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Autore: Anna Santarello

Aumenta il sostegno talebano ai terroristi del TTP

In un nuovo rapporto, l’ONU afferma che i talebani afghani aumentano il loro sostegno ai terroristi anti-Pakistan del TTP

Ayaz Gul, VOA, 11 luglio 2024

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Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite afferma che il Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), un’alleanza di gruppi estremisti, è “il più grande gruppo terroristico” in Afghanistan e riceve un crescente sostegno dai leader talebani del paese per condurre attacchi transfrontalieri in Pakistan.

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Perché i talebani ricorrono allo stupro per mettere a tacere le donne?

Il racconto della caporedattrice di Zan Times sulla sua esperienza di donna che ha rischiato di essere stuprata a Kabul

Zahra Nader, Zan Times, 5 luglio 2024

kabul2 1 2048x1365Lo stupro è la cosa peggiore che possa mai capitare a una donna in Afghanistan. Lo so perché sono una donna afghana cresciuta a Kabul.

C’è sempre stato un coprifuoco non scritto per tutte le donne in Afghanistan: non dovevamo uscire dopo le 18:00. Non mi chiedevo davvero perché, ma sono cresciuta accettando che tornare a casa entro le 18:00 facesse parte dell’essere una donna.

Una sera del 2016, ho infranto il coprifuoco. Dopo aver finito il lavoro, sono andata a trovare i miei ex colleghi a Kart-e-Char, nella parte occidentale di Kabul. Quando ho lasciato i miei colleghi per tornare a casa, erano passate le 18:00. Il viaggio richiedeva due corse: una da Kart-e-Char a Kot-e-Sangi e una da lì a casa mia a Khoshal Khan. La prima corsa non è stata difficile perché c’erano ancora alcune donne in giro e il cielo non era troppo scuro. Quando sono arrivata a Kot-e-Sangi le donne sembravano essere scomparse dalle strade. Mi sentivo sola e spaventata. Mentre camminavo verso la stazione, diversi tassisti hanno iniziato a offrirmi dei passaggi. “Ehi bellezza, posso darti un passaggio?”, ha detto uno di loro dal finestrino della sua auto. Il solito modo di molestare una donna sola a Kabul.

Il mio cuore batteva forte. Durante gli anni in cui ho vissuto a Kabul ho sentito molte storie su donne scomparse per strada e poi trovate violentate e morte. Non avevo paura di essere uccisa, ero terrorizzata di essere violentata. Nella cultura in cui sono cresciuta, non c’e niente di peggio di una donna che viene violentata. Non è solo la sua vita, ma anche quella della sua famiglia e la loro reputazione a essere in gioco.

“Cosa farei se succedesse a me? Mi ucciderei”

“Cosa farei se succedesse a me?” Questa domanda mi è tornata in mente molte volte. “Mi ucciderei”. Era l’unica risposta che avevo. Nella mia mente, la mia vita sarebbe finita se fossi diventata vittima di stupro.

Quella sera tardi a Kabul ho valutato le mie opzioni per tornare a casa in sicurezza. Ho trovato un taxi con una passeggera che viaggiava con un uomo. Mi sono seduta sul sedile posteriore accanto alla donna. Dopo alcune fermate, la coppia è arrivata a destinazione ed è scesa dall’auto. Sono rimasta sola con il tassista. Ha girato lo specchietto retrovisore per vedermi. Per me, era un segnale che dovevo scendere dall’auto prima che dicesse qualcosa. Gli ho chiesto di accostare. A quel punto, ero a metà strada verso casa, ma c’era ancora molta strada da fare. Mi sono fermata all’angolo della strada, cercando un’auto con una passeggera. Dopo 15 minuti ho visto un furgone con una passeggera che aveva tre bambini con sé. Provando un senso di sollievo, ho alzato la mano per far segno che avevo bisogno di un passaggio. Si sono fermati. L’autista mi ha chiesto di sedermi sul sedile anteriore. Ho obbedito. Solo tre fermate dopo, la donna e i suoi bambini sono scesi dal veicolo. Di nuovo ero sola, questa volta con due uomini, uno dei quali era incaricato di riscuotere il biglietto. “Abiti qui vicino?” mi ha chiesto l’autista. Ho annuito. “Possiamo accompagnarti a casa se ci dai il tuo numero di telefono”. Il mio cuore batteva forte e gli ho chiesto di fermare la macchina immediatamente. Ha continuato per qualche metro e poi ho iniziato a tremare e a urlare perché si fermasse. Alla fine si è fermato e sono scesa lanciando il biglietto in faccia all’autista. Ero ancora a un chilometro da casa, ma ho deciso di percorrere a piedi la distanza rimanente. Durante quel viaggio solitario, diversi autisti si sono fermati e mi hanno invitato a fare un giro con loro. Quella notte ho pianto per tutto il tragitto verso casa, odiando il mio genere, il mio essere una donna in Afghanistan.

