi di base e alle opportunità di sostentamento, la reintegrazione può essere difficile”, ha affermato Avand Azeez Agha, responsabile delle comunicazioni dell’agenzia delle Nazioni Unite a Kabul.

Potrebbero andare avanti ancora, ha detto, “mentre le persone cercano opportunità sostenibili”.

Siria. La riduzione in schiavitù delle donne rapite

Ovunque il fondamentalismo porta alla schiavitù delle donne

The Cradle, La bottega del Barbieri, 29 aprile 2025

Nella Siria post-Assad, il Rapimento di Massa e la Riduzione in Schiavitù Sessuale delle donne Alawite sotto il Regime di Sharaa (al-Julani) rispecchiano le più oscure atrocità dell’ISIS, eppure incontrano il silenzio globale.

Da dicembre, quando l’ex affiliata di al-Qaeda, Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ha rovesciato il governo di Bashar al-Assad, la Siria ha assistito a un’agghiacciante ondata di misteriosi rapimenti di giovani donne, prevalentemente appartenenti alla comunità Alawita.
Continuano a emergere prove che queste donne, principalmente appartenenti alla componente religiosa Alawita, siano state rapite e condotte a vivere come schiave sessuali nel Governatorato di Idlib, tradizionale roccaforte di HTS, da fazioni armate affiliate al nuovo governo siriano.
Incredibilmente, il rapimento di massa e la riduzione in schiavitù di donne Alawite, ora perpetrati da fazioni affiliate a HTS, rispecchiano la Riduzione in Schiavitù di migliaia di donne Yazide da parte dell’ISIS durante il Genocidio del 2014 a Sinjar, in Iraq.

L’ATTIVISTA CHE HA DENUNCIATO

In un post di Facebook ora cancellato, Hiba Ezzedeen, un’attivista siriana di Idlib, ha descritto il suo incontro con una donna che ritiene sia stata catturata e portata nel Governatorato come schiava sessuale durante l’ondata di massacri perpetrati dalle fazioni affiliate al governo e dalle forze di sicurezza contro gli Alawiti nelle zone costiere del Paese il 7 marzo.

“Durante la mia ultima visita a Idlib, ero in un posto con mio fratello quando ho visto un uomo che conoscevo con una donna che non avevo mai incontrato prima”, ha spiegato Hiba.” Quest’uomo si era sposato diverse volte in precedenza e si ritiene che attualmente abbia tre mogli. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stato l’aspetto della donna: in particolare, era chiaro che non sapesse indossare correttamente l’hijab e il suo velo era indossato in modo disordinato”.

Dopo ulteriori indagini, Ezzedeen ha appreso che la donna proveniva dalle zone costiere dove si sono verificati i massacri del 7 marzo, in cui sono stati uccisi oltre 1.600 civili Alawiti.
“Quest’uomo l’aveva portata al villaggio e l’aveva sposata, senza ulteriori dettagli disponibili. Nessuno sapeva cosa le fosse successo o come fosse arrivata lì, e naturalmente la giovane donna aveva troppa paura di parlare”, ha aggiunto Ezzedeen.
Poiché la situazione le sembrava così strana e allarmante, ha iniziato a chiedere a tutti quelli che conosceva, “ribelli, fazioni, attivisti per i diritti umani”, informazioni sul rapimento di donne Alawite dalla costa.
“Purtroppo, molti hanno confermato che ciò è effettivamente accaduto, e non solo da una fazione. In base a quanto affermato dagli amici, le accuse puntano a fazioni dell’Esercito Nazionale e ad alcuni combattenti stranieri, con motivazioni diverse”, ha riferito.
Le nuove forze di sicurezza siriane guidate da HTS hanno incorporato gruppi estremisti armati, tra cui Uiguri del Partito Islamico del Turkestan e turcomanni siriani appartenenti a fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dai servizi segreti turchi, fin dalla loro ascesa al potere a Damasco.
Diversi comandanti dell’Esercito Nazionale Siriano ed estremisti stranieri sono stati nominati a posizioni di vertice nel Ministero della Difesa siriano.
Mentre le unità della Sicurezza Generale, dominate da HTS, hanno partecipato ai massacri del 7 marzo in molte zone, si ritiene che ex fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano e di combattenti stranieri abbiano guidato la campagna. I militanti sono andati porta a porta nei villaggi e nei quartieri Alawiti, giustiziando tutti gli uomini in età militare che hanno trovato, saccheggiando case e, a volte, uccidendo donne, bambini e anziani.
Ezzedeen ha concluso il suo post affermando: “Questa è una questione seria che non può essere ignorata. Il governo deve rivelare immediatamente la sorte di queste donne e rilasciarle”.
Invece di indagare sulla questione e cercare di salvare le donne prigioniere, il Governatore di Idlib nominato da HTS ha emesso un ordine di arresto per Ezzedeen, sostenendo che avesse “insultato l’hijab”.
La coraggiosa rivelazione di Ezzedeen ha fatto luce sul destino di molte giovani donne appartenenti a comunità minoritarie, misteriosamente scomparse negli ultimi mesi, dopo che il Presidente Ahmad al-Sharaa e HTS avevano rovesciato Assad e preso il potere a Damasco.

