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Autore: Anna Santarello

Afghanistan… per dove. Una grande mostra a cura di Carla Dazzi

Corriere Adriatico, 9 luglio

Si è inaugurata ieri e proseguirà fino al 24 luglio, alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro, la mostra fotografica ‘Afghanistan… per dove’ a cura di Carla Dazzi, membro del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno delle Donne Afghane) e di Insieme si può – Onlus.

Un evento realizzato da Orchestra Olimpia in collaborazione con Fondazione Wanda Di Ferdinando in occasione del suo anniversario, dalla Biblioteca San Giovanni e Macula-Cultura Fotografica.

Lo guardo di Carla Dazzi aiuta a percepire un racconto diverso dell’Afghanistan, rispetto a quello che passa dai media: il suo obiettivo infatti, da ormai oltre 20 anni, è quello di raccontare una popolazione vivace, che ha grandi capacità e si impegna per coltivare sé stessa e progredire, nonostante le infinite guerre che hanno devastato la sua terra.

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Afghanistan, il peggio deve ancora venire

Avanzata dei Talebani

soldati afgani

ISPI Online Publications, 6 luglio 2021

Talebani riconquistano oltre un quarto dei distretti dell’Afghanistan, mentre il vicino Tagikistan accoglie l’esercito regolare in fuga. Con il progredire del ritiro delle truppe straniere il paese sembra sempre più instabile.

L’Afghanistan si avvia verso il caos. Il ritiro progressivo dei contingenti della NATO ha innescato la simultanea, ed altrettanto progressiva, riconquista dei territori da parte dei Talebani, che annunciano di avere sotto il proprio controllo oltre un quarto del montagnoso ed etnicamente variegato Afghanistan. Una riconquista che, stando ad alcuni media, avviene spesso senza scontri e con l’esercito regolare afgano che consegna spontaneamente le armi. Molti soldati afgani al confronto militare avrebbero preferito la fuga oltreconfine, in Tagikistan, che li avrebbe accolti per spirito di “buon vicinato”. La base militare Bagram, il principale quartier generale dei militari statunitensi e da cui per vent’anni venivano coordinate le principali operazioni, sarebbe stata abbandonata dal giorno alla notte senza che il nuovo comandante, il generale afgano Mir Asadullah Kohistani, ne venisse informato. Un episodio altamente simbolico nel processo di ritiro delle truppe USA e che lascia intendere che questo verrà ultimato anche prima del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, ovvero il termine ultimo fissato dal presidente USA Joe Biden. L’impressione è che da un lato i Talebani si sentano galvanizzati dall’imminente ritiro della coalizione internazionale, mentre dall’altro che il venir meno del supporto logistico e militare fornito dalle truppe straniere abbia disincentivato l’esercito nazionale afgano, ormai rassegnato. I Talebani hanno anche riferito alla BBC che dopo l’11 settembre considereranno occupanti tutte le forze militari straniere rimaste sul territorio afgano. Più che una minaccia, una dichiarazione di intenti che vuole onorare gli Accordi di Doha con cui gli USA si impegnarono al ritiro, e che ora rischia di generare un nuovo vortice di violenze a livello locale, mentre lo spettro di un ritorno al regime teocratico torna a far paura.

 

Missione fallita?

Vent’anni fa, meno di un mese dopo l’attacco dell’11 Settembre, gli Stati Uniti e la NATO occuparono militarmente l’Afghanistan bersagliando le postazioni talebane e di Al Qaeda. In un mese, Kabul venne riconquistata dall’Alleanza del Nord – organizzazione politico-militare supportata dalle truppe NATO – e, ufficialmente, iniziò la ricostruzione dello stato afgano, delle sue istituzioni, con l’adozione di una nuova costituzione e le prime elezioni libere, nonché del suo esercito, sotto l’egida e il supporto della coalizione occidentale.
Vent’anni dopo, lo stato centrale afgano è più debole che mai, milioni di cittadini hanno preferito rifugiarsi all’estero, e l’esercito centrale consegna le armi ai Talebani, forti di un negoziato bilaterale a cui i rappresentanti di Kabul non hanno nemmeno partecipato e hanno ottenuto ciò per cui hanno combattuto in questi due decenni: la partenza dei contingenti stranieri. Incalzato in conferenza stampa da un giornalista lo scorso 4 luglio, Biden ha glissato l’argomento del ritiro dall’Afghanistan dicendo “è un giorno di festa, parliamo di cose felici, amico”. La delusione di molti afgani è cocente, ora che appare sempre più evidente come gli Stati Uniti abbiano fallito nel garantire una prospettiva di pace, stabilità e sicurezza al multietnico paese dell’Asia centrale, che rischia una nuova guerra civile e il ripristino dell’emirato islamico voluto dagli studenti coranici.