Questo è successo otto anni fa, un periodo in cui la presa del potere da parte dei talebani sembrava una possibilità remota. Ora le donne hanno persino paura di camminare da sole alla luce del giorno. Non è loro permesso di ricevere un’istruzione. Non è loro permesso di guadagnarsi da vivere. Sono letteralmente agli arresti domiciliari perché sono nate donne.

Stupro come arma per far tacere le donne

Lo stupro è ancora il peggior incubo per molte donne in Afghanistan. Ma per alcune, quell’incubo si realizza nel modo peggiore possibile: nelle prigioni dei talebani, dove nessuno può aiutarle. La scorsa settimana abbiamo raccontato di come alcune giovani donne arrestate per le regole del “cattivo hijab” dei talebani siano state abusate sessualmente e stuprate nelle loro prigioni. Questa settimana, Rukhshana Media e The Guardian hanno riferito di aver visto prove video di una donna afghana per i diritti umani stuprata e torturata in gruppo in una prigione talebana da uomini armati. Il video era stato inviato alla donna, che ora è fuggita dall’Afghanistan e vive in esilio. Era ovviamente un tentativo dei talebani di ricattarla per farla tacere; la minaccia era chiara: resta in silenzio o il video verrà diffuso.

Che tipo di regime produrrebbe prove del suo crimine e le invierebbe alla vittima? Un regime che sa che quando viene diffuso il video di una donna che viene stuprata è la sopravvissuta che viene incolpata e distrutta. Lo dico con la certezza di una donna afghana che sa cosa significa lo stupro nella nostra cultura. Non è una scelta ingenua da parte dei talebani usare lo stupro come arma per mettere a tacere le voci delle donne. I talebani sanno molto bene cosa fa lo stupro a qualsiasi donna che lo subisce. Sanno anche come la cultura afghana tratta le sopravvissute allo stupro. Ecco perché creare un video del genere è una mossa strategica dei talebani per mettere a tacere le voci critiche. “Quello che ho vissuto in prigione è stato orribile, ma sai cosa c’è di peggio? È che non possiamo parlare delle nostre esperienze”, è così che un’attivista mi ha descritto la sua situazione.

L’onore della famiglia dipende dalla purezza delle sue donne

Nella cultura afghana ci sono cose che sappiamo ma non ci è permesso mettere in discussione o anche solo chiedere la loro logica. Una è che l’onore di una famiglia dipende dalla purezza delle sue donne: i nostri corpi non ci appartengono e non ci è permesso prendere decisioni sui nostri corpi. Siamo i portatori dell’onore della nostra famiglia e se, Dio non voglia, una donna viene violentata, l’onore della sua famiglia viene distrutto. Spesso le nostre famiglie sono più preoccupate per il loro onore che per il nostro benessere.