UN MODELLO DI RAPIMENTI

In uno dei primi casi, una giovane donna Drusa del sobborgo di Jaramana a Damasco, Karolis Nahla, è scomparsa la mattina del 2 febbraio 2024, mentre si recava all’università nella zona di Mezzeh. Il caso era singolare perché non fu richiesto alcun riscatto e non si seppe più nulla di lei.

Col tempo, iniziarono a trapelare informazioni secondo cui giovani donne come Karolis venivano rapite e portate a Idlib come schiave, come infine confermato da Hiba Ezzedeen.
Il 21 marzo, Bushra Yassin Mufarraj, madre Alawita di due figli, è scomparsa dalla stazione degli autobus di Jableh. Suo marito ha poi pubblicato un video di appello in cui affermava che era stata rapita e portata a Idlib.
“Mia moglie è stata rapita a Idlib. C’è qualcosa di più crudele al mondo che possa accadere a un uomo? Che sua moglie e la madre dei suoi figli si trovi in tali circostanze”, ha dichiarato in un video di appello pubblicato sui social media dieci giorni dopo.
La scomparsa di Bushra è stata seguita da un’ondata di rapimenti nei giorni e nelle settimane successive. L’Agenzia Curda Jinha ha riferito il 25 marzo, citando fonti locali, che più di 100 persone sono state rapite da gruppi armati nelle regioni costiere della Siria nelle 48 ore precedenti, tra cui molte donne.

Il 5 aprile, la ventunenne Katia Jihad Qarqat è scomparsa. L’ultimo contatto con lei è avvenuto alle 9:40 del mattino presso la farmacia del circolo Bahra a Jdeidat Artouz, nella campagna di Damasco. La sua famiglia ha implorato che chiunque l’avesse vista o avesse informazioni su di lei li contattasse.

L’8 aprile, la diciassettenne Sima Suleiman Hasno è scomparsa alle 11:00 del mattino dopo aver lasciato la sua scuola nel villaggio di Qardaha, nella campagna di Latakia. Sima è stata rilasciata quattro giorni dopo a Damasco, dove è stata riconsegnata alla zia da membri del governo siriano guidato da HTS.
I filmati di sorveglianza dei negozi vicino al luogo del rapimento sono circolati ampiamente sui social media, scatenando un’ondata di indignazione.
L’11 aprile, alle 16:00, si è persa la comunicazione con la ventiduenne Raneem Ghazi Zarifa nella campagna di Hama, nella città di Masyaf.
“Siamo estremamente preoccupati per lei. Chiediamo a chiunque abbia informazioni su di lei, anche minime, di contattarci immediatamente”, ha dichiarato la sua famiglia in un post sui social media.
Il 14 aprile, Batoul Arif Hassan, una giovane donna sposata con un bambino di tre anni di Safita, è scomparsa dopo aver fatto visita ai familiari nel villaggio di Bahouzi. I contatti con lei si sono interrotti intorno alle 16:00 mentre viaggiava su un minibus pubblico sulla strada Homs-Safita. La sua famiglia ha chiesto in un post sui social media a chiunque avesse informazioni sulla sua posizione di contattare telefonicamente suo fratello.
La mattina del 16 aprile, Aya Talal Qassem, 23 anni, è stata rapita dopo aver lasciato la sua casa nella città costiera di Tartous. Tre giorni dopo, il rapitore di Aya l’ha liberata e l’ha condotta a Tartous, sull’autostrada per Homs, solo per essere arrestata dalla Procura Generale guidata da HTS.
La madre di Aya ha pubblicato un video sui social media in cui spiegava che alla sua famiglia non era permesso stare con lei durante la detenzione e che suo padre era stato arrestato perché aveva insistito per vederla. La madre ha affermato che la Procura Generale ha cercato di costringere Aya a testimoniare, affermando che non era stata rapita, ma che era fuggita con un amante. La madre ha aggiunto di essere stata costretta a raccontare una simile storia nonostante la presenza di tagli e ferite sanguinanti sul suo corpo. Un video è stato pubblicato in Rete nel momento del suo emozionante ritorno a casa, tra familiari e parenti che l’attendevano con ansia.

Il 21 aprile, Nour Kamal Khodr, 26 anni, è stata rapita insieme alle sue due figlie, Naya Maher Qaidban di 5 anni e Masa Maher Qaidban di 3.
Nour e le sue figlie hanno lasciato la loro casa nel villaggio di Al-Mashrafa, nella zona rurale di Homs, a mezzogiorno, dirigendosi verso l’abitazione di un vicino. Testimoni hanno visto un gruppo mascherato affiliato alla Sicurezza Generale guidata da HTS rapirle, caricarle su un veicolo contrassegnato con l’emblema del gruppo prima di darsi alla fuga.

