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Autore: Anna Santarello

TURCHIA, AVVOCATI SOTTO TORCHIO: LA PRESSIONE INTERNAZIONALE NON BASTA

Uiki – 15 settembre 2018

avvocati turchia fotoTempestivamente, alla vigilia di un processo che vede imputati 22 avvocati, è stata convocata ad Istanbul una conferenza internazionale sul diritto di difesa oggi in Turchia.
Ai primi di agosto scorso è stato revocato lo stato di emergenza imposto due anni fa, all’indomani del tentativo di colpo di stato.

Ritorno alla normalità dunque? E magari anche cancellazione dei decreti (decreti, si badi, e non leggi, provvedimenti dunque mai passati per il parlamento) massimamente autoritari e repressivi?
Niente affatto, purtroppo.

A parte il fatto che ben prima dell’emergenza era iniziato l’attacco agli avvocati e al diritto di difesa – ci ricordiamo tutti la scena degli avvocati picchiati e trascinati fuori dal tribunale nel 2013, ai tempi di Gezi Park – il presidente ed il parlamento, pochi giorni prima della revoca dell’emergenza, avevano passato norme che preventivamente salvavano la sostanza di quasi tutti i decreti emergenziali: il fermo e l’arresto senza possibilità di intervento del difensore è stato portato a 14 giorni consentendo così la pratica della tortura; si è tenuta ferma la videoregistrazione dei colloqui fra difensore e imputato detenuto; è stata ribadita l’impunità delle forze dell’ordine per i reati commessi durante o in occasione di manifestazioni.
È specialmente l’ampliamento della videoconferenza in udienza, la cui decisione è rimessa al giudice, che sembra allarmare particolarmente i colleghi turchi.
Né li consola il fatto che, per certi reati, in Italia, per esempio, la videoconferenza è prevista per legge e dunque non è possibile nemmeno tentare di convincere il giudice della sua inopportunità o illegittimità.

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IL SUMMIT NATO E IL FUTURO DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN

 ISPI  – Claudio Bertolotti – 13 luglio 2018

us nato end afghan combat mission 300x129I capi di stato e di governo si sono incontrati a Bruxelles l’11-12 luglio in occasione del 29.° Summit della NATO, a cui hanno preso parte i 29 paesi membri – per l’Italia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, accompagnato dai ministri Elisabetta Trenta(Difesa) ed Enzo Moavero Milanesi (Affari Esteri) –, 20 paesi partner e i rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, della banca mondiale e la rappresentanza parlamentare dei paesi NATO.

IL FOCUS DELLA NATO RIMANE IL FRONTE DELL’EST, MA CON UNO SGUARDO ANCHE A SUD

Dalla Readiness Initiative “Four-Thirties” – prevalentemente in funzione di capacità sul fianco orientale – alla mobilità militare, passando per l’Hub di Napoli e l’impegno contro il terrorismo attraverso una nuova missione di addestramento in Iraq e un maggiore sforzo a supporto dei partner dell’area mediorientale e nord africana, in particolare Tunisia Giordania. In un quadro di discussione generale in cui l’argomento cardine è stato l’impegno degli alleati al mantenimento della NATO attraverso una più equa condivisione degli oneri (burden-sharing), è stata anche discussa quella che dovrà essere la capacità operativa dell’Alleanza Atlantica in un’ottica di maggiore deterrenza e difesa. Questa la sintesi del summit della NATO il cui documento finale, che si basa sul consenso unanime dei 29 Alleati: un impegno di massima che tiene conto delle ambizioni e dei diversi interessi nazionali, in primis quello statunitense.

Tra i temi sul tavolo, non il principale ma certamente quello che tiene vincolata la NATO da ormai 18 anni, la guerra in Afghanistan e l’impegno per il futuro dell’Alleanza con il governo di Kabul.