Verso la teocrazia?

Un segnale della forza della controffensiva talebana sono le notizie di diserzioni e fughe dalla regione settentrionale a maggioranza tagika del Badakhshan, dove la resistenza ha tenuto testa ai Talebani per vent’anni e dove oggi i rappresentanti locali abbandonano le istituzioni riparando nella capitale Kabul. Quella delle province del Badakhshan è una conquista militare di grande significato strategico, essendo al confine con Pakistan, Cina e Tagikistan, e che se venisse completata potrebbe assicurare ai Talebani il controllo di confini di grande importanza per la geopolitica dell’Asia centrale.
In generale, con la conquista di oltre cento dei quattrocento distretti che compongono il paese, i Talebani sono sempre più focalizzati su una definitiva vittoria militare che culmini con lo spodestamento del presidente Ashraf Ghani e un ritorno allo stato precedente all’invasione statunitense. Alla sconfitta sul campo, potrebbe quindi simultaneamente farsi largo lo smantellamento delle (piccole) conquiste in senso democratico, sancite anche dalle quattro elezioni presidenziali tenute dal 2001 ad oggi. E, qualora l’Afganistan torni ad essere un emirato islamico, a livello sociale è il futuro della condizione delle donne afgane ad essere il più incerto, e in particolare quello delle bambine, la cui alfabetizzazione dal 2001 a oggi è passata dal 20% al 60%. Sebbene i Talebani abbiano rassicurato che rispetteranno i diritti delle donne in armonia con la legge islamica, il timore che ci possa essere un lungo passo indietro resta.

La Cina sta a guardare?

Se militarmente l’Afghanistan si riconferma il pantano internazionale delle grandi potenze, da cui non riuscì a ricavarne molto nemmeno l’Unione Sovietica nell’invasione durata dieci anni terminata nel 1989, una prospettiva di stabilità politica per il paese potrebbe essere data dalla diplomazia regionale. La Cina, infatti, che con l’Afghanistan confina per pochi chilometri all’estremità dell’appendice del Badakhshan, osserva attentamente sia la ritirata statunitense che il progressivo avanzamento talebano. Il suo interesse principale è la salvaguardia dei progetti infrastrutturali in Pakistan, un paese chiave sia per la Belt and Road Initiative (BRI) cinese che per le élite talebane. Secondo alcune analisi, la strategia di Pechino potrebbe quindi essere duplice. Qualora i Talebani riprendessero il controllo definitivo del paese, la Cina potrebbe legittimare la loro leadership politica con l’obiettivo sia di preservare la sicurezza dei progetti BRI nel vicino Pakistan, sia di monitorare e contrastare i gruppi di miliziani riconducibili all’ETIM (East Turkestan Islamic Movement), tra le cui fila potrebbero trovarsi persone accusate da Pechino di terrorismo nello Xinjiang. Come riporta il Financial Times, la Cina ha già tenuto incontri con i Talebani e, sebbene i temi discussi siano rimasti segreti, i cinesi avrebbero saldato questa strategia regionale offrendo supporto finanziario ai leader talebani per la ricostruzione delle infrastrutture afgane sfruttando l’intermediazione del Pakistan, un alleato vitale di Pechino. Una strategia che ad oggi non trova riscontri ufficiali ma che in un colpo solo avrebbe un grande impatto per le relazioni internazionali, riconfermando la diplomazia cinese a livello regionale: assicurerebbe sia che altri gruppi estremisti non prendano il potere in Afghanistan – come promesso agli USA a Doha –, sia la ricostruzione del paese dopo vent’anni di guerra.