Quando i giornalisti dello Zan Times hanno raccontato la storia ” Donne accusano i talebani di violenza sessuale dopo l’arresto per ‘cattivo hijab “, diverse donne hanno raccontato di essere state abusate dalle loro famiglie dopo essere state rilasciate dalla prigione talebana. “I miei genitori mi incolpano sempre, dicendo: ‘Ti avevamo avvisata di non uscire. Ora la nostra reputazione sarà distrutta se i nostri parenti scopriranno che sei stata arrestata dai talebani’”, ci ha detto una giovane donna. Ci ha detto di essere stata abusata sessualmente dai talebani, ma non ha potuto rivelarlo alla sua famiglia ed è per questo che ha cercato di uccidersi due volte. Un’altra donna ha rifiutato di essere intervistata perchè la sua famiglia l’avrebbe punita se avessero saputo che aveva parlato ai giornalisti della sua esperienza nella prigione talebana.

Punite per essere state stuprate

Durante il nostro reportage, abbiamo anche sentito un’accusa secondo cui una donna sarebbe stata uccisa dal padre dopo essere stata rilasciata dalla prigione talebana. La sua famiglia sospettava che fosse stata violentata dai talebani, ci ha detto un amico della vittima (non abbiamo potuto parlare con la famiglia).

Non è una bugia che il numero di “omicidi d’onore”, come vengono chiamati nei paesi musulmani, sia alto in Afghanistan. Sfortunatamente, nel mio paese le sopravvissute allo stupro vengono punite per essere state stuprate. Sono accusate di aver permesso che lo stupro avvenisse. Ma questo modo di pensare non è esclusivo dell’Afghanistan o di altri paesi in via di sviluppo. Anche nelle nazioni occidentali, le donne sopravvissute allo stupro vengono spesso accusate di essere state stuprate. Dopo tutto, l’Afghanistan fa parte di questo pianeta e ciò che accade qui non è molto diverso da altrove.

Una cultura che incoraggia ad abusare delle donne

La grande differenza per le donne in Afghanistan è che le sopravvissute allo stupro non hanno un posto dove andare. I talebani hanno sistematicamente smantellato tutti i sistemi di supporto per le sopravvissute allo stupro. Quindi, sono lasciate in balia delle loro famiglie. Sfortunatamente, lo dico con sicurezza e rammarico, non abbiamo molte famiglie che sosterrebbero le sopravvissute allo stupro. Nella nostra cultura, lo stupro è visto come una macchia e l’unico modo in cui la nostra società ha imparato a gestirlo è quello di spazzare via le sopravvissute dalla faccia della Terra.

Questa triste verità è ciò che ho riportato durante il mio periodo da giornalista a Kabul e che continuo a raccontare. Voglio dire che è difficile dire la verità, ma so che la verità raramente è comoda. Scrivere questo pezzo non è facile perché significa che devo accettare che la nostra cultura incoraggia i talebani e consente loro di abusare delle donne. Significa ammettere che, invece di concentrarsi sui colpevoli e trovare modi per renderli responsabili, molte famiglie sono impegnate a nascondere perché e come le loro donne sono state arrestate e imprigionate dai talebani. Finora, l’unico vincitore sono i talebani e gli unici perdenti sono le donne che desiderano una vita in libertà e dignità.

Imparare a vedere le sopravvissute come esseri umani

Spesso piango e resto senza parole quando una donna mi racconta la sua esperienza di stupro da parte dei talebani. Non ho parole per confortarla e nessun modo per rendere visibile il suo dolore. Sono ancora quella donna che ha paura di essere stuprata, anche se ho imparato che possiamo cambiare il modo in cui guardiamo alla vita e il modo in cui interpretiamo le cose. Invece di pensare che lo stupro sia la fine della vita, possiamo imparare a vedere le sopravvissute allo stupro come esseri umani la cui umanità è stata brutalmente violata. Nessuna vittima desidera mai essere una vittima. Lo diventano in circostanze che non sono scelte da loro.

