L’esodo invisibile degli afghani cacciati dall’Iran, 500mila da giugno
Il manifesto, 17 luglio 2025, di Giuliano Battiston
Iran-Afghanistan Il pretesto: sono «collusi con il nemico sionista». Ogni giorno dal posto di confine più trafficato passano da 35mila a 50mila persone
Teheran mostra i muscoli e rispedisce in patria centinaia di migliaia di afghani, innescando una bomba demografica e sociale che l’Emirato islamico, il governo dei Talebani, non è in grado di gestire, e che qualunque governo avrebbe difficoltà a governare.
DA DIVERSE settimane l’Iran ha intensificato un processo avviato da mesi: dopo la guerra lampo con Israele, in qualche modo approfittando di una crisi che è economica oltre che politica e militare, ha accelerato le deportazioni dei migranti afghani, considerati una minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza interna. Almeno cinquecentomila quelli rispediti oltre confine da inizio giugno, soprattutto attraverso le province afghane di Herat e di Nimruz, 1 milione e trecentomila dall’inizio dell’anno, con la minaccia di rimpatriarne altrettanti. Gli afghani sono accusati di «collusione con il nemico sionista», di fornire informazioni a Israele, di violare le leggi sull’immigrazione, di gravare sulle casse dello Stato o di commettere crimini.
Accuse ingiuste, ma sufficienti a scatenare un flusso migratorio senza precedenti, anche in chiave storica: l’Iran è infatti, insieme al Pakistan, il Paese che negli ultimi 4 decenni più ha accolto la diaspora afghana, diventando una destinazione prioritaria soprattutto per quegli afghani che cercavano e cercano maggiore sicurezza economica e, dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, in alcuni casi anche sicurezza fisica, incolumità personale. Ogni giorno, nel posto di confine più trafficato, Islam Qala, che divide la città iraniana di Mashad da quella afghana di Herat, si registrano dai trentamila ai cinquantamila attraversamenti. Numeri impressionanti, che hanno spinto Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul, a visitare Islam Qala due giorni fa.
OTUNBAYEVA ha richiamato alle proprie responsabilità la comunità internazionale: «L’enorme volume di ritorni, molti di questi bruschi e involontari, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme in tutta la comunità globale. È una prova della nostra umanità collettiva. L’Afghanistan, già alle prese con la siccità e una crisi umanitaria cronica, non può assorbire questo shock da solo», ha detto Otunbayeva nel corso della visita, accompagnata dalle autorità di fatto. Ha poi lanciato un appello ai donatori: «Non voltatevi dall’altra parte. I rimpatriati non devono essere abbandonati».
Il suo appello finirà pressoché nel vuoto, come quello, di poche ore prima, di Tom Fletcher, il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu. Dopo una recente visita nel Paese, il suo ufficio ha rivolto un nuovo appello finanziario per soddisfare i bisogni primari della popolazione afghana e per un Paese dove, ha ricordato Fletcher, «in pochi mesi sono stati chiusi 400 presidi sanitari» per mancanza di fondi. Ma i soldi faticano ad arrivare. Spesso con il pretesto che al governo ci sono i Talebani, la cui macchina della diplomazia si è attivata per provare a convincere Teheran a rallentare i rimpatri. L’Iran, da parte sua, non fa altro che replicare quanto fa da poco meno di due anni Islamabad.
IL GOVERNO pachistano dalla fine del 2023 ha già rimpatriato 1 milione di persone, considerate senza documenti validi (parte dei quali nata in Pakistan), nell’ambito di un ambizioso piano di rimpatri forzati la cui seconda fase è iniziata l’1 aprile. Un piano usato anche come leva negoziale con il governo di Kabul, che è già alle prese con una profondissima crisi umanitaria: sono 23 milioni gli afghani che, secondo le agenzie dell’Onu, hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere.
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