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sinistra ROJHILAT (Kurdistan “iraniano”): forse una nuova fase per il movimento Jin Jiyan Azadî

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Brescia anticapitalista, 7 settembre 2025, di Gianni Sartori

Anche nel Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) la questione curda rimane fondamentale per il Medio oriente. Tra condanne a morte e repressione, aspettative di nuove rivolte e politiche anti-sindacali

Sempre più intricato il groviglio medio-orientale e quello curdo in particolare.

Con lo smantellamento (preannunciato, effettivo, in corso…?) del PKK e la determinazione di FDS, YPG e YPJ nel nord est della Siria di NON consegnare le armi ai tagliagole di Damasco. Come ha detto chiaramente la esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (kjk) Çiğdem Doğu.
Spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse” e sottolineando quanto sia “altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne (…) con l’auto-organizzazione femminile”.

In riferimento poi a quanto avviene nelle regioni alawite e druse (“ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”) ha aggiunto che “solo pensare di imporre la resa delle armi alle forze democratiche siriane (Fds) significa semplicemente dire: venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcuna garanzia di sopravvivenza”. Così come sarebbe “priva di senso l’idea dell’integrazione delle Fds nell’esercito siriano”. In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.

Altro discorso (ma complementare) su quanto potrebbe avvenire in Rojhilat (Rojhilatê Kurdistanê, il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana).

Il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Pjak; sorto nel 2004, attivo in Iran e allineato sui principi del Confederalismo democratico), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà) scoppiata nel 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne curda Jina (Mahsa) Amini.

Precisando comunque che quella condotta da USA e Israele (in riferimento ai bombardamenti israeliani e statunitensi) è “una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni”

“Solo una lotta popolare – proseguiva il comunicato del Pjak – può portare alla libertà in Iran: il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale”.

Fermo restando che “la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica”.

In un contesto generale di inasprimento della repressione e dell’utilizzo di metodi brutali. Per l’Ong curda Hengaw già alla fine di luglio sarebbero state oltre 800 (ottocento !) le condanne a morte eseguite dall’inizio del 2025. Tra le vittime, oltre a una trentina di prigionieri politici, 22 donne e un minorenne. Colpendo soprattutto le minoranze (116 Curdi, 107 Lur, 92 Beluci, 82 Turchi, 46 Afgani).

Tra le condanne che potrebbero venir eseguite in qualsiasi momento, quella riconfermata in luglio di Sharifeh Mohammadi , femminista curda e militante di un sindacato legale. Nel luglio 2024 Condannata a morte per aver manifestato pubblicamente la sua opposizione alla tortura e all’uso sistematico delle esecuzioni capitali. Equiparandola prima a “propaganda contro lo Stato” e poi a “ribellione armata”.

In carcere dal 2023, ha subito maltrattamenti e torture (sia fisiche che psichiche per estorcerle confessioni), posta in isolamento per oltre tre mesi con la proibizione di visite e telefonate. Sulla drammatica vicenda in agosto è intervenuta l’Assemblea delle donne del partito filo-curdo Dem (Partito dell’uguaglianza e della democrazia del popolo) che ha definito Sharifeh Mohammadi “una militante che ha difeso i diritti delle donne e dei lavoratori”. Affermando di considerare “ogni attacco contro le donne, ovunque avvenga nel mondo, come un’attacco contro il nostro corpo”: Per cui “intensificheremo la nostra ribellione. Il regime fascista dei Mullà ha per l’ennesima volta commesso un crimine contro l’umanità e contro le donne per conservare il proprio potere dominato dagli uomini”.

Alla fine del mese scorso intanto giungevano altri dati allarmanti sulle condanne a morte eseguite nel Kurdistan “iraniano” (v. Rapporto mensile dell’organizzazione dei diritti umani del Kurdistan).

Sarebbero 28 (tra cui una donna) i curdi impiccati dal regime di Teheran in agosto. E almeno altrettanti venivano arrestati nel corso del mese.

Inoltre, stando al rapporto, le autorità giudiziarie iraniane avrebbero applicato pene arbitrarie condannando a 64 anni complessivi di carcere una dozzina di cittadini curdi per accuse “prive di fondamento giuridico”.

Mentre il capo del potere giudiziario iraniano, Hossein Mohseni Ejei, annunciava in conferenza stampa che oltre 2000 persone erano state arrestate nel corso del recente conflitto (durato una dozzina di giorni) tra Iran e Israele, la Rete dei diritti dell’uomo del Kurdistan, denunciava che dall’inizio dei bombardamenti israeliani le forze di sicurezza e i servizi segreti avevano arresto più di 335 militanti e cittadini curdi “senza mandato giudiziario”. In particolare nelle città di Ilam, Kermanshah (Kirmaşan), Urmia, Sanandaj (Sînê), Téhéran e Khorasan.

Sempre da un recente rapporto dell’ONG di difesa dei dei diritti umani Hengaw (del 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate) si ricava che “dal 1979 i prigionieri politici curdi sono diventati sistematicamente vittime di sparizioni forzate. Molti venivano fucilati per ordine di tribunali quantomeno improvvisati, spesso senza processo”.

Dall’arresto alla sepoltura in fosse comuni tenute poi segrete, i processi intentati diventavano di fatto propedeutici alla sparizione forzata.

Aggiungo – si parva licet – che nel Rojhilat anche le libertà sindacali e individuali rischiano di subire ulteriori restrizioni. Come viene confermato dalle sanzioni disciplinari imposte alla fine di agosto dal ministero dell’Educazione a 14 insegnanti (curdi e militanti sindacali).

Si tratta di Nasrin Karimi (in pensione forzata con retrocessione); Faysal Nouri (esilio per cinque anni – al confino – nella regione di Kermanshah); Majid Karimi (licenziamento con esclusione perenne dalla funzione pubblica); Ghiyas Nemati (licenziamento perenne dal Ministero dell’Educazione pubblica); Omid Shah-Mohammadi (licenziamento perenne dalla funzione pubblica); Salah Haji-Mirzaei (sospensione dall’insegnamento); Leyla Zarei (sollevata dal ruolo di vice-presidente della scuola e in pensione forzata con retrocessione); Shahram Karimi (sospensione di sei mesi); Loghman Allah-Moradi (sospensione di un anno); Soleyman Abdi (pensione forzata con retrocessione); Hiwa Ghoreishi, Parviz Ahsani e Kaveh Mohammadzadeh (licenziamento dal ministero dell’educazione).

Più un altro insegnante curdo – di cui per ragioni di sicurezza non viene fornita l’identità – ugualmente licenziato.

Vicenda forse minore nel contesto generale, ma comunque indicativa.

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