Il commento

Di Giuliano Battiston, giornalista freelance

In poche settimane i Talebani si sono assicurati il controllo di buona parte del nord e nord-ovest del paese. Una mossa preventiva per evitare la mobilitazione/resistenza nelle aree tradizionalmente più ostili. A sorprendere è soprattutto la velocità della disfatta delle forze di sicurezza afgane, sulle quali si riflette il caos politico nel governo di Kabul. Decine di migliaia i civili già costretti a lasciare le proprie case, mentre le capitali della regione guardano con crescente preoccupazione all’offensiva militare talebana e tentano di fare ripartire il processo negoziale.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

Pervin Buldan: La lotta delle donne ci dà speranza

Rete Kurdistan Italia, 6 luglio

HDP pervin buldam

La co-presidente dell’HDP Pervin Buldan, parlando a una riunione del gruppo femminile del suo partito ad Ankara, ha descritto le lotte nazionali delle donne come la loro più grande speranza. Allo stesso tempo, ha detto, il movimento delle donne è la più grande paura dei governanti maschi in Turchia.

Buldan ha introdotto il suo discorso commemorando il politico dell’HEP Vedat Aydin, che è stato rapito e assassinato il 5 luglio 1991, e ha affermato che la stessa mentalità è dietro a questo omicidio trent’anni fa come è dietro l’omicidio di Deniz Poyraz del 17 giugno nella sede di HDP a Izmir.

“Conosciamo fin troppo bene la politica dell’odio che ha prodotto l’assassino di Izmir addestrato separatamente. In solidarietà con Deniz e le sue compagne, non rinunceremo mai alla nostra lotta per la giustizia, l’uguaglianza, la pace e le donne. Per ogni vita che ci è stata tolta, ne chiederemo la responsabilità”, ha affermato la co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp).

Il governo dell’AKP/MHP sta attaccando massicciamente l’esistenza e i diritti delle donne, ha continuato Pervin Buldan: “Per spezzare l’opposizione sociale, i governanti maschi usano ogni metodo di oppressione e violenza. Tuttavia vedono che le donne non sono intimidite dalla pressione. Le donne si organizzano in tutti gli ambiti della vita. Essi dissentono e rimangono rette nella loro lotta.

Riempiono le piazze e gridano i loro diritti. In tal modo diventano la più grande paura del governo. Le donne oggi non stanno solo lottando per la giustizia di genere, ma stanno anche conducendo la lotta contro il sistema mafioso maschile.

Non credono alle bugie né si lasciano soggiogare. Stanno resistendo allo sfruttamento. Facciamo parte di questa lotta delle donne. Come rappresentanti della politica delle donne, la crescente lotta delle donne in tutto il paese ci dà speranza. Siamo più vicini che mai al successo”.

Commentando il ritiro dalla Convenzione di Istanbul, entrato in vigore il 1° luglio, Pervin Buldan ha affermato: “La Convenzione di Istanbul è un trattato che si occupa e promuove i diritti delle donne nel loro insieme e previene i crimini contro le donne. Per le donne è un testo di qualità costituzionale. Allo stesso tempo, questa convenzione richiede misure efficaci contro gli abusi sui bambini. Per le donne questa convenzione è necessaria e indispensabile».

Pervin Buldan ha ricordato che il ritiro dal trattato per la tutela delle donne è stato effettuato con decreto presidenziale e che il ricorso intentato contro di esso da HDP e da altre istituzioni è stata respinta dal Consiglio di Stato: Il Consiglio di Stato ha così dimostrato ancora una volta di essere un’istituzione di giustizia maschile del regime di un solo uomo. Tuttavia, noi donne non permetteremo a un solo uomo di toglierci i nostri diritti con una sola firma. Non ci inchineremo e continueremo a combattere in parlamento e per le strade. Una volta che ci saremo liberate di questo governo, reintrodurremo la Convenzione di Istanbul e garantiremo la sua effettiva attuazione”.

ANF

Il ritiro dall’Afghanistan incrina la credibilità di Washington

Pierre Haski, France Inter, Francia, Internazionale, 6 luglio

soldati afghaniAlla fine della settimana scorsa Joe Biden ha tenuto una conferenza stampa sulla creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, proprio nel momento in cui le truppe americane lasciavano la grande base aerea di Bagram, nei pressi di Kabul. In quell’occasione un giornalista gli ha rivolto una domanda sull’Afghanistan: “Vorrei parlare di cose più felici”, ha svicolato il presidente.