ECHI DI SINJAR

Entro il 17 aprile, l’emittente irachena Al-Daraj ha riportato la notizia di dieci rapimenti confermati di donne Alawite nelle regioni costiere. Secondo una sopravvissuta, pseudonimo Rahab, è stata rapita in pieno giorno e tenuta chiusa a chiave in una stanza con un’altra donna.
Una donna che ha parlato con Al-Daraj con lo pseudonimo Rahab è stata rilasciata dopo che i rapitori avrebbero temuto un’irruzione della Sicurezza Generale. Ha dichiarato di essere stata rapita in pieno giorno e tenuta in una stanza con un’altra donna, affermando:
“Ci hanno torturato e picchiato. Non ci era permesso parlarci, ma ho sentito l’accento dei rapitori. Uno aveva un accento straniero e l’altro un accento locale di Idlib. Lo sapevo perché ci insultavano perché eravamo Alawite”.
L’altra donna, trattenuta con lei, pseudonimo Basma, rimane prigioniera. È stata costretta a chiamare la sua famiglia per dire loro che stava “bene” e per rassicurarli che “non avrebbero dovuto pubblicare nulla” sul suo rapimento.
Al-Daraj ha anche documentato il caso di una ragazza di 18 anni, anch’essa rapita in pieno giorno, nelle campagne di una città costiera in Siria.
La sua famiglia ha poi ricevuto un messaggio di testo che la intimava di rimanere in silenzio sul suo rapimento, altrimenti sarebbe stata riconsegnata morta. La ragazza ha poi inviato alla famiglia una registrazione vocale da un numero di telefono registrato in Costa d’Avorio, dicendo che stava bene e che non sapeva dove fosse stata portata.
I media iracheni hanno paragonato questi casi al Genocidio degli Yazidi perpetrato dall’ISIS a Sinjar. Oltre 6.400 Yazidi sono stati ridotti in Schiavitù dall’ISIS nel 2014.
Migliaia di loro sono stati trafficati in Siria e Turchia, venduti come Schiavi domestici o sessuali, o addestrati per il combattimento. Molti risultano ancora dispersi.

HTS: LA CONTINUITÀ IDEOLOGICA DELL’ISIS

Che donne Alawite stiano ora comparendo a Idlib non sorprende, data la discendenza ideologica di HTS.
HTS, che ha conquistato Idlib nel 2015 con missili TOW forniti dalla CIA, condivide la stessa visione Genocida dell’ISIS.
È stata fondata dall’ISIS e guidata da Sharaa, allora noto come Abu Mohammad al-Julani, inviato in Siria nel 2011 dal defunto “Califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi per fondare il Fronte Al-Nusra, precursore di HTS.

Nel 2014, l’analista siriano Sam Heller descrisse quindi i religiosi di Al-Nusra come promotori di un “fanatismo tossico, persino Genocida” nei confronti degli Alawiti, basato sugli insegnamenti dello studioso islamico medievale Ibn Taymiyyah.
Sebbene HTS e ISIS si siano scontrati nel 2014, i loro legami sono durati. Quando Al-Baghdadi fu ucciso nel 2019, si nascondeva a Barisha, appena fuori Sarmada, controllata da HTS. All’epoca, anche numerosi Yazidi ridotti in Schiavitù si trovavano a Idlib.
Il quotidiano The Guardian lo ha confermato, citando Abdullah Shrem, un soccorritore Yazida, e Alexander Hug della Commissione Internazionale per le Persone Scomparse, i quali hanno affermato che le persone scomparse venivano spesso trattenute “in aree al di fuori del controllo governativo”.
Nel 2019, Ali Hussein, uno Yazida di Dohuk, raccontò alla giornalista della Radio Pubblica Nazionale Jane Arraf del suo tentativo di comprare la libertà di una bambina Yazida di 11 anni, rapita dall’ISIS ma “venduta a un emiro di un’organizzazione affiliata ad Al-Qaeda in Siria, Jabhat Al-Nusra, e non più vergine”.
“Vi avevo detto 45.000 dollari (40.000 euro) fin dall’inizio. So quanto pagano a Raqqa. Vi avevo detto che in Turchia avrebbero pagato 60.000 o 70.000 dollari (53.000 – 62.000 euro) e le avrebbero asportato gli organi. Ma non voglio farlo”, minacciò il contatto dell’ISIS durante la trattativa.
Reuters ha riportato il salvataggio di un giovane Yazida, Rojin, catturato e ridotto in schiavitù dall’ISIS insieme al fratello nel 2014. A 13 anni, Rojin fu portato nel campo Curdo di Al-Hol, nella Siria Orientale. Fu trattenuto lì insieme a migliaia di famiglie e sostenitori dell’ISIS dopo la sconfitta finale dell’organizzazione nella città di confine siriana di Baghouz nel 2019.
Il combattente saudita dell’ISIS che aveva acquistato Rojin organizzò poi il suo trasporto clandestino da Al-Hol a Idlib. Fu liberato cinque anni dopo, nel novembre 2024, mentre HTS preparava il suo assalto lampo ad Aleppo.
Reuters ha riferito che in un altro caso, un Yazida di 21 anni di nome Adnan Zandenan ricevette un messaggio su Facebook da un fratello minore che presumeva morto, ma che era stato anch’egli portato clandestinamente a Idlib.
“Mi tremavano le mani. Pensavo che uno dei miei amici mi stesse prendendo in giro”, ha ricordato Zandenan. Tuttavia, l’euforia di Zandenan si è rapidamente trasformata in disperazione quando suo fratello, ormai diciottenne e profondamente indottrinato dall’ideologia Salafita-Jihadista, si è rifiutato di lasciare Idlib e tornare nella comunità Yazida di Sinjar.