Credo che se l’umanità significa qualcosa, dovrebbe significare sostenere e prendersi cura di coloro che sono stati feriti e violati nel peggior modo possibile. Dovrebbe significare dar loro il potere di ottenere giustizia e di chiamare a rispondere i responsabili. Cambiare il modo in cui guardiamo le cose richiede che mettiamo in discussione lo status quo, quelle convinzioni che un tempo accettavamo come normali. Non c’è nulla di normale in una cultura che incolpa la vittima per essere stata violata.

Zahra Nader è caporedattrice di Zan Times. 

 

“Fatwa importante”: vietato insegnare alle donne anche a casa

Sono passati più di 1.000 giorni da quando i Talebani hanno vietato a tutte le ragazze al di sopra della sesta classe di frequentare le scuole
RawaNews, 19 giugno 2024

hafiz ziaullah hashimi of higher education spokesperson of taliban

Hafiz Ziaullah Hashimi, portavoce del Ministero dell'[anti]Istruzione superiore dei talebani, ha condiviso un videoclip dello sceicco Abdul Ali Deobandi sul suo profilo X, definendolo una “fatwa importante”. Nel video lo sceicco Deobandi afferma che è proibito insegnare alle donne anche a casa, perché porta a scrivere lettere agli uomini, cosa che lui considera peccaminosa. Una fatwa è un parere legale islamico emesso da uno studioso qualificato su questioni religiose o legali specifiche.

Il discorso completo dello sceicco Ali Deobandi:
“Che una donna sia giovane o vecchia, che faccia parte della famiglia o sia un’estranea, le è proibito partecipare alle preghiere della congregazione perché è causa di immoralità. Questo è un periodo di tentazioni e le persone sono corrotte. Quindi, far imparare alle donne la scrittura causa corruzione. Con questa abilità, impara l’affetto e inizia a inviare lettere alle persone, come viene fatto con i telefoni cellulari usati nelle case, attraverso i quali le donne stabiliscono relazioni inappropriate che aumentano il vizio e l’immoralità sulla terra. Così, alle donne è proibito imparare a leggere e scrivere anche a casa, questa capacità non è accettabile per le nostre donne. Se le persone chiedono perché ci sono scuole nei paesi islamici dove le donne imparano a leggere e scrivere, questi cosiddetti paesi islamici sono islamici solo di nome; sono sotto l’influenza dei non credenti.”

Sono trascorsi più di 1.000 giorni da quando i talebani hanno chiuso tutti i centri educativi per le donne e hanno vietato alle ragazze sopra la sesta elementare di frequentare la scuola.

 

«Noi donne afghane vittime di un vero e proprio apartheid di genere»

L’attivista Metra Mehran a Roma ha incontrato esponenti delle istituzioni per chiedere che l’Italia con la sua Rappresentanza Permanente all’Onu supporti la battaglia per arrivare al più presto al riconoscimento ufficiale del reato di apartheid di genere

Agnese Palmucci, Avvenire, 5 luglio 2024

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«In Afghanistan, come donne, siamo vittime di un vero e proprio apartheid di genere.

Un meccanismo di segregazione e discriminazione autorizzato per legge dal regime dei taleban – ripete Metra Mehran – Ora chiediamo che la comunità internazionale ascolti il grido delle donne e riconosca come crimine l’operato dei taleban».

Mehran è un’attivista afghana per i diritti delle donne, consulente per l’Atlantic Council e ricercatrice per le Nazioni Unite. «A Roma in questi giorni ho incontrato esponenti delle istituzioni italiane per chiedere di avviare al più presto il processo per riconoscere l’apartheid di genere come crimine a livello nazionale, seguendo quanto hanno già fatto Paesi come Canada, Australia, Gran Bretagna – ha aggiunto l’attivista, in esilio negli Stati Uniti dal 2021 e promotrice della campagna #EndGenderApartheid -. Speriamo che l’Italia con la sua Rappresentanza Permanente alle Nazioni Unite ci supporti in questa battaglia, così da arrivare al più presto a una risoluzione da parte dell’Onu per riconoscere ufficialmente come reato la negazione strutturale dei diritti delle donne in Afghanistan e Iran».