L’Afghanistan non fa sicuramente parte delle “cose felici” per gli Stati Uniti. La cronaca di un disastro annunciato resterà legata al nome di Biden, anche se l’attuale presidente non ha fatto altro che confermare, o meglio accelerare, il processo di ritiro militare avviato dal suo predecessore Donald Trump dopo vent’anni di una guerra impossibile da vincere.

Come previsto, in assenza di qualsiasi accordo politico inter-afgano, il ritiro ha rafforzato enormemente i taliban, il cui territorio si espande ogni giorno di più. Il 5 luglio più di mille soldati dell’esercito nazionale afgano si sono rifugiati nel vicino Tagikistan, mentre altre guarnigioni si sono arrese senza combattere. I taliban sono sul punto di realizzare uno dei grandi insegnamenti dello stratega cinese Sun Tzu: le vittorie migliori sono quelle ottenute senza combattere, in cui basta la paura.

Il ricordo del Vietnam
Prima di tutto si tratta di una sconfitta per gli afgani, a cominciare dalle donne sulle quali incombe la minaccia di un ritorno dell’oscurantismo patito quando i taliban erano al potere negli anni novanta.

Ma è innegabile che la sconfitta sia anche degli Stati Uniti. Dopo vent’anni di presenza nel paese, infatti, gli americani partono senza aver minimamente raggiunto gli obiettivi prefissati, e perfino quello di tenere a distanza i jihadisti di al Qaeda è tutto fuorché assicurato, stando alle informazioni che provengono dal nord del paese.

Gli americani ne hanno abbastanza delle “guerre senza fine” e Biden incarna bene questo sentimento condiviso

La superpotenza statunitense è stata messa in scacco da uomini che non hanno un millesimo della potenza di fuoco del più grande esercito del mondo. Questa situazione ricorda il Vietnam, il grande trauma degli anni settanta. In quel caso gli Stati Uniti impiegarono parecchio tempo per riprendersi. L’immagine degli elicotteri che decollano in fretta e furia dal tetto dell’ambasciata di Saigon resta un ricordo umiliante.

È possibile che la sconfitta afgana lasci le stesse tracce? Gli Stati Uniti nel frattempo sono cambiati, e anche il resto del mondo. Gli americani ne hanno abbastanza delle “guerre senza fine” in Iraq e Afghanistan, e Biden incarna bene questo sentimento condiviso.

Ma davvero Washington è pronta ad accettare le conseguenze della sua decisione se i taliban, com’è probabile, riprenderanno in mano il potere o se il paese sprofonderà nuovamente in una guerra civile?

Come farà Biden a ristabilire la credibilità della protezione statunitense? Il “comandante in capo” che abbandona l’Afghanistan volerà in soccorso di Taiwan o dell’Ucraina se i due alleati degli Stati Uniti si trovassero in pericolo? È una domanda che si porranno sicuramente i leader dei paesi in questione, per parlare solo di due casi emblematici, e quelli dei paesi che rappresentano una minaccia, Russia e Cina, già convinti del declino dell’occidente.

Kabul 2021 non è Saigon 1975, ma le due situazioni hanno in comune i limiti della potenza militare americana e dunque del peso reale degli Stati Uniti nei rapporti di forza a livello internazionale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Viaggio a Kandahar, i talebani tornano a casa

Enrico Campofreda, 5 luglio 2021

talebani armiDire che i taliban si riprendono Kandahar è un eufemismo. Di quella provincia hanno le chiavi di casa. Da lì partì la conquista del potere in un Paese liberato dall’occupazione sovietica e caduto in un lacerante conflitto etnico, tribale, religioso, clanistica, affarista. L’avevano combattuto i peggiori Signori della Guerra locali, abilissimi nella resistenza a un’Armata Rossa tutt’altro che motivata, e comunque messa in ginocchio dalla sagacia di certi guerriglieri dipinti come supereroi. Prendiamo Aḥmad Massud, leone del Panshir, non era Alessandro il Macedone, ma di capacità tattica, intelligenza, empatia ne aveva da vendere. Era amato non solo dai seguaci tajiki, dalla stessa stampa internazionale che lo carezzava con panegirici, interviste alle quali lui si prestava sfoderando un impeccabile francese. Il glamour gli fu fatale, nel settembre 2001 con una finta intervista due kamikaze, spacciatisi per cameramen di un’emittente marocchina, lo fecero saltare per  aria e s’immolarono. L’anno seguente il comandante, considerato un eroe nazionale, venne insignito d’un postumo Premio Nobel per la pace. Pensate un po’: un passo che rientra perfettamente nella manipolazione della realtà afghana che, se con gli intrighi del ‘Grande Gioco’ imperialista ottocentesco, è cosa antica, con le recenti occupazioni è diventato parossistico. 

