Voci oltre il silenzio
Con il ritorno dei Talebani i diritti delle donne in Afghanistan hanno vissuto una profonda erosione. Un’intervista con Graziella Mascheroni, presidente del CISDA
Francesca Lasi, Il Mondo, 20 ottobre 2024
Nemmeno due mesi fa le immagini delle donne afghane che cantano per ribellarsi alla legge che proibisce loro di cantare e parlare in pubblico sono rimbalzate sui social, sulle testate nazionali e internazionali La legge, emanata dal Ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, in realtà, conferma quanto già imposto dai Talebani in questi tre anni di dominio, in cui i diritti delle donne sono state progressivamente stracciati.
Ma andiamo con ordine. Il Ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù è stato istituito nel 2021, dopo il ritiro delle truppe statunitensi e la ripresa di Kabul da parte dei Talebani, in sostituzione del Ministero degli Affari Femminili. Sarebbe meglio dire ripristinato: esisteva già nel precedente governo talebano, durato dal 1996 al 2001 (il primo Emirato islamico dell’Afghanistan). La sua funzione è quella di vigilare sull’applicazione di un’interpretazione molto rigida della Sharia. Rigidissima e personalissima, propria dei Talebani.
La legge emanata ad agosto, e approvata dal leader dei Talebani Hibatullah Akhundzada, è divisa in 35 articoli e raggruppa alcune norme – alcune delle quali già in vigore – che restringono ulteriormente i diritti delle donne. Tra i nuovi divieti c’è quello per cui le donne non possono cantare, leggere ad alta voce e recitare poesie in pubblico: secondo i Talebani anche la voce di una donna è “awrah”, cosa “intima”, “privata”. Secondo la legge le donne devono coprire il viso e il corpo quando sono in pubblico, non possono indossare indumenti aderenti o corti, non possono viaggiare se non accompagnate da un “mahram”, cioè un uomo con cui hanno un legame di sangue – un parente stretto, marito, padre o fratello – e, più in generale, non possono incontrare uomini (in realtà, neanche guardare) che non facciano parte della loro cerchia famigliare.
In base alla legge, inoltre, è vietato produrre e diffondere di immagini raffiguranti esseri viventi, ascoltare la musica, così come l’adulterio (zina) e le scommesse. Ma anche l’omosessualità: un altro colpo ai diritti delle persone LGBTQIA+.
A “controllare” (e a punire) è la polizia morale (“muhtasib”), che ha il potere di investigare sulla vita privata dei cittadini, di ispezionare i computer e, nel caso ritenesse di aver individuato quelli che vengono considerati “atti immorali”, può arrestare le persone e condurle preventivamente in carcere per un periodo compreso tra un’ora e tre giorni.
Già nel marzo 2023 Akhundzada aveva annunciato l’obbligo, in tutto tutto il Paese di applicare le punizioni corporali, come la fustigazione pubblica e la lapidazione, per quelli che vengono definiti “crimini morali”.
Alla notizia dell’approvazione della legge è seguito un coro unanime di indignazione e preoccupazione ma l’erosione dei diritti delle donne da parte dei Talebani è in atto già da molto tempo.
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ToggleLa resistenza a una lunga storia di violenza
Ad aiutarci a capire cosa sta accadendo in Afghanistan è Graziella Mascheroni, presidente del CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), che dal 1999 porta avanti progetti di solidarietà per le donne afghane. «Il CISDA è nato 25 anni da quando abbiamo conosciuto le prime donne afghane e da allora non le abbiamo più abbandonate – racconta Mascheroni– Siamo nate con le donne afghane di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan), con loro abbiamo sviluppato alcuni progetti che proprio loro ci hanno richiesto. In Italia cerchiamo fondi attraverso donazioni di privati, associazioni, enti per finanziare questi progetti. La nostra mission è quella di aiutare le donne e le associazioni di donne che rimangono in Afghanistan. Lo facciamo in due modi: economicamente, inviando fondi ,e politicamene, parlando della loro situazione qui, dando voce a chi non ne ha. In Italia non abbiamo una sede ma come attiviste siamo presenti in diverse città d’Italia: Milano e hinterland, Como, Torino, Belluno, Firenze, Roma, Piadena, Bologna. Prima del COVID ci ritrovavamo di persona, poi, abbiamo iniziato a fare incontri online, ad eccezione di un incontro nazionale in presenza».
Sono tanti i progetti portati avanti dall’associazione. «Un progetto riguarda una scuola per le donne e le bambine che, però, con l’arrivo dei talebani è stato leggermente cambiato – ha raccontato la presidente del CISDA – è stato aggiunto un corso di taglio e cucito, per dare la possibilità alle donne di rendersi autonome e avere un’istruzione di base. Senza quella, spiegano, non è possibile capire quali siano i propri diritti».
«Un altro riguarda le case rifugio per donne maltrattate. Prima dell’arrivo dei talebani ne finanziavamo alcune, ora ne è rimasta solo una molto piccola» racconta Mascheroni. I talebani, infatti, hanno smantellato l’intera rete di rifugi e servizi a sostegno delle donne vittime di violenza, come denunciato anche da Amnesty International in un report del 2022. Il sistema aveva sì dei fortissimi limiti ma, per lo meno, esisteva. Con i talebani non più.
Tra i progetti promossi dall’associazione c’è anche “Vite preziose”, che prevede il sostegno a distanza delle donne afghane: come spiega Mascheroni, con 600 euro l’anno si può sostenere una donna. Un altro, riguarda, invece un’unità mobile sanitaria. Prima dell’arrivo dei talebani, dice Mascheroni, “era una piccola clinica senza degenza che si occupava di visite mediche e distribuzione e medicinali”, poi, però, è stata chiusa e riconvertita. «Un’équipe di medici e infermieri – spiega – si sposta di villaggio in villaggio per fornire cure mediche alla popolazione. In questi ultimi due anni ci sono stati alluvioni, terremoti, quindi interi villaggi distrutti».