IL CALIFFATO RICONFEZIONATO

Nel dicembre 2024, appena un giorno dopo l’ingresso di HTS di Jolani a Damasco per rovesciare Assad, il giornale curdo iracheno Rudaw riferì che una donna Yazida di 29 anni era stata salvata dalla schiavitù a Idlib, affermando che molte donne Yazide erano state salvate dal campo di Al-Hol, gestito dai Curdi.

Tuttavia, altre “sono state trovate in zone della Siria controllate dai ribelli di HTS o da gruppi armati sostenuti dalla Turchia (Esercito Nazionale Siriano), e alcune sono state localizzate in Paesi terzi”, aggiunse.
Nei giorni successivi alla caduta di Assad, folle esultanti si riversarono nelle piazze cittadine, intonando canti a sostegno di al-Julani, ora ribattezzato Ahmad al-Sharaa.
Eppure, mentre i diplomatici occidentali si affrettavano a incontrare il nuovo sovrano, il significato della sua “libertà” divenne rapidamente chiaro. I rapimenti di donne Alawite, che rispecchiano la tragedia Yazida, hanno dimostrato che al-Julani aveva semplicemente riconfezionato il modello ISIS.
Con la scusa della liberazione, un brutale sistema di violenza fanatica, schiavitù e stupri è stato scatenato contro coloro che ora erano sotto il suo controllo.
In risposta al crescente negazionismo, l’esperto di genocidio Matthew Barber ha messo in guardia contro lo stesso schema che ha caratterizzato i primi giorni del genocidio Yazida: incredulità, rifiuto e derisione, finché la verità non si è rivelata ben peggiore.
“Nessuno credeva che potesse accadere. Persino analisti e giornalisti occidentali non credevano alle nostre affermazioni”, ha detto Barber. “La realtà era persino peggiore di quello che affermavamo”.
Il silenzio delle vittime non è volontario, è forzato. E mentre questa campagna di terrore di genere continua, la domanda rimane: per quanto tempo il mondo distoglierà lo sguardo?

Traduzione: La Zona Grigia.

Attivista afghana respinta dal Regno Unito: il dramma di Mina e la sua lotta per la vita

Unita.TV, 6 aprile 2025, di Serena Fontana

Mina, attivista afghana per i diritti umani, affronta la respinta della sua richiesta d’asilo in Gran Bretagna, evidenziando le difficoltà dei rifugiati e le politiche restrittive del governo britannico.

La storia di Mina, un’attivista afghana per i diritti umani, mette in luce le difficoltà che molti rifugiati affrontano nel cercare protezione in paesi occidentali. Dopo aver collaborato con i governi occidentali, Mina ha dovuto fuggire in Gran Bretagna per sfuggire alla minaccia dei Talebani. Tuttavia, la sua richiesta d’asilo è stata respinta, lasciandola in uno stato di ansia e paura per la sua vita. Questo articolo esplora la sua esperienza e il contesto più ampio delle politiche di asilo nel Regno Unito.

La fuga da un regime oppressivo
Mina ha vissuto in Afghanistan in un contesto di crescente pericolo, dove la sua attività come attivista per i diritti delle donne la esponeva a gravi rischi. Collaborando con organizzazioni non governative, si è dedicata a progetti di formazione per donne, un impegno che l’ha costretta a vivere in un clima di costante paura. Ogni giorno, affrontava posti di blocco e minacce, consapevole che molti dei suoi colleghi erano scomparsi o perseguitati. La sua decisione di lasciare l’Afghanistan è stata dettata dalla necessità di salvaguardare la propria vita, ma il suo arrivo in Gran Bretagna ha portato a una realtà inaspettata e angosciante.

La richiesta d’asilo e la risposta del governo britannico
All’arrivo nel Regno Unito, Mina ha presentato una richiesta d’asilo, certa che le sue esperienze e il suo attivismo sarebbero stati riconosciuti come motivi validi per ricevere protezione. Tuttavia, il Ministero dell’Interno britannico ha respinto la sua domanda, sostenendo che non corresse alcun rischio in Afghanistan e che potesse tornare in sicurezza. Questa decisione ha lasciato Mina in uno stato di vulnerabilità, vivendo con il costante timore di un rimpatrio forzato. La sua situazione è diventata ancora più critica considerando le attuali condizioni in Afghanistan, dove i Talebani hanno intensificato la repressione nei confronti delle donne e delle organizzazioni che lavorano per i loro diritti.

Le reazioni legali e il contesto più ampio
L’avvocato di Mina ha definito la decisione del governo britannico “scioccante e sconvolgente”, evidenziando che le politiche di asilo dovrebbero tenere conto del contesto attuale in Afghanistan. Le organizzazioni non governative che collaborano con i governi occidentali sono generalmente ben accolte nel Regno Unito, specialmente quando si occupano di progetti per l’emancipazione femminile. Tuttavia, la realtà è che il numero di richieste di asilo accolte per i cittadini afghani è drasticamente diminuito. Secondo il quotidiano The Guardian, nel quarto trimestre del 2024, il tasso di concessione di asilo per gli afghani è sceso dal 98% dell’anno precedente al 36%.