massoudI mujaheddin che liberavano il suolo patrio dagli improvvidi russi, avevano gli arsenali colmi di missili Stinger con cui abbattevano gli elicotteri d’assalto di Mosca, e le casse colme di dollari americani e petrodollari sauditi. E’ storia risaputa. Ma dal 1989 per tre anni consecutivi i tajiki di Massud e Rabbani, i pashtun di Hekmatyar e Sayyaf, gli hazara di Mazari e Mohaqiq gli uzbeki di Dostum – e poi Fahim, Khalili la lista è lunga, può proseguire con vecchi e rinnovati nomi – non trovando un accordo per guidare il Paese pensarono di risolvere la questione sparandosi addosso. Intrecciavano alleanze di comodo che potevano durare mesi o lo spazio d’un giorno e vomitavano morte. Martellavano coi mortai, collocati su alcune alture attorno a Kabul, l’altopiano sottostante dove viveva la popolazione. In quattro anni fecero ottantamila morti, forse più. E da quel 1994 un mullah di Kandahar, di nome Omar, raccolse gli studenti coranici trasformati in combattenti per una battaglia contro altri islamici, i Warlords, che continuavano a mantenere la nazione prostrata ai loro piedi, massacrandone i figli, riempendo di caos e lutti l’esistenza quotidiana. Aggregando nelle proprie file migliaia di giovani afghani, Omar e i suoi, quando due anni dopo cinsero d’assedio la capitale, venivano visti da molta gente, non da tutta, come i messaggeri d’una prossima stabilità. 

buddha bamyanDurò pochissimo, anzi niente. Poiché la Shari’a talebana era letta con lenti non dissimili da quelle dei fondamentalisti che scalzavano. Omar non era diverso da Hekmatyar, il leader che s’era conquistato l’epiteto di macellaio di Kabul. Lo stadio e altre spianate della capitale divennero i luoghi di esecuzioni pubbliche, rivolte si badi bene non ai Signori della Guerra che intanto erano riparati altrove, anche in Paesi limitrofi, su cui spiccano Pakistan e Iran, sempre desiderosi di decidere d’orientare l’Afghanistan verso i propri orizzonti. Le fucilazioni colpivano cittadini pizzicati dall’istituita ‘polizia religiosa’ e rei di non seguire indirizzi morali consoni alla legge coranica. Ovviamente le donne finivano in prima fila nella repressione: le si vietava d’uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia, le s’impediva di studiare e lavorare. Le si lapidava al sospetto di adulterio. L’onta delle lapidazioni pubbliche segnò l’onda sanguinaria del regime talebano, inducendo una diffusa disillusione. Fino alla quintessenza di gesti simbolici d’ottusa follìa, come la distruzione dei Buddha di Bamyan, scavati nella roccia da circa due millenni, e disintegrati dai coranici con un’iconoclastìa non dissimile da quella mostrata più tardi dall’Isis a Palmira.

soldati afghaniCon l’invasione della Nato, coi governi fantoccio Karzai e Ghani che riciclavano i Signori della Guerra e promuovevano fanatismo, sebbene mascherato nella Loya Jirga da leggi favorevoli alle donne, è proseguita la grande bugia d’una trasformazione della nazione afghana. Chi ama quel Paese e il suo popolo, l’ex parlamentare Malalai Joya lo predica da almeno tre lustri, afferma che non è così. Le truppe occidentali ora in smobilitazione, che contavano un decennio or sono oltre centomila soldati, hanno donato ai talebani, pur orfani di Omar, l’etichetta di patrioti resistenti. Loro se la sono appuntata al petto, perché agli occhi di qualsiasi afghano non servile agli interessi occidentali, quei tank, quegli aerei, quei droni, quelle extraordinary rendition, hanno colpito tanta gente comune e innocente, facendo duecentocinquantamila vittime, quattro milioni di profughi, un’infinità di sfollati interni, decine di migliaia di migranti obbligati all’anno. Se fra qualche giorno o settimana i taliban entreranno nell’area di Kandahar, su cui compiono incursioni da un decennio, nessun cittadino locale si sorprenderà. Come potrà accadere per altri centri, che un fuggitivo generale Miller dice bisognerà difendere. Nessuno può farlo, perché l’esercito interno finanziato, assistito, addestrato per otto anni a suon di miliari è una cartapesta senza speranza, peraltro abbandonato da chi non sa per chi e cosa combattere. Perché a Doha gli americani hanno deciso che saranno i nemici d’un ventennio a governare l’Afghanistan.

