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Autore: Anna Santarello

Una rivoluzione palpabile da difendere con ogni mezzo necessario

Ret Jin – 24 gennaio – 2019

Dalla Brigata Maddalena in Rojava

44447062 476088886213426 7900142670801010688 n 2 960x675 copyErdogan minaccia di invadere il Rojava, una striscia di 10 km oltre la frontiera turcosiriana, che sulla carta sembrano niente ma nella realtà significa tutto, significa Jinwar, Kobane, il castello antico di Saladino, un lembo di terra liberato con passione e sacrificio, dove arabi, curdi, assiri, turcomani, ceceni, e molti altri ancora cercano di costruire un’alternativa rivoluzionaria ma allo stesso tempo antica, fatta di comunitá diverse, donne libere, cooperative e assemblee.

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La lettera da Leyla Guven: Tutte le donne del mondo devono dire basta al fascismo, basta alla dittatura!

UIKI – 23 gennaio 2019

leylaguven 2 599x275Care donne,

nonostante le nostre collocazioni geografiche si trovino a migliaia di miglia di distanza, sono felice che abbiate sentito la mia voce. Anche se veniamo da diversi angoli del mondo, come donne, abbiamo sempre avuto sentimenti reciproci.

Come dice Ipazia, “nessuna di noi ha lo stesso aspetto, ma le cose che ci uniscono sono più grandi di quelle che ci dividono”. Siamo tutte sorelle. La cosa che ci unisce di più è la nostra lotta per la libertà, la nostra resistenza contro ogni tipo di fascismo, dittatura e la mentalità patriarcale.

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L’unica alternativa all’inerzia dell’Europa è lo sciopero della fame a tempo indeterminato

Rete Jin – 22 gennaio 2019 di Kardo Bokanî

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Uno sciopero della fame è un atto di disobbedienza civile che si compie contro l’ingiustizia, l’oppressione e / o la tirannia. È un’azione semplice, perché non è necessaria una grande mobilitazione.

Chiunque può intraprenderlo senza bisogno di avere molte risorse. Allo stesso tempo è un’azione dura che richiede moltissima forza di volontà e determinazione e una nobile causa per cui valga la pena morire.

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Il disimpegno Usa in Afghanistan, la controffensiva talebana

Il Messaggero di Gianandrea Gaiani – 22 Gennaio 2019 

Al di là del numero di vittime provocato, è difficile attribuire all’attacco talebano contro la base dell’intelligence nella provincia di Maidan Wardak una valenza legata al recente annuncio della Casa Bianca relativo al dimezzamento delle forze statunitensi a Kabul. I talebani hanno sempre colpito le forze di sicurezza governative prendendo di mira spesso scuole e centri di addestramento, con il duplice obiettivo di scoraggiare i giovani afghani ad arruolarsi e uccidere i consiglieri militari occidentali che li addestrano. In questo contesto il Direttorato per la Sicurezza Nazionale, (Nds), cioè i servizi segreti che in più occasioni hanno dimostrato di disporre di informatori e infiltrati tra le fila nemiche, costituiscono un bersaglio di elevato valore per i jihadisti.

Anche la tattica utilizzata nell’attacco di ieri ripete uno schema varato diversi anni or sono dalla Rete Haqqani e che vede attentatori suicidi a piedi o su veicoli imbottiti di esplosivo farsi esplodere agli accessi di basi militari o edifici governativi per spianare la strada a gruppi di fuoco comunque votati al “martirio” dopo aver provocato il massimo dei danni e delle vittime.

Uno schema che ha ispirato le azioni di molti gruppi e milizie di jihadisti in tutto il mondo.
Ciò detto resta evidente che l’annunciato ritiro di circa metà dei 15 mila militari statunitensi presenti oggi in Afghanistan galvanizzerà ulteriormente i talebani. Come già accadde dopo il ritiro voluto da Barack Obama delle forze da combattimento Usa/Nato, tra il 2011 e il 2014, gli insorti puntano oggi a imprimere una spallata alle forze governative sempre più demotivate, prive di mezzi e armi pesanti e provate da perdite di centinaia di uomini uccisi o feriti ogni mese e dagli elevati tassi di diserzione.

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Avvocati di Öcalan: l’isolamento a Imrali continua

Tratto da Uikionlus.com –  20 gennaio 2019

imrali 1 599x275Il team di avvocati di Abdullah Öcalan ritiene il Comitato Europeo contro la Tortura e la CEDU corresponsabile per l’isolamento continuativo. La breve visita di suo fratello non hanno rimosso l’isolamento, così gli avvocati.