La lotta continua per i diritti umani
La storia di Mina è emblematiche delle sfide che molti attivisti per i diritti umani affrontano oggi. In un contesto globale in cui le politiche di asilo stanno diventando sempre più restrittive, la sua esperienza mette in evidenza la necessità di una maggiore attenzione e protezione per coloro che rischiano la vita per difendere i diritti fondamentali. La situazione in Afghanistan continua a deteriorarsi, e le donne, in particolare, sono le più colpite da questa crisi. La lotta di Mina non è solo una questione personale, ma rappresenta una battaglia più ampia per la giustizia e la dignità umana, che richiede un’azione collettiva e una rinnovata sensibilità da parte delle nazioni che si considerano custodi dei diritti umani.

 

Presidio. Le donne afghane: «No all’apartheid di genere, sia riconosciuto come crimine»

 avvenire.it Elisa Campisi 7 marzo 2025

Sono studentesse o rifugiate afghane, molte delle quali sono fuggite dal proprio Paese nell’agosto 2021 e adesso si stanno rifacendo una vita in Italia anche grazie all’aiuto della Fondazione Pangea. Sono scese in piazza a Roma, nell’ambito di una mobilitazione che sta toccando diversi Paesi in vista della Giornata internazionale delle donne. «Solidarietà per le donne afghane», gridano in più lingue. In alto i cartelli, anche questi in afghano, inglese e italiano. Chiedono il riconoscimento dell’apartheid delle donne come crimine contro l’umanità da parte dell’Unione europea e delle Nazioni unite. Perché, come riporta uno dei tanti cartelli al presidio, “il silenzio alimenta la crudeltà”.

Proprio loro che in qualche modo ce l’hanno fatta, avvertono il forte senso di responsabilità verso le altre e ora chiedono diritti per tutte le donne al mondo e specialmente per quelle rimaste nel loro Paese di origine. «In Afghanistan le donne non possono studiare, lavorare o uscire liberamente di casa», spiega Muzhda che oggi è qui grazie alla Fondazione, ma ricorda bene la fuga in aeroporto in quelle tragiche ore che sono passate alla storia come “la caduta di Kabul”. Dall’Italia, insieme a tutte le donne scese in piazza, «chiedo il riconoscimento della discriminazione subita come crimine contro l’umanità» perché anche in Afghanistan, come nel resto del mondo, «ognuno ha un sogno per la sua vita, ognuno ha i suoi diritti» e bisogna restituire una voce a chi ne è privato. Anche Nooria è riuscita a scappare nell’agosto 2021 grazie a Pangea, ma nonostante la paura di quei momenti allora «non riuscivo ancora a immaginare cosa sarebbe successo dopo».

«Sono passati 30 anni dalla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne di Pechino, ma le richieste di allora sono ancora attuali», ricorda Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea. «Tutto il mondo resta inerte davanti alla disumanizzazione delle donne che si sta compiendo in Afghanistan, una delle più vergognose negazioni dei diritti fondamentali e delle libertà delle donne, da quello alla formazione a quello semplicemente di cantare, per esempio», ribadisce Lanzoni.

Il presidio a Roma e quelli in contemporanea in più città sono solo una tappa in un percorso più ampio di iniziative per la rivendicazione dei diritti e della libertà di tutte. La vicepresidente serve un lavoro trasversale per la prevenzione della violenza e il rafforzamento del sistema di protezione internazionale, sia nei Paesi in pace che in quelli in conflitto, sia nei processi migratori che in quelli di integrazione negli Stati di arrivo. È in quest’ottica che Pangea sarà tra le tante realtà che parteciperanno alla sessantanovesima sessione della Commissione sulla condizione delle donne che si terrà presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 10 al 21 marzo 2025. «In quest’occasione chiederemo in particolare l’applicazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea che il 4 ottobre 2024, con una decisione storica, ha affermato che le restrizioni imposte dai talebani alle donne afghane si qualificano come “atti di persecuzione” sufficienti per ottenere automaticamente lo status di rifugiato ai sensi della Direttiva 2011/95/UE che stabilisce i parametri per la concessione della protezione internazionale nell’Ue», specifica Lanzoni. Un altro focus importante dell’appuntamento all’Onu saranno i matrimoni precoci che riguardano non solo l’Afghanistan o i contesti socio-economici più svantaggiati: «Nonostante decenni di battaglie da parte delle attiviste femministe, questo fenomeno continua impunemente e la strategia per porre fine all’impunità è fondamentale per smantellare il patriarcato e garantire che le donne siano al sicuro da qualsiasi forma di violenza». Tuttavia, se non si riesce a fare squadra non ci sarà mai il superamento di questi ostacoli, mette in guardia Lanzoni, che conclude: «”Ripartire da Sé” è il claim di Pangea, senza dimenticare nessuna e nessuno. Dobbiamo costruire una nuova stagione di diritti, proprio quella che tarda ad arrivare».