L’AFGHANISTAN RIMANE NELL’AGENDA DELLA NATO FINO AL 2024

L’ultimo Summit era stato quello di Varsavia, a luglio 2016, e in tale occasione la questione afghana era già stata posta in secondo piano, in un’ottica del progressivo disimpegno – la “transizione irreversibile” – annunciato quattro anni prima dall’allora presidente Barack Obama, in occasione del Summit NATP di Chicago del 2012. Un disimpegno formale a cui si è affiancato l’onere concreto di continuare ad assistere l’Afghanistan, in termini di risorse economiche materiali, sino al 2020 attraverso il proseguimento di “Resolute Support“, la missione di addestramento, assistenza e consulenza a favore del governo afghano e, in particolare, delle sue forze di sicurezza.

Il 29.° Summit di Bruxelles, in linea con gli indirizzi e gli impegni precedenti, si è chiuso il 12 luglio con un nuovo incontro sull’Afghanistan al termine del quale sono stati confermati gli impegni precedenti e ne sono stati formalizzati di nuovi. A fronte della dichiarazione formale di intenti, ciò che più premeva agli Alleati era la conferma dell’impegno della NATO in Afghanistan sino a tutto il 2024, impegno contenuto al punto n.53 (di 79) della dichiarazione congiunta. Così è stato. Un esito certamente scontato, ma la posizione ufficiale dell’Alleanza è un passaggio formale necessario che andava espletato attraverso il manifesto e unanime consenso.

Molto soddisfatto il governo afghano, presente a Bruxelles con i due massimi rappresentanti – il presidente Ashraf Ghani e il primo ministro esecutivo Abdullah Abdullah –, che ottiene molto: il rinnovo fino al 2024 del sostegno economico all’Afghanistan, attualmente stabilito nella cifra di 3 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 da parte della comunità internazionale, di cui 1,5 a carico dell’Unione Europea, e altri 5 miliardi a carico degli Stati Uniti, dei quali 4 destinati al mantenimento dell’apparato di sicurezza e difesa e 1 per lo sviluppo di progetti di assistenza civile.

Ossigeno per le casse di uno stato le cui entrate annuali derivano al 70 percento dagli aiuti internazionali e il cui bilancio è impegnato al 42 percento da spese per la difesa.

Dunque dalla “transizione irreversibile” alla conferma di una presenza militare di lungo termine che prevede, oltre al supporto finanziario necessario al mantenimento dell’apparato di difesa e sicurezza, anche la rimodulazione del dispiegamento di truppe sul terreno, tra chi si è impegnato ad aumentarlo e chi, invece, vorrebbe ridurre la presenza di proprie truppe sul terreno.

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AFGHANISTAN: PUBBLICATO NUOVO BILANCIO ONU SU VITTIME CIVILI.

Sicurezza Internazionale – 15 luglio 2018

imagesIl numero di civili uccisi in Afghanistan ha raggiunto una nuova vetta record nei primi sei mesi del 2018, nonostante il cessate-il-fuoco di giugno, anche per via di un intensificarsi di attacchi kamikaze rivendicati dallo Stato Islamico.

In base all’ultimo rapporto sul bilancio di vittime e feriti, pubblicato dalla Missione Assistenza dell’Onu in Afghanistan, domenica 15 luglio, le morti sono aumentate dell’1%, raggiungendo quota 1.692, sebbene il numero di feriti sia calato del 5%, attestandosi a quota 3.430. La morte di civili, in generale, si è ridotta del 3%. Tuttavia, a causa di violenti scontri che hanno interessato l’intera nazione nel primo semestre dell’anno, e a causa dei numerosi attentati suicidi nella capitale Kabul e nelle principali città quali Jalalabad, il rapporto pone l’accento sulla precaria situazione di sicurezza attuale dell’Afghanistan. Preoccupante è anche l’incremento delle attività condotte dallo Stato Islamico nel territorio, riscontrato da un raddoppiamento del numero delle vittime a Nangarhar, provincia orientale del Paese che ha come capoluogo Jalalabad, dove il gruppo terroristico ha condotto una serie di attacchi nei mesi recenti.

