Una delegazione pakistana in visita a Kabul, guidata dall’inviato speciale di Islamabad in Afghanistan, Mohammad Sadiq, ha assicurato al governo afghano che i talebani parteciperanno al vertice di Istanbul e ha smentito le notizie riguardanti incontri con l’intelligence di Islamabad.
Una voce importante di una donna sulle conseguenze del ritorno dei talebani
L’Afghanistan sta affrontando un’altra fase di transizione incerta, come è incerta la sorte per la metà della popolazione, le donne. Vent’anni fa, la comunità internazionale guidata dagli USA è intervenuta militarmente in Afghanistan per rovesciare il regime talebano e cacciare i protetti di Al-Qaeda. In un discorso di potere egemonico, tale intervento è stato giustificato, in parte, dallo scopo di migliorare i diritti umani e i diritti delle donne.
Lunedì 26 aprile si aprirà il “Processo Kobanê” contro 108 persone, 28 delle quali si trovano in carcere, compresi gli ex co-presidenti di HDP Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ. Il processo si terrà presso l’Alta Corte Penale del Campus del carcere di Sinjan ad Ankara.
La scorsa notte l’esercito turco ha lanciato un’operazione aerea e di terra nelle aree di guerriglia di Metina e Avashin, e oggi l’area delle operazioni è stata estesa alla regione di Zap. Il Congresso della società democratica in Europa (KCDK-E) ha sottolineato che l’invasione nel Kurdistan meridionale (Iraq settentrionale) è coordinata con gli Stati Uniti e l’Europa.
Il ritiro delle truppe Usa e NATO dall’Afghanistan potrebbe essere un grande bluff anche dopo le dichiarazioni del capo del Pentagono, Lloyd Austin che oltre a dare l’ordine di rafforzare la protezione delle truppe statunitensi in Afghanistan durante il loro pseudo-ritiro, ha deciso di estendere la missione svolta nelle acque della regione dalla USS Eisenhower, del Comando Centrale degli Stati Uniti, e di schierarvi bombardieri a lungo raggio.
Solo la Superlega del calcio Paperone, agognata da Perez e dalla quarta generazione Agnelli, ha ottenuto un flop più vistoso di quanto registra il piano preparato da oltre un mese dal Segretario di Stato americano Blinken. Domani a Istanbul non si sarà alcuna continuazione dell’interrotta trattativa di Doha.
Internazionale – 20 aprile 2021, Obaidullah Baheer, Tolonews, Afghanistan
Scritto da un analista politico afghano e pubblicato sul sito della Tv afghana Tolonews, dà una lettura molto pessimista della società e mette in evidenza il fallimento delle scelte politiche e militari degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ora, dopo vent’anni, lasciano il paese senza aver inciso nel tessuto sociale afghano, lasciandolo in balia dei talebani e dei signori della guerra, con una corruzione sempre più dilagante.
Gli Stati Uniti sostengono di voler salvaguardare i progressi fatti negli ultimi vent’anni in Afghanistan, ma vogliono anche sfuggire ogni responsabilità nei confronti del paese, come dimostrano le ultime osservazioni del presidente Joe Biden e la sua decisione di ritirare le truppe dal paese.
Il membro del Comitato Esecutivo del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Duran Kalkan è stato intervistato in un programma speciale trasmesso su Medya Haber TV. Kalkan ha condiviso la sua opinione secondo cui il leader del PKK Abdullah Öcalan è tenuto come “ostaggio” a causa dei suoi pensieri.
«La pace è peggiore della guerra, quando non c’è giustizia». Queste parole danno in sintesi la descrizione di quello che lasciano gli americani e i loro alleati dopo l’annuncio del ritiro delle truppe. A pronunciarle è Malalai Joya che vive da anni sotto scorta e continua a denunciare la situazione drammatica del suo paese. Mette ben in evidenza, nella breve intervista iniziale dell’articolo, la reale situazione della maggior parte della popolazione. Lei, che nonostante sia sempre in pericolo, non abbandona il suo paese.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden annuncia il ritiro delle truppe dal paese a vent’anni dall’operazione Enduring Freedom
«La pace è peggiore della guerra quando non c’è giustizia». Malalai Joya parla al telefono da Kabul, ha soltanto 30 minuti di autonomia prima che cada la connessione wi-fi. Vive con la scorta, si nasconde da anni, da quando nel 2007 è stata sospesa dal parlamento afghano, dove sedeva come il più giovane membro mai eletto, per aver denunciato la presenza di criminali e signori della guerra tra i deputati.