 

 

 

 

Il Pakistan costringerà decine di migliaia di rifugiati afghani a lasciare la capitale

DiZia ur-Rehman, The New York Times, 7 febbraio 2025

L’ordine, che dà agli afghani tempo fino al 31 marzo per recarsi altrove in Pakistan, è arrivato subito dopo la sospensione delle ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti da parte del presidente Trump

Decine di migliaia di rifugiati afghani che si sono radunati nella regione della capitale pakistana per cercare di essere reinsediati in altri paesi hanno ricevuto l’ordine di trasferirsi altrove in Pakistan entro il 31 marzo.

Per fare pressione sulle nazioni occidentali

I rifugiati sono arrivati ​​in gran numero nella capitale, Islamabad, e nella vicina Rawalpindi a causa delle ambasciate e delle agenzie per i rifugiati che vi hanno sede. Costringerli ad andare altrove nel paese ha lo scopo di fare pressione sulle nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, affinché li accolgano rapidamente.

L’annuncio del governo pakistano, diffuso la scorsa settimana, affermava che i rifugiati afghani che non fossero riusciti a trovare un paese che li accogliesse sarebbero stati deportati nell’Afghanistan governato dai talebani, senza tuttavia specificare i tempi necessari dopo la scadenza del 31 marzo.

L’ordine ha aumentato la paura e l’incertezza affrontate dai rifugiati, in particolare i 15.000 che avevano fatto domanda di reinsediamento negli Stati Uniti. Giorni prima, il presidente Trump aveva messo in dubbio il destino di quegli afghani con un ordine esecutivo che sospendeva tutte le ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti.

Molti di quegli afghani lavoravano con la missione guidata dagli Stati Uniti nel loro paese, o con ONG o altre organizzazioni finanziate dai paesi occidentali, prima che i talebani prendessero il potere nell’agosto 2021. Altri sono familiari di afghani che lo hanno fatto. I sostenitori di questi rifugiati hanno accusato il governo degli Stati Uniti di aver tradito gli alleati in tempo di guerra bloccando loro la strada verso il reinsediamento.

Rischiano la persecuzione talebana

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno affermato mercoledì che molti dei rifugiati minacciati di deportazione, in particolare membri di gruppi di minoranze etniche e religiose, donne e ragazze, giornalisti, attivisti per i diritti umani e artisti, potrebbero essere sottoposti a persecuzione da parte del governo talebano. In una dichiarazione congiunta, hanno esortato il Pakistan a “implementare qualsiasi misura di ricollocazione tenendo in debita considerazione gli standard dei diritti umani”.

Sara Ahmadi, 26 anni, ex studentessa di giornalismo all’Università di Kabul, ha detto che la sua famiglia temeva di essere deportata in Afghanistan, “proprio il posto per il quale abbiamo rischiato tutto” da quando l’amministrazione Trump ha bloccato le ammissioni dei rifugiati.

“Quella paura sta diventando realtà”, ha detto la signora Ahmadi in un’intervista telefonica. Sua madre aveva lavorato a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, per Children in Crisis, una ONG finanziata dagli Stati Uniti. La loro famiglia di sei membri è arrivata a Islamabad nel novembre 2021, sperando di stabilirsi in seguito negli Stati Uniti.

 

Il ministro degli Esteri iraniano incontra i talebani a Kabul per la prima volta da otto anni

euronews.com 27 gennaio 2025

Purtroppo si allarga il consenso internazionale al governo talebano”

Abbas Aragchi ha parlato con i leader talebani delle tensioni al confine, dei rifugiati afghani in Iran e del trattato sull’acqua del fiume Helmand

L’Iran ha dichiarato di sperare di migliorare i legami economici e le relazioni bilaterali con l’Afghanistan, durante la prima visita di un ministro degli Esteri iraniano a Kabul da otto anni a questa parte.

Abbas Aragchi, ministro degli Esteri di Teheran, ha avuto colloqui con alti funzionari talebani nella capitale afghana domenica, con discussioni incentrate sulle tensioni ai confini, sul trattamento dei rifugiati afghani in Iran e sulle dispute sui diritti idrici.

Il diplomatico iraniano ha incontrato il primo ministro afghano ad interim Hassan Akhund, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi e il ministro della Difesa Mohammad Yaqoob.

Aragchi ha espresso la speranza di un rafforzamento dei legami economici e di un miglioramento delle relazioni bilaterali, riconoscendo gli “alti e bassi” nei rapporti tra i Paesi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Irna.

In una dichiarazione condivisa dai talebani, Aragchi ha anche affermato che l’Iran si è impegnato per il ritorno dei circa 3,5 milioni di rifugiati afghani che vivono in Iran.

Il primo ministro afghano ha esortato Teheran a trattare i suoi rifugiati con dignità, avvertendo che un tentativo di rimpatrio su larga scala non è possibile al momento.

Ha aggiunto che incidenti come l’esecuzione di afghani in Iran hanno acuito le tensioni.