Lo Studio Legale Asrin, che rappresenta Abdullah Öcalan dalla sua deportazione in Turchia venti anni fa, si è pronunciato sulla visita di Mehmet Öcalan sull’isola carcere di Imrali. Il fratello del fondatore del PKK sabato scorso ha potuto vedere Öcalan per la prima volta dopo due anni e mezzo.

“Il 12 gennaio 2019 il nostro cliente Abdullah Öcalan ha incontrato suo fratello Mehmet Öcalan. Come è già noto all’opinione pubblica, questa visita si è svolta in condizioni straordinarie e al di fuori della regolare procedura. Dall’ultima vista della delegazione HDP a Imrali il 5 aprile 2015, è stato il secondo contatto con il nostro cliente da parte di un famigliare.

L’11 settembre 2016 a seguito di grande preoccupazione nell’opinione pubblica democratica era avvenuto un colloquio breve simile, con il quale è stato confermato che il diritto alla vita del nostro cliente è rispettato”, si dice nell’attuale presa di posizione del team di legali.
Nessun colloquio con i legali dal 2011
Rispetto all’isolamento di Abdullah Öcalan e degli altri tre prigionieri a Imrali lo studio legale dichiara:

“Dal 27 luglio 2011 Öcalan non può più parlare con i suoi avvocati. Ad oggi 781 nostre richieste di visita sono state rifiutate. Con i nostri tre clienti, che si trovano in carcere a Imrali con Öcalan, dal loro trasferimento a Imrali nel marzo 2015 non c’è comunicazione diretta.

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Deputata curda in sciopero della fame pronta a “protestare fino alla morte”

Di Dilar Dirik – Tratto da ReteKurdistan.it – 20 gennaio 2019

hdpli leyla guven yeniden tutuklandi35244f image 13891c4 image 700x325La deputata HDP Leyla Güven è in condizioni critiche dopo 68 giorni di sciopero della fame per chiedere la fine dell’isolamento del leader curdo Abdullah Öcalan.

“Il suo battito è di 55-60, mentre la sua pressione è circa 50-70. Non può più ricevere liquidi, compresa l’acqua. Ha perso circa 15 chili e riesce a stento a camminare o parlare. C’è un’ambulanza che aspetta davanti all’ingresso del carcere. Il medico ha chiesto una firma in caso di emergenza perché possa essere curata, ma Leyla Güven ha affermato che non accetterà le cure, se possibili.”

Il messaggio qui sopra è stato recentemente condiviso da attivisti curdi davanti al Consiglio Europeo di Strasburgo che hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato chiedendo la fine dell’isolamento del Leader politico e pensatore curdo Abdullah Öcalan il 17 dicembre 2018.

La persona cui si riferisce il messaggio è la 55enne Leyla Güven, che oggi ha raggiunto il 68° giorno di sciopero della fame [NdT ormai siamo al 73° giorno] a tempo indeterminato in carcere e la cui vita è in grave pericolo. Güven è stata regolarmente eletta al Parlamento turco, iscritta al Partito Democratico dei Popoli (HDP), ex sindaca, e co-Presidente del Congresso della Società Democratica (DTK), la più grande organizzazione della società civile nelle regioni curde della Turchia.

È stata messa in carcere nel gennaio 2018 dopo aver espresso critiche rispetto all’invasione illegale e occupazione della regione a maggioranza curda di Afrin nel Rojava (Siria del nord) da parte dello Stato turco. Durante questa operazione militare sono stati commessi gravi crimini di guerra e civili sono stati presi di mira sistematicamente dalle milizie siriane sostenute sostenute dalla Turchia, che hanno stuprato, saccheggiato, sequestrato e ucciso impunemente.

Per via delle regole dello stato di emergenza imposto nel Paese dopo il tentato golpe nel 2016, Leyla Güven è il primo caso nella storia turca di una rappresentante non rilasciata dal carcere dopo essere stata eletta.

Durante la sua ultima udienza in tribunale a novembre ha dichiarato:

“Oggi la politica di isolamento contro Öcalan viene imposta non solo a lui – nella sua persona — ma all’intera società. L’isolamento è un crimine contro l’umanità. Sto iniziando uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro l’isolamento di Öcalan. D’ora in avanti non mi difenderò in tribunale. Continuerò a protestare fino a quando la giustizia avrà messo fine alle sue decisioni illegali e fino a quando sarà messa fine questa politica isolazionista. Se necessario condurrò questa protesta fino alla morte.”

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AFGHANISTAN. PROSEGUONO LE TRATTATIVE TALEBANI – USA. ATTENTATO A KABUL

Tratto da Notizie Geopolitiche – 15 gennaio 2019

talebani grandeLa delegazione Usa che sta trattando con i talebani negli Emirati Arabi Uniti in vista del disimpegno dall’Afghanistan, ha messo sul tavolo la volontà di conservare alcune basi militari di minore entità nel paese garantendo in cambio un “sostegno concreto” alla stabilità politica e sociale.