Il rapporto informa inoltre che le cause principali delle uccisioni continuano ad essere gli scontri via terra tra le forze di sicurezza governative nazionali e i militanti terroristi, con 360 morti e 1.134 ferimenti; tuttavia, il dato positivo è che si è registrato un calo di questo tipo di morti del 18%. A seguire, si annoverano ordigni esplosivi nascosti al ciglio delle strade, e attentati kamikaze. Questi ultimi hanno causato un aumento del 22% delle vittime rispetto allo stesso arco semestrale del 2017. Di questo tipo di attacchi, Il 52% delle vittime è stato attribuito allo Stato Islamico, mentre il 40% ai talebani.

Allo stesso tempo, sono invece aumentate nettamente, del 52%, le vittime causate da raid aerei, i quali si sono intensificati in particolare per via della strategia americana di indurre i talebani alla resa; si contano complessivamente 353 morti vittime, delle quali 149 sono morte e 204 sono rimaste ferite.

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LA CASA BIANCA A SORPRESA: “NEGOZIATE CON I MULLAH”

Il Manifesto – 17 luglio 2018 di Emanuele Giordana

17desk2 taliban afghanistan copyAfghanistan. Per gli Usa la guerra costa soldi e vite di soldati mentre proseguono i sit-in pacifisti a Kabul

Qualche giorno fa la stampa afgana ha polemizzato con Ashraf Ghani perché il presidente non aveva incontrato, durante l’ultimo vertice della Nato, Trump che tra l’altro – al contrario di quanto avveniva con Karzai – non lo ha mai ricevuto alla Casa bianca. Eppure, se è vero quel che riporta il New York Times citando per ora fonti anonime, qualcosa sta cambiando radicalmente nella politica americana nella guerra più lunga del secolo.

PER IL QUOTIDIANO il presidente avrebbe autorizzato i suoi diplomatici a cercare la strada per avere colloqui diretti con la guerriglia. Una cambio di strategia a 360 gradi visto che finora i negoziati diretti – come chiedevano i talebani – son sempre stati rifiutati da tutte le amministrazioni americane. Agli inizi del mese il segretario di Stato Mike Pompeo è stato a Kabul e con la sua visita sarebbe iniziato un lavorio diplomatico sotto traccia.

È una novità relativa perché in realtà, anche se mai ufficializzati, incontri tra funzionari americani e talebani ci sono già stati ma, questa volta, non si tratterebbe di cercare contatti informali. Questa volta gli americani sarebbero disposti – se l’indiscrezione diventerà realtà – a sedersi al tavolo con la guerriglia in turbante. Una svolta clamorosa che potrebbe mutare davvero il corso della guerra. Le domande legittime sono due: la prima – senza risposta – è cosa passa davvero per la testa a Trump, uomo ondivago e umorale disposto a contraddire ciò che ha detto il giorno prima.

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AFRIN: LE VOCI DEI PROFUGHI E DEI COMBATTENTI

Uikionlus – 17 luglio 2018

afrin2 700x325 599x275In una stanza della guest house di Kobane un uomo mi racconta della città da cui è dovuto andarsene, Afrin.

«Non mettere il mio nome. La mia famiglia, i miei genitori e fratelli, sono ancora là. Gli islamisti e i turchi arrestano tutti coloro che sostengono l’autonomia democratica del Rojava e i loro parenti, li torturano e li uccidono».

Le notizie degli omicidi, degli stupri e delle torture escono dalla sua bocca una dopo l’altra. Un elenco dell’orrore che sembra non finire mai.
«I jhiadisti hanno costretto una ragazzina di dodici anni a sposare uno di loro».

«Gli abitanti dei villaggi yezidi di Arsh Kabor, Fakyr e Fatyran sono stati convertiti a forza all’Islam».

«Il sito archeologico di Andare è stato bombardato e poi distrutto».

«Nel villaggio di Arin Mirkan hanno bruciato gli ulivi per cacciare i contadini».

«A Shara hanno cacciato molta gente per far posto agli islamisti e alle loro famiglie venute dalla Ghouta».