Sebbene l’Iran non riconosca formalmente il governo talebano, che ha assunto il controllo dell’Afghanistan nel 2021 dopo il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, Teheran mantiene relazioni politiche ed economiche con Kabul.

L’Iran ha anche permesso ai Talebani di mantenere l’ambasciata afghana a Teheran.

La desolante realtà degli afghani che tornano in patria: la condizione delle donne non li interessa

Arrivano dall’estero per la prima volta dal ritorno dei talebani al potere. Il Washington Post ha raccolto testimonianze: sono colpiti dalla sicurezza o dai nuovi centri commerciali, c’è disinteresse per i diritti negati. Luca Lo Presti (Pangea) a Huffpost: “Fuori da Kabul non si incontra mai una donna per strada, ma ai maschi non importa. I talebani vogliono accreditarsi all’estero, mostrando il volto di un governo libertario, che consente di vivere meglio di prima”

Silvia Renda, HUFFPOST, 29 novembre 2024

Per le strade di Kabul non si trova una carta per terra. I muri anti-esplosione sono stati smantellati, rivelando la presenza di alberi di melograno, ora maturi. Le bancarelle dei mercati offrono una ricca scelta di prodotti ortofrutticoli. Nuovi centri commerciali ospitano negozi di moda dal gusto occidentale. È un volto diverso, inatteso ed entusiasmante della città, per chi l’aveva conosciuta prima del ritorno dei talebani. Sono afghani di nascita con passaporto oggi straniero, che in numero crescente stanno ritornando in visita nel paese e raccontano sorpresi il cambiamento della città. Quello che non notano, o che ad alcuni non interessa notare, è che le strade sono tenute così pulite sfruttando il lavoro dei carcerati o contando sulla paura di un popolo timoroso di punizioni severe. Che se percepiscono maggiore sicurezza, è sicuramente anche perché il pericolo prima era in gran parte costituito dagli attacchi dei talebani stessi, oggi al potere. Che le bancarelle saranno anche piene di prodotti, ma povere di acquirenti, perché non possono permettersi quel cibo. Che nei centri commerciali vedere una donna passeggiare è veramente raro.

Il Washington Post ha raccolto le testimonianze di afghani con passaporti e visti stranieri rientrati nel paese per fare visita ai parenti, per la prima volta da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere. Nei loro racconti non c’è preoccupazione per le terribili restrizioni imposte alle donne, alle quali nel paese non è più concesso alcun diritto. Si meravigliano piuttosto del senso di sicurezza percepito per le strade, della possibilità di fare acquisti al nuovo duty-free dell’aeroporto o nei centri commerciali oggi ricchi di prodotti. Anche se la maggior parte dei residenti fatica a guadagnarsi da vivere, chiunque se lo possa permettere può scegliere tra una serie di ristoranti alla moda, molti così vuoti che ogni ospite ha un cameriere personale. Sono visitatori che spesso trascorrono così tanto tempo a casa dei parenti da non notare, o disinteressati a notare, la quasi totale assenza delle donne per le strade. Alcuni parenti in visita, scrive il Washington Post, vengono ingannati da quella che sembra un’applicazione poco severa delle regole, ignorando la strategia dei talebani: far rispettare le norme solo a intermittenza e confidare nella paura per ottenerne il rispetto.

“A Kabul si respira un’aria di sicurezza maggiore rispetto all’agosto 2021 semplicemente perché la guerra che era combattuta dai talebani non c’è più”, commenta ad HuffPost Luca Lo Presti, presidente di Pangea, associazione che si occupa dei diritti delle donne afghane, “L’economia della città sta ripartendo e questo ha fatto nascere centri commerciali con beni di lusso, strade più ordinate. C’è una percezione di ordine, pace e sicurezza sicuramente superiore rispetto a quella che si percepiva durante la presenza dei militari occidentali”. Allo stesso tempo, spiega Lo Presti, si è creata una forbice sociale ampissima: in questa economia, chi aveva i soldi si ritrova a essere ricchissimo, e chi non ne aveva si ritrova poverissimo: “La microeconomia non esiste più, non esistono le fasce medie della società. Gli impiegati statali hanno stipendi bassissimi che permettono a malapena di sopravvivere”.
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Migranti afghani in Iran intrappolati in un ciclo di paura e sopravvivenza

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 30 settembre 2024

Gli afghani fuggiti in Iran per mettersi in salvo dopo la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani nel 2021 affermano di subire  molestie e xenofobia crescenti da quando l’Iran si è impegnato a procedere con le deportazioni di massa dei migranti irregolari.

Il capo della polizia iraniana Ahmad-Reza Radan ha dichiarato in un’intervista questo mese che “quasi due milioni di stranieri illegali saranno deportati dall’Iran” nei prossimi sei mesi. Una campagna del genere porterebbe a una media di oltre 80.000 deportazioni a settimana.

 

Bahara. Molestie sul lavoro e razzismo

La migrante afghana Bahara*, 26 anni, vive nella capitale iraniana Teheran da tre anni da quando ha lasciato l’Afghanistan. Teme che la repressione dei migranti vulnerabili stia causando un aumento dello sfruttamento da parte dei datori di lavoro iraniani.