L’Afghanistan dietro l’angolo

Enrico Campofreda, 3 luglio 2021

talebaniQuanto tempo manca alla caduta del governo Ghani? Sei mesi, due anni? Un conto alla rovescia che appassiona qualche analista cabalista, intento a cercare nei segnali del ritiro statunitense l’Afghanistan che bolle nel pentolone geopolitico. Quanto c’è di conosciuto, mostrato, intuito è sempre utile per talune previsioni. Fra gli occupanti pronti a sloggiare, l’ex super comandante a Kabul, il generale Miller, in una delle ultime conferenze stampa ha riferito che le restanti forze sono sparse fra Kabul e la base aerea di Bagram, il tentacolare rifugio di truppe e contractors diventato il punto d’uscita dal Paese. Il quartier generale Nato è in via di smobilitazione, a guardia dell’ambasciata Usa e dei diplomatici ancora presenti, restano 650 militari. Smobilita pure tanta tecnologia high-tech per le comunicazioni, compresa quella di supporto ai raid aerei contro i talebani per assistere le truppe di terra, e magari massacrare i sanitari di ospedali come accadde durante l’assedio di Kunduz alla struttura di Médecins sans Frontières. E perdonate i retropensieri…

ritiro americano“Mettere in sicurezza la situazione nelle grandi città” – ha affermato Miller. Ma è tanto per dire. In che modo se non sono bastati sette anni sette d’impegno e miliardi di dollari spesi? Da alcuni mesi risultano copiosi i ritiri e gli abbandoni di reparti e ufficiali afghani che vogliono salvare la pelle. Il futuro è ampiamente favorevole agli studenti coranici, come hanno deciso la stessa Casa Bianca e la diplomazia internazionale con gli accordi di Doha. Ghani e il suo governo, snobbati da Washington, odiati dai talebani che li disprezzano come incapaci servitori degli occupanti, penserebbero a rilanciare milizie armate di vecchi e nuovi Signori della guerra. Milizie contro i turbanti. Al pensiero la cittadinanza più anziana rivive lo spettro della guerra civile degli anni Novanta. Sull’ipotesi di attrezzare manipoli Abdullah, l’anti Ghani odiato quanto lui, è stato sibillino, non sapendo nulla dell’impatto bellico su cui gli ennesimi belligeranti potrebbero contare. Per quanto s’è visto negli ultimi tempi i mercenari, d’ogni risma, possono al massimo difendere qualcosa – compound, stazioni, merci, persone in transito – ma il controllo di province è altra cosa. E soprattutto: i guerrieri a pagamento non riescono a contrastare chi è mosso da un piano più ampio, politico, etnico, confessionale.

talebani marciaL’osso duro nel controllo delle strade contro cui i taliban ortodossi hanno dovuto competere, sono gli ex compagni di lotta, i dissidenti del Khorasan, i Tehrik che hanno dato vita alle milizie dell’Isil. Contro cui, comunque, lo scontro è stato indiretto, incentrato sul terrore diffuso a suon di bombe sanguinarie contro la popolazione inerme. Gli studenti coranici hanno continuato a rosicchiare tratti di territorio a un esercito che, come detto, perde pezzi. Ultimo esempio: i distretti settentrionali verso Balkh, Kaldar a loro da sempre ostili, diventano zone ormai controllate dagli uomini di Akhundzada. Il programma di mostrarsi forti anche in aree non pashtun è funzionale alla resa dei conti rivolta ai palazzi del potere di Kabul. Capitale assediata, non solo perché manipoli taliban scorrazzano indisturbati a neppure 60 miglia di distanza, ma perché le stesse arterie d’accesso via terra al di là di quella distanza non vanno da nessuna parte. Da fine giugno la viabilità verso il Tajikistan, l’asse strategico rivolto all’Asia, è roba talebana con la compiacenza di abitanti non pashtun e delle citate defezioni di truppe afghane. Che un meticoloso ufficio propaganda filma e divulga sul web, a totale disonore d’un governo molto più che fantasma.