Le donne sono tornate all’età della pietra
Nel dicembre 2021 i talebani hanno proibito alle donne di percorrere più di 72 chilometri da sole, senza un accompagnatore maschio; nel 2022 hanno imposto loro di indossare in pubblico il burqa, l’abito che copre integralmente il corpo, con una fessura o una retina che lascia scoperti gli occhi. I talebani hanno, poi, vietato alle ragazze l’accesso alle scuole secondarie femminili – per poi chiuderle definitivamente – così come quello all’università. Così espresso, questo sembra solo un elenco brutale, ma è proprio questo a segnare il perimetro strettissimo entro cui si muove la vita di una donna afghana.
«Come affermano le e nostre compagne di RAWA, con l’arrivo dei talebani le donne sono tronate all’età della pietra – afferma Mascheroni – La prima proibizione è stata quella di chiudere le scuole per le ragazze, che possono frequentare solo fino all’equivalente della nostra scuola elementare, non possono accedere alle superiori, tantomeno all’università. Non possono andare nei parchi, fare sport, non posso uscire di casa se non accompagnate da un parente maschio, non possono lavorare e non possono essere curate perché, appunto, non ci sono più donne mediche».
Come si comprenderà, anche le manifestazioni sono proibite. «Nel 2021, quando sono arrivati i talebani, ci sono state delle proteste da parte delle donne, che poi sono state fermate – racconta la presidente del CISDA – Le donne sono state picchiate, rapite, messe in prigione e man mano le manifestazioni sono andate scemando. Ora come ora, le donne di RAWA ci dicono che è pericolosissimo fare qualsiasi cosa, quindi, non potendo andare per strada, protestano sui social. Queste non sono altro che le leggi del primo governo talebano, al potere dal 1996 al 2001, quando l’Afghanistan è stato invaso dagli Stati Uniti. Ai tempi si parlava di un decalogo di divieti come non portare i tacchi perché facevano rumore e potevano attirare l’attenzione. Con il loro ritorno, i talebani non hanno fatto altro che inasprire questo decalogo. Il burqa c’è sempre stato in Afghanistan, soprattutto nelle zone rurali, ma ora con i talebani è peggio di prima». Talebani che, in quell’agosto 2021, affermavano di essere cambiati ma, dice Mascheroni, “non è vero, sono ancora misogini”.
Amnesty International e la Commissione internazionale dei giuristi (International Commission of Jurists – Icj) nel rapporto The Taliban’s War on Women: the crime against humanity of gender persecution in Afghanistan (‘La guerra dei talebani contro le donne: il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere in Afghanistan’) hanno scritto chela repressione dei diritti delle donne e delle bambine da parte dei talebani potrebbe costituire il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.
In realtà, le donne e le femministe afghane hanno iniziato a parlare di apartheid di genere già negli anni Novanta. «In Afghanistan c’è sempre stato l’apartheid di genere che, come sottolineano le compagne di RAWA, è la conseguenza del fondamentalismi – spiega Mascheroni– se non ci fossero i talebani o i gruppi fondamentalisti sparirebbe. Ora si parla dei talebani, ma anche i precedenti governi erano fondamentalisti». Nel marzo 2023 alcune attiviste, avvocate e avvocati hanno lanciato la campagna End Gender Apartheid alla quale, però, afferma la presidente del CISDA, ha aderito “un gruppo di donne afghane, esponenti dei precedenti governi” e fa i nomi di “Fawzia Koofi e Habiba Sarabi”.
C’è, poi, un altro punto che riguarda la discussa Conferenza di Doha, svoltasi tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2024.L’incontro, organizzato dall’Onu, aveva l’obiettivo di avviare un reinserimento graduale dell’Afghanistan all’interno della comunità internazionale. È stata la prima conferenza alla quale hanno partecipato i talebani, che non erano stati invitati alla prima mentre si erano rifiutati di partecipare alla seconda. Hanno partecipato anche inviati speciali di alcuni Stati e organizzazioni internazionali, come l’Unione europea, la Cina, la Russia e gli Stati Uniti. Non ne hanno preso parte, invece, le donne e i rappresentati della società civile. I Talebani, infatti, hanno chiesto di escludere dalla conferenza i temi dei diritti umani e delle donne. Una decisione che ha allarmato diverse associazioni e lo stesso Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan Richard Bennett.
Le donne in Afghanistan, però, continuano a resistere. «RAWA – spiega Mascheroni – lotta per la libertà, per la consapevolezza politica, per l’istruzione, per avere uno stato democratico e laico».
«[RAWA vuole] far conoscere la situazione in Afghanistan andando in profondità sulla politica dei Talebani, solo parzialmente conosciuta dall’Occidente – conclude Graziella Mascheroni – far capire come questo, e in particolare gli USA, abbiano trattato con i Talebani dietro le quinte. Per questo vogliono lo stop al finanziamento a qualsiasi tipo di fondamentalismo. Da tanto tempo lavorano con le donne e i giovani per fare in modo che non si rivolgano al fondamentalismo, per questo stanno cercando di tenerli lontani dagli studi religiosi. I Talebani stanno aprendo molte madrase anche per le bambine che diventano fucine di integralisti».
Ancora una volta il punto è non dimenticare il diritto l’autodeterminazione delle donne afghane e non silenziare la loro voce. Una voce che non può essere sostituita.
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