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AFGHANISTAN NEL CAOS: PROVE DI GUERRA CIVILE PRIMA DELLE ELEZIONI

Di Claudio Bertolotti per ISPIonline – 5 luglio 2018

bombContinua a preoccupare la situazione afghana, al secondo giorno di proteste a Maimanah, capitale della provincia di Faryabe caposaldo del gruppo di potere uzbeco, in seguito all’arresto di Nizamuddin Qaisari, comandante della forza di polizia locale: sigla sotto la quale si nasconde una milizia privata fedele al vice presidente afghano e signore della guerra Rashid Dostum, in esilio in Turchia e accusato di crimini di guerra, tortura e violenza nei confronti di avversari politici.

Proteste di massa contro il governo, alcune fonti riportano circa cinque mila manifestanti, che hanno portato all’assalto del municipio cittadino e della sede dell’NDS, i servizi segreti governativi; un’escalation di violenza che ha portato le forze di sicurezza afghane a sparare sulla folla di civili, provocando la morte di almeno tre persone e il ferimento di altre quindici. Un fatto certamente importante, che segue altri momenti di tensione tra i gruppi di potere locali vicini a Dostum, la milizia armata a lui fedele e le istituzioni governative di Kabul; l’ultimo episodio è della fine di maggio, quando lo stesso comandante Qaisari aveva minacciato, se non fosse stata garantita la sicurezza dell’area contro l’avanzata dei talebani, di prendere le armi contro le forze governative. Da qui la decisione del suo arresto, avvenuto il 3 luglio con l’accusa di sabotaggio di operazioni militari governative, e il suo trasferimento immediato a Kabul per evitare il prevedibile assalto dei suoi fedeli alla prigione di Maimanah.

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BERLINO-KABUL, RIMPATRIO FATALE

Dal blog di Enrico Campofreda – 12 luglio 2018

img 2870 3Non conosciamo tuttora il nome del migrante respinto che ha deciso di farla finita appena ricondotto a Kabul. Si sa che era un ventitreenne e da otto viveva in Germania. Su di lui e altri 68 rifugiati in terra tedesca era calata la mannaia del ministro di ferro Seehofer, un Salvini teutonico che odia gli stranieri disagiati e sul tema tiene sotto scacco la cancelliera Merkel.

Il giovane sicuramente era giunto nell’area europea attraverso le rotte balcaniche e ancor prima iraniano-turco-greca,  con le varianti del caso verso sud o nord del nostro continente, come hanno fatto altri disperati le cui storie sono finite anche romanzate sugli scaffali delle librerie.

Una la conosciamo personalmente per aver incontrato anni addietro l’autore e protagonista (Ali Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, Feltrinelli) in un centro per rifugiati. Vicenda a lieto fine questa, sebbene l’Ali piccino, fuggito perché i suoi genitori erano morti sotto le bombe delle infinite guerre afghane, abbia perso il fratello maggiore durante la personale odissea.

Ma fra le fughe dal travagliato Paese dell’Asia centrale di fine millennio e le attuali ci sono di mezzo gli interventi armati statunitense e della Nato, l’Enduring Freedom e l’Isaf Mission che dovevano pacificare la nazione, portare la democrazia, liberare la popolazione dalle grinfie di Signori della guerra e talebani.

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ELEZIONI 24 GIUGNO 2018: DELEGAZIONE CISDA ONLUS

Il giorno 24 giugno 2018 sei membri del Cisda hanno partecipato alle elezioni presidenziali turche nel ruolo di Osservatori Internazionali. Invitati dal Partito Democratico dei Popoli (HDP), sono stati assegnati alla provincia di Batman. Secondo il responsabile degli Osservatori Internazionali dell’HDP di Diyarbakir, nel Kurdistan turco sono stati 136 Osservatori Internazionali indipendenti, appartenenti a partiti di sinistra o organizzazioni della società civile, provenienti da 11 paesi e distribuiti in 15 province. Più del 90% di loro ha subito arresti, fermi, espulsioni.