Lo riferisce l’Express Tribune, dal quale si apprende che per gli statunitensi le basi militari “avranno lo scopo di tutelare la presenza di Washington nella regione”, pur “senza influenzare in alcun modo la sicurezza” nella Repubblica Islamica.

La richiesta degli statunitensi è quella in realtà di assicurare la propria presenza nel paese dalla grande importanza strategica, che è poi uno dei principali motivi dell’intervento partito nel 2001, ma di fatto i militari Usa, come prima quelli sovietici, si sono trovati in un costosissimo pantano dal quale non riescono ad uscire se non cedendo su tutta la linea.
Bisogna ora vedere se i talebani saranno o meno interessati alla proposta Usa e cosa vorranno in cambio, ma va detto che le trattative in corso ormai da mesi sono tenute riservate.

Oggi è vi stato un altro attacco terroristico a Kabul, dove un’autobomba è esplosa nei pressi del vicino Green Village, che ospita soprattutto stranieri che lavorano nella capitale afgana. Nella forte esplosione sono rimasti uccisi un militare e tre civili, mentre fra i numerosi feriti vi sono 23 bambini e 12 donne, come ha reso noto il portavoce del ministero, Nusrat Rahimi.

L’attentato non è stato ancora rivendicato, ma nel paese agisce l’Isis, in lotta sia contro i talebani che contro il governo di Kabul.

“Siamo tutte prigioniere in questo Paese”. Perché l’Afghanistan è ancora considerato il luogo peggiore al mondo per essere una donna.

Rawa News, 13 dicembre 2018 – Lauren Bohn

L’Afghanistan è ancora oggi classificato come il luogo peggiore in cui vivere per le donne

Traduzione a cura di: Lucia Olimpia, Claudia Pisell, Elena Boraschi, Simone Rivello

selfburn afghan womenMariam piange per sua figlia Najiba, 13 anni. Najiba, che è stata sposata per sei mesi, ha dichiarato, tramite la madre, che sua suocera l’avrebbe cosparsa di benzina e le avrebbe dato fuoco. Alcune infermiere dell’ospedale sono rimaste scettiche di fronte a questa storia e, sin da subito, hanno sospettato potesse essersi data fuoco da sola in un tentativo di suicidio. (Foto: Lynsey Addario/ NYTimes)

Era una mattinata di sole all’inizio di dicembre dello scorso anno quando la ventitreenne Khadija si è data alle fiamme. Ha dato un bacio d’addio a suo figlio di tre mesi, Mohammed, e ha pronunciato una breve preghiera.

Ha supplicato:“Dio ti prego, metti fine a questa sofferenza” nel cortile assolato della sua casa a Herat, Afghanistan, mentre rovesciava cherosene da una lampada sul suo esile corpo. Poi ha acceso un fiammifero. Il cinguettio degli uccelli è stata l’ultima cosa che ha sentito.

La mattina seguente, si è resa conto che le sue preghiere non erano state ascoltate. Khadija, che ha chiesto al TIME di non pubblicare il suo cognome né quello della sua famiglia, si è svegliata nell’unico centro ustioni dell’ospedale di Herat, il corpo con ustioni di terzo grado avvolto da bende.

“Non sono viva e non sono nemmeno morta” mi ha detto Khadija la settimana scorsa, piangendo e stringendo le mani della sorella, Aisha. “Ho cercato di fuggire e ho fallito”. Come la maggioranza delle donne afghane, Khadija è vittima di violenza domestica. Ci ha raccontato per quattro anni suo marito l’ha picchiata e insultata: “sei brutta e stupida”, “una nullità.”

“Le donne non hanno mai una scelta,” ha detto Khadija lo scorso dicembre, in ospedale, con le lacrime che le rigavano il viso, un mosaico carbonizzato di cicatrici quasi irriconoscibile. “Se avessi potuto, non l’avrei sposato. Siamo tutte prigioniere in questo paese.”

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Zahra è stata picchiata dal marito che le ha poi versato dell’acido sul viso. In questa foto si trova all’ospedale di Kabul. (Photo: TOLOnews.com)

La decisione di Khadija di darsi alle fiamme ha fatto arrestare il marito con l’accusa di violenza domestica, una situazione alquanto insolita in un paese in cui la violenza sulle donne è raramente criminalizzata. Ma anche se il marito sta scontando la sua pena in prigione, Khadija si sente comunque in trappola, più di quando ha cercato di togliersi la vita. I genitori del marito, che si stanno occupando di suo figlio, hanno dato un ultimatum a Khadija: se dice alla polizia di aver mentito, se dice che suo marito non abusa veramente di lei e se torna a casa allora potrà rivedere suo figlio. Se rifiuta, non lo vedrà mai più.