GhaniIl limite talebano si misura se si alzano gli occhi al cielo. Non per pregare Allah. La questione è tecnica: lo spazio aereo gli è stato finora interdetto e nel ritiro statunitense poco e nulla si sa di ciò che accadrà in quella decina di basi unico bottino americano nei vent’anni di guerra. La speranza delle eventuali truppe  mercenarie di Ghani d’usufruire della tecnologia americana è legata alla benevolenza della Casa Bianca, che di recente proprio col Biden propugnatore della smobilitazione, ha promesso 40 elicotteri da guerra al governo amico. Ma chi li condurrà? Nei passati scontri avieri afghani non erano all’altezza dei mezzi tecnici di cui disponevano, e comunque per non rischiare i talebani sembra abbiano aperto una caccia a piloti e tecnici locali da eliminare con agguati e imboscate. Questo riferisce l’Intelligence locale, ma forse a un ipotetico governo talebano gli aviatori servono vivi. Tre miliardi e mezzo di dollari l’anno per la sicurezza prima dell’addio, è il regalo promesso dal presidente Usa fino al 2024. Il destinatario può essere un uomo col turbante, e non è detto sia il Ghani di certe comparsate etniche.

Afghanistan, paese in ginocchio per la terza ondata di Covid-19

La tanto attesa iniziativa del COVAX per distribuire vaccini ai Paesi poveri è ormai chiaramente in crisi. All’attuale tasso di distribuzione, entro la fine di quest’anno, sarà coperto solo il 10% della popolazione dei Paesi beneficiari.

Emergency – Pressenza – 23 giugno 2021

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“Da inizio mese l’Afghanistan è scosso da una terribile terza ondata di Covid-19 che ha travolto il suo sistema sanitario proprio nel momento in cui il Paese è colpito dalla recrudescenza del conflitto scatenato dal ritiro delle truppe NATO. La situazione è drammatica: i Covid hospital non hanno più posti letto, non esistono vere terapie intensive, c’è una enorme difficoltà a reperire ossigeno, solo una minima parte della popolazione è stata finora vaccinata e i combattimenti in corso in 26 provincie rendono l’approvvigionamento di materiale medico ancora più complicato”. Così Marco Puntin, Programme coordinator di EMERGENCY in Afghanistan, sulla diffusione della pandemia nel paese.

Secondo il ministero della Salute locale, a oggi, 23 giugno, sono 107.857 persone positive e 4.366 morti nelle 34 province. Ma la scorsa settimana è circolata la notizia che i due maggiori ospedali con reparti Covid della capitale, Afghan Japan e Ali Jinnah, hanno dovuto chiudere le ammissioni per mancanza di letti disponibili. Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, nell’ultimo mese i positivi sono aumentati del 2.400 per cento.

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Convenzione di Istanbul, “Non una di meno” manifesta

Simone Bauducco – Il Fatto Quotidiano – 1 luglio 2021

Violenza sulle donne, le attiviste di “Non una di meno”: Turchia fuori dalla Convenzione di Istanbul, nessuno condanna Erdogan”

Nel giorno dell’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, le attiviste di Non una di Meno sono tornate in piazza a Milano vicino al consolato turco per protestare contro il governo Erdogan. “È uno strumento in meno nella lotta alla violenza sulle donne – spiega la portavoce della comunità curda milanese Hazal Koyuncuer – specialmente nel nostro Paese dove ogni giorno muore almeno una donna a causa della violenza di genere”.

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Le attiviste chiedono all’Italia e all’Europa di condannare la mossa della Turchia: “A parole sono consapevoli che Erdogan sia un dittatore, ma nessuno interrompe i rapporti commerciali perché gli interessi sono maggiori delle vite degli esseri umani”. Ma c’è anche la preoccupazione che altri paesi seguano l’esempio della Turchia uscendo dalla Convenzione come spiega Sonia, un’attivista polacca che fa parte di Non Una di Meno.

E l’Italia? Dopo aver ratificato la Convenzione nel 2013, dunque “ha le leggi e di facciata è a posto” racconta Silvia, di Non Una di Meno Milano “ma è risultata carente” sull’attuazione dei quattro punti fondamentali della Convenzione. “La prevenzione, le politiche integrate per la rimozione delle diseguaglianze di genere che sono la radice della violenza sulle donne in società, il procedimento contro i colpevoli e la protezione delle vittime con il finanziamento dei centri antiviolenza”.