Osservazioni.
Siamo stati divisi in due gruppi: uno, accompagnato dal nostro referente locale Ali, è andato a osservare sette seggi nella provincia di Batman, mentre l’altro è andato con il responsabile della sezione giovani dell’HDP Yekta a Hasankeyf e in due altri seggi. Non parlando turco, siamo stati affiancati da un interprete che trasmetteva le nostre domande ai votanti fuori dai seggi e ci riportava le loro risposte. Un avvocato del partito ci ha raggiunto nel corso della giornata per seguire la procedura.
Gli attivisti del partito HDP, filocurdo, sostengono che lo scopo del partito al governo AKP sia di limitare l’accesso al voto ai residenti della zone a maggioranza curda, poiché la maggior parte di loro voterebbe l’HDP, ed è per denunciare questo fatto che hanno ritenuto opportuno affiancarsi di Osservatori Internazionali.
La mattina, mentre ci stavamo recando al punto d’incontro del partito, siamo stati fermati dalla polizia che ha controllato tutti i passaporti, senza però crearci alcun problema.

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CRISTINA CATTAFESTA A RADIO POPOLARE

Da Radio Popolare – 7 luglio 2018

Podcast

a958e4c5 9be0 4076 aab7 8ea8113e8e87 768x401 copyUn’intervista da ascoltare, #CristinaCattafesta a Radio Popolare: “Fare terra bruciata della solidarietà internazionale, credo sia stato proprio un messaggio”.

L’hanno caricata su una macchina e l’hanno portata subito in un posto di polizia. Il suo primo colloquio l’ha avuto il giorno dopo in cui le hanno spiegato le motivazioni del fermo, trascorsa la notte in una cella.
Le hanno immediatamente sequestrato il telefono.

A Gaziantep, il centro di espulsione in cui era trattenuta é composto da più piani.
Sul suo, il terzo, ci sono famiglie di daesh, mogli di daesh: tra queste, una ragazza tedesca di 19 anni reclusa da 8 mesi.
Le loro stesse vittime sono costrette a star loro accanto: famiglie curde, alcune yazide, del nord Iraq. Tra loro, anche persone in condizioni di estrema fragilità.

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ELEZIONI IN TURCHIA – IL DIARIO DI VIAGGIO LASCIATO A METÀ

Da meltingpot.org – 7 luglio 2018

Kurdistan map
Cartina delle aree a maggioranza curda (Fonte: nybooks.com)

Racconto di un Osservatore Internazionale alle elezioni presidenziali nel Kurdistan turco

Siamo arrivati in Kurdistan di sera, per le strade di Diyarbakir c’è un’atmosfera tranquilla. La nostra guida improvvisata ci spiega, con tre parole d’inglese recuperate da qualche parte, che le mura della città sono le più lunghe del mondo dopo la muraglia cinese e che danno al centro storico la forma di un pesce. Ci crediamo poco (Diyarbakir ha la forma di una manta, forse, o magari è un’aquilone di quelli professionali) e finiamo a mangiare in un ristorante molto chic dove “vegetariano” sembra una parolaccia o il nome di un guerriero nemico; sceglieremo per tutto il viaggio di sacrificare l’animale pollo per trovare un compromesso con le scelte etiche di ciascuno.

Siamo stati invitati come Osservatori Internazionali dal partito HDP (Partito Democratico dei Popoli), partito filo curdo all’opposizione, per le elezioni anticipate, presidenziali e parlamentari che si svolgeranno il 24 giugno in Turchia. Era previsto che Erdogan vincesse rimanendo in carica, nella sua nuova coalizione con il partito ultra nazionalista MHP, quindi tutto si giocava sulle percentuali di voti ottenuti, che possono dare più o meno margine di manovra al suo progetto politico. Come era già successo nel 2015, si temevano brogli elettorali di grande portata.

Negli ultimi due anni il governo turco si è preoccupato di mettere in prigione 80 sindaci delle provincie curde favorevoli al partito di opposizione, numerosi oppositori politici e studenti, arrivando ad arrestare nel novembre 2016 Selahattin Demirtas, leader e candidato dello stesso HDP, che ha seguito le elezioni dal carcere. Nonostante una campagna elettorale decisamente compromessa, i sostenitori dell’HDP, decimati ma appoggiati da una vasta fetta di popolazione curda e non solo, si sono dati da fare per portarla avanti al meglio, al fine di passare la soglia di sbarramento del 10%, una delle più alte al mondo, per entrare in Parlamento.

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