In un paese distrutto da decenni di guerre e povertà, la storia di Khadija mostra come le donne in Afghanistan stiano lottando per vivere dignitosamente. Evidenzia inoltre come, di fronte al misero sostegno del governo e ai sempre inferiori aiuti internazionali, le donne stiano cercando di intervenire per aiutarsi l’una con l’altra.

Non doveva andare così in Afghanistan, il paese di 35 milioni di abitanti in cui gli Stati Uniti hanno intrapreso una lunghissima guerra che era stata promossa, in parte, come “una lotta per i diritti e la dignità delle donne”. I Talebani hanno governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001, periodo in cui le donne erano praticamente invisibili nella vita pubblica, andare a scuola e lavorare era proibito. In un discorso via radio alla nazione del 2001, la allora First Lady Laura Bush, incoraggiò gli americani a “unirsi alle nostre forze e lavorare per garantire e mettere al sicuro la dignità e le opportunità di donne e bambini in Afghanistan.” Nel 2004, il presidente George W. Bush dichiarò la vittoria degli Stati Uniti.

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Turchia: Leila Khaled e Angela Davis scrivono a Leyla Guven

Nena News – 18 gennaio 2019 – di Chiara Cruciati – il manifesto

safe imageLeyla Guven, parlamentare dell’Hdp

La leader palestinese del Pflp e l’attivista per i diritti degli afroamericani sollevano le loro voci per la parlamentare dell’Hdp detenuta in Turchia e in sciopero della fame da 72 giorni: «Sei modello a tutte le donne»

Roma, 18 gennaio 2019, Nena News – Due donne per una donna, due simboli della lotta dei popoli per un simbolo della lotta di un popolo, due ex prigioniere politiche a una prigioniera politica: le voci di Leila Khaled e di Angela Davis si sono alzate, a poche ore di distanza, in solidarietà con Leyla Guven, parlamentare dell’Hdp, formazione della sinistra turca, imprigionata dal governo di Ankara da un anno per aver criticato l’operazione «Ramoscello di ulivo» contro il cantone curdo-siriano di Afrin e in sciopero della fame da 72 giorni.

Angela Davis, storica attivista dei diritti degli afroamericani, le ha dedicato una lettera sul New York Times: «Dopo aver dedicato anni della sua attività politica alla lotta contro le occupazioni illegali delle regioni curde da parte dello Stato turco, ora offre la sua vita come forma di protesta. Guven è di enorme ispirazione a chi nel mondo crede alla giustizia e alla liberazione».

Angela DavisAngela Davis

Davis ha poi ricordato l’identica condizione di migliaia di leader, membri e sostenitori dell’Hdp, detenuti in Turchia, e la chiusura imposta da Ankara al Free Women’s Congress curdo.

Il giorno prima erano arrivate le parole di Leila Khaled, combattente e icona del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: «Nelle prigioni turche e israeliane i rivoluzionari entrano in sciopero della fame per la libertà, la giustizia, per porre fine al sistema di potere che vuole spegnere le voci che vogliono democrazia.

Mia cara amica Leyla, la tua pazienza e la tua lotta sconfiggeranno la fame. Ti tengo la mano, sei modello a tutte le donne del mondo».

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Chi è Leyla Guven, l’attivista che rischia la vita per il popolo curdo

Lettera Donna – 18 gennaio 2019

safe imageDa due mesi è in sciopero della fame contro l’isolamento di Ocalan e il trattamento dei prigionieri politici. Le sue condizioni sono gravi. E hanno attivato la solidarietà di altre militanti in giro per il mondo.

Da oltre due mesi Leyla Guven ha scelto il digiuno come estrema forma di protesta contro il trattamento riservato dalla Turchia al popolo curdo

Come deputata del Partito democratico dei popoli in Turchia (Hdp) ha dedicato gran parte dei suoi sforzi politici nel corso degli ultimi anni alla lotta contro le invasioni e occupazioni militari nei confronti delle regioni curde e contro le ripetute violazioni dei diritti umani messe in atto dal regime di Recep Tayyip Erdoğan.

LO SCIOPERO PER RICHIAMARE L’ATTENZIONE SUI PRIGIONIERI POLITICI CURDI
Il suo impegno civile non è stato sufficiente ad arginare un’escalation che l’Occidente ha colpevolmente tollerato.

Ora ha scelto di offrire la sua vita in segno di protesta contro l’isolamento di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan e di altri prigionieri politici. Ma la sua salute rischia di essere sempre più a repentaglio. La deputata Ayse Acar Basaran ha sottolineato che la salute di Leyla Guven durante lo sciopero della fame è giunta al punto in cui la sua vita è in pericolo.

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