 

Donne a Istanbul: “Fermeremo i femminicidi”

In migliaia a urlare contro una scelta scellerata, ufficializzata tre mesi or sono, ma per la quale le donne turche, kurde e d’altre minoranze presenti nel Paese non vogliono smettere di lottare.

Enrico Campofreda, dal suo blog, 1 luglio 2021

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In migliaia a urlare contro una scelta scellerata, ufficializzata tre mesi or sono, ma per la quale le donne turche, kurde e d’altre minoranze presenti nel Paese non vogliono smettere di lottare. Il ritiro dalla ‘Convenzione di Istanbul’, attuato con decreto presidenziale, ha compiuto una retromarcia su un trattato che l’allora premier Erdoğan aveva promosso nel 2011 assieme a quarantacinque rappresentanti di altrettante nazioni. Era stato un passo importante di denuncia e contromisure da opporre alla violenza di genere.

Presente ovunque, ma che in Turchia continua a crescere, facendo registrare nel 2020 trecento femminicidi e 171 casi di morti sospette di donne.

Eppure la manovra politica del presidente – che al proprio conservatorismo somma quello degli alleati nazionalisti, sempre più indispensabili alla tenuta del sistema varato con la rinnovata Costituzione del 2017 che ne ha aumentato un personalissimo potere – può diventare un boomerang.

Si registra una crescente adesione ai gruppi denominati “Fermeremo i femminicidi” animati da femministe, attiviste d’opposizione, cui aderiscono giovani e donne rimaste finora lontane dalle manifestazioni di piazza, anche per il livello di repressione cui sono sottoposte. Era accaduto ai primi raduni e sit-in, dopo la decisione del 20 marzo scorso, quando agenti in divisa e in borghese avevano trascinato via ragazze, malmenandole e arrestandole. Proprio com’era accaduto agli universitari bogazici, mobilitatisi nei mesi invernali contro l’insediamento d’un rettore non eletto bensì cooptato dal partito di maggioranza (Akp) e collocato a dirigere il prestigioso ateneo sul Bosforo. 

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Le conquiste dei talebani spingono il governo afgano ad armare civili volontari

Il governo disperato lancia la “Mobilitazione nazionale” per armare i volontari civili contro  i talebani. Ma gli osservatori affermano che la mossa resuscita solo le milizie fedeli ai comandanti locali o ai potenti signori della guerra che hanno distrutto la capitale afgana durante i combattimenti tra fazioni degli anni ’90 e ucciso migliaia di civili.

AlJazeera – 25 giugno 2021

Afghanistan eterno mattatoio per i giochetti dei potenti opengraph

Per due giorni, i combattimenti sono stati feroci. Razzi e mitragliatrici pesanti hanno colpito l’Imam Sahib, un distretto chiave al confine settentrionale dell’Afghanistan con il Tagikistan.

Quando le esplosioni sono cessate e Syed Akram è finalmente uscito da casa sua all’inizio di questa settimana, tre dei figli del suo vicino erano stati uccisi e un carro armato stava bruciando all’angolo di una strada vicina.

Diversi negozi e un distributore di benzina stavano ancora fumando. Nelle strade, i talebani avevano il controllo.

C’erano forse 300 combattenti talebani, ha detto, sufficienti per sopraffare le truppe governative che difendevano la città, che erano state meno di 100.

Nei giorni scorsi, i talebani, che rifiutano il governo eletto e cercano di insediarne uno islamico, hanno fatto rapidi progressi nel nord dell’Afghanistan, invadendo numerosi distretti, alcuni dei quali, secondo quanto riferito, non hanno combattuto.

Di conseguenza, il governo, preoccupato, questa settimana ha lanciato un’iniziativa chiamata “Mobilitazione nazionale”, armando i volontari civili, secondo quanto riportato venerdì dall’Associated Press.

Lunedì, in un incontro con influenti ex leader delle milizie antisovietiche e antitalebane, Ghani ha chiesto loro di creare un “fronte unito” e sostenere le forze di sicurezza afghane per “rafforzare la pace” e “salvaguardare il sistema della repubblica”, riporta il Post martedì.

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