Segnaliamo questo articolo di Piero Maestri che sottolinea molto bene le contradizioni delle scelte dell’amministrazione americana ancor prima dell’11 settembre e mette anche in luce il lavoro che il Cisda svolge da oltre vent’anni per dare voce alla società civile afghana e in particolare alle donne.
L’annuncio del ritiro delle truppe fatto da Biden ha omesso il fallimento di una guerra che ha distrutto un paese e le sue forze democratiche, con i Talebani che ne raccoglieranno i frutti. Nel frattempo la situazione geopolitica è profondamente cambiata.
«Siamo andati in Afghanistan nel 2001 per sradicare al Qaeda, per prevenire futuri attacchi terroristici contro gli Stati uniti pianificati dall’Afghanistan. Il nostro obiettivo era chiaro. La causa era giusta». Così il nuovo presidente statunitense Joe Biden ha iniziato il discorso con cui ha annunciato il definitivo e completo ritiro dei militari Usa dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021. L’importanza simbolica della data è evidente visto che il pretesto per gli attacchi sul paese asiatico e la conseguente invasione militare erano stati proprio gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington.
Biden, come i suoi predecessori, non racconta la storia fino in fondo. George Bush junior, nel suo discorso dell’ottobre 2001 con cui annunciò i primi bombardamenti sull’Afghanistan, partì anche lui dalla necessità di «sconfiggere il terrorismo» e di impedire che Al Qaeda potesse trovare rifugio in quel paese, ma andò molto oltre e si fece prendere un po’ la mano dalla retorica, aggiungendo che «il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei nostri alleati. Mentre colpiamo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli uomini, alle donne e ai bambini dell’Afghanistan che muoiono di fame e di sofferenza… Non abbiamo chiesto questa missione, ma la porteremo a termine. Il nome dell’operazione militare di oggi è Enduring Freedom. Noi difendiamo non solo le nostre preziose libertà, ma anche la libertà delle persone ovunque di vivere e crescere i loro figli liberi dalla paura».
Il 20 marzo 2021, il Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta della violenza nei confronti delle donne. La Convenzione danneggerebbe, secondo l’AKP, l’istituzione della famiglia turca. Che impatto avrà questa mossa sulla vita delle donne turche? Abbiamo avuto il piacere di ascoltare la testimonianza diretta delle attiviste di Mor Çatı, “il tetto viola”, una fondazione che da oltre trent’anni fornisce supporto psicologico, sociale e legale alle donne vittime di violenza. A delineare un quadro introduttivo sulla Convenzione e sulla situazione generale dei diritti delle donne in Turchia, un contributo di Carlotta De Sanctis, dottore di ricerca in Studi sull’Asia e sull’Africa all’Università Ca’ Foscari di Venezia e membro della redazione di Kaleydoskop, rivista online sulla cultura e la società turca.
“İstanbul Sözleşmesi”, gli obiettivi della Convenzione – Carlotta De Sanctis
La Convenzione di Istanbul, termine abbreviato dell’accordo siglato come “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante nella protezione delle donne da qualsiasi forma di violenza. Dopo la firma nel 2011 da parte di 32 paesi, il trattato è stato ratificato negli anni da differenti Stati (primo fra tutti la Turchia passata alla ratifica della Convenzione nel 2012 e alla sua applicazione nel 2014), che conseguentemente hanno accettato i vincoli giuridici delle sue disposizioni.
Tali disposizioni muovono da una profonda riflessione nata in seno alle lotte e alle teorie dei movimenti femministi e arrivano a considerare l’atto violento, che sia esso di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, non solo nella sua specificità ma all’interno di un quadro più ampio.