Il suo capo, proprietario di una sartoria di Teheran, le suggerì di “diventare la sua ragazza e godersi la vita in Iran”. Dopo aver rifiutato la sua proposta, fu costretta a cambiare posto di lavoro e il suo stipendio fu ridotto da 9 milioni di toman (213 dollari USA) al mese a 7 milioni (166 dollari USA). Per motivi di sicurezza, non ha rivelato il nome del negozio.

Bahara ha affermato che le molestie si sono estese oltre il posto di lavoro.

“Un giorno, ero seduta in un minibus quando una donna iraniana di mezza età mi ha chiesto di cederle il posto. Mentre stavo per protestare, un altro passeggero maschio ha detto: “Una afghana osa obiettare?

Bahara ha affermato che, secondo la sua esperienza, avrebbe potuto essere arrestata o deportata se avesse protestato contro tale trattamento, quindi non ha avuto “altra scelta che rimanere in silenzio”.

Prima che i talebani prendessero il controllo dell’Afghanistan nell’agosto 2021, Bahara lavorava nel teatro e nel cinema nella capitale Kabul. La maggior parte dei suoi colleghi è riuscita a ottenere visti per la Francia dopo la caduta di Kabul, ma lei ha perso la possibilità di scappare perché non aveva il passaporto.

“Tutti i miei sforzi per lasciare l’Afghanistan e unirmi ai miei colleghi sono stati vani. Sono persino andata all’aeroporto, ma non mi è stato permesso di entrare perché non avevo il passaporto”, ha detto.

Bahara ha tentato più volte di lasciare l’Afghanistan attraverso vie sicure e legali, ma alla fine si è rassegnata a indossare il burqa e introdursi clandestinamente in Iran.

Ora lotta per vivere, nella paura costante.

“Per me, come migrante afghano, Teheran non è molto diversa da Kabul governata dai talebani. Forse a Kabul mi sarebbe già successo qualcosa, a Teheran il processo è più graduale”, ha detto Bahara.

 

Fatima. Sfruttamento, fame e umiliazioni

Fatima*, 31 anni, a Teheran con la madre e il fratello, sta vivendo sfide simili sul posto di lavoro, dove la sua situazione viene sfruttata per costringerla a lavorare molte ore per una paga misera.

Tre quarti del suo stipendio mensile di 10 milioni di toman (237 dollari) vengono utilizzati per pagare l’affitto, lasciando a lei e alla sua famiglia solo 3 milioni per le spese di sostentamento.

“L’esistenza dei migranti vede anche giorni di fame”, ha affermato.

“Un giorno ero così debole per la fame che ho chiesto a una ragazza iraniana di comprarmi del pane. Oggi, sette mesi dopo, l’umiliazione di quel giorno è ancora viva.”

Il posto di lavoro e l’ambiente esterno alla casa sono sempre pieni di discriminazioni e insulti, ha detto Fatima.

“Ogni giorno mi trovo ad affrontare incontri spiacevoli con le persone e rimango semplicemente in silenzio.”

Fatima era un’impiegata governativa prima del ritorno dei talebani e ha lasciato l’Afghanistan dopo la sua caduta. Preferisce non rivelare il suo precedente posto di lavoro.

Fatima ha affermato che suo fratello è così paralizzato dalla paura di essere deportato e da altre molestie che ormai non esce quasi più di casa.

“L’ultima volta che mio fratello è tornato a casa, sanguinava dalla testa e dal viso. Gli iraniani lo avevano picchiato così forte che gli sono serviti 17 o 18 punti di sutura”, ha detto Fatima.

Suo fratello è stato aggredito a luglio, in concomitanza con le proteste nel distretto 15 di Teheran, dove i residenti avevano scandito “Morte agli afghani” in risposta alle accuse secondo cui un giovane afghano aveva ucciso un iraniano.

 

Aumentano gli immigrati e le tensioni

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, l’Iran ha assistito a un notevole afflusso di migranti afghani.

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR ha stimato che circa 4,5 milioni di cittadini afghani vivano attualmente in Iran. Tuttavia, le agenzie di stampa iraniane hanno lanciato il numero fino a 6 milioni o 8 milioni.

La loro presenza importante a Teheran ha intensificato le tensioni interne, spingendo molti cittadini iraniani a chiederne l’espulsione.

A maggio, il Ministero degli Interni iraniano ha riferito che negli ultimi 12 mesi sono stati deportati in Afghanistan 1,3 milioni di migranti clandestini.

Secondo quanto riportato di recente dalla BBC Persian, ogni giorno vengono deportati dall’Iran almeno 3.000 migranti, compresi quelli con residenza legale.

Sia Bahara che Fatima temono di tornare in Afghanistan, ma si sentono spinte al limite della loro sopravvivenza in Iran.

Bahara ha detto che non sarebbe stata al sicuro a Kabul, ma ha anche detto: “Sono tre anni che sopravvivo, vivendo la mia vita come una creatura senza scopo [a Teheran]”.

Fatima si sente sopraffatta dal modo in cui viene trattata a Teheran.

Ho subito così tanti insulti e umiliazioni che preferirei tornare in Afghanistan e farmi uccidere”.

*Nota: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.