Grazie alla mediazione della Fondazione Pangea Onlus, che si occupa di donne afghane, Mehran ha incontrato a Roma anche la società civile. «Siamo l’unico Paese al mondo in cui i diritti fondamentali sono negati alle donne per legge. Siamo bandite dal lavoro, dalla scuola, dalla vita sociale». Dall’agosto 2021, con il ritorno dei taleban, le donne non hanno mai smesso di denunciare pacificamente la loro condizione, dentro e fuori l’Afghanistan. «Molte di noi, nel Paese, continuano ad essere uccise, torturate, portate via da casa nella notte, stuprate per aver manifestato. Nel marzo 2023 con un gruppo di afghane e iraniane in esilio abbiamo deciso così di lanciare una campagna internazionale contro il gender apartheid e in molti nel mondo ci hanno seguito».

Contro il tradimento dell’Onu

I primi giorni di luglio si è tenuto a Doha il terzo turno di colloqui sull’Afghanistan promossi dall’Onu con i taleban, seduti al tavolo, che hanno ottenuto l’esclusione delle donne afghane dal meeting. «Noi continuiamo a vedere questo atteggiamento dell’Onu come un tradimento, ma ci aspettiamo che la comunità internazionale ora, grazie alla grande mobilitazione globale, non possa più ignorarci. Questo è il risultato della resistenza delle donne in Afghanistan, in Iran e in tutto il mondo». Se la segregazione delle donne venisse codificata come crimine dall’Onu, il regime talebano sarebbe perseguibile dal diritto internazionale. «In più questa decisione impedirebbe che il regime talebano venga riconosciuto prima o poi come legittimo governo dell’Afghanistan. Questo darebbe speranza al nostro popolo, lo aiuterebbe a resistere contro l’oppressione dei taleban, sapendo che il mondo è dalla nostra parte».

 

Doha 3: la “prima volta” dei talebani

Comunicato CISDA, 6 luglio 2024  

Fare finta che sia una cosa norfoto 6 luglio24male: è così che si accetta e si fa accettare quello che prima sembrava abominevole. Basta non parlarne, non nominarlo, parlare d’altro.

Parlare di banche, droga, aiuti… cose “normali”, quotidiane, di vita e così far dimenticare l’orrore che subiscono quotidianamente le donne in Afghanistan, sottoposte al regime fanatico dei talebani e della loro ideologia, così estrema e aberrante che persino altri regimi estremisti ne suggeriscono un limite. L’Afghanistan è scomparso nei telegiornali e dalla politica internazionale; nessuno ne parla più, come invece è accaduto dopo la presa di potere dei talebani, quando i paesi “donatori” piangevano la tragica situazione del popolo affamato e delle donne schiavizzate e regalavano soldi e parole scandalizzate, come avevano fatto nei venti anni di occupazione in cui avevano sostenuto governi così incapaci e corrotti da non avere credibilità nemmeno per loro.

La distratta condanna morale e le finte sanzioni economiche comminate al governo talebano – ogni mese l’ONU invia in Afghanistan 40 milioni di dollari – non sono state in grado di ammorbidire le leggi crudeli contro le donne e l’Onu oggi dichiara di nutrire preoccupazioni per i crimini nei confronti delle donne e della loro resistenza per poi tirare dritto sulla necessità impellente di aiutare la popolazione e contrastare il traffico di droga. Si sta cercando di ottenere la disponibilità dei talebani a dialogare con la cosiddetta comunità internazionale e far sì che gli interessi dell’Occidente in Afghanistan continuino a essere tutelati.

I talebani chiedono e l’Onu acconsente

In questo contesto, nei giorni scorsi ha avuto luogo la III Conferenza di Doha, un incontro internazionale che ha segnato una svolta nelle politiche occidentali verso quel paese: organizzata dall’Onu per normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche con le economie occidentali, che in realtà non si erano mai interrotte per alcuni paesi come Cina, India, Asia centrale, Russia, Iran.

La novità è stata la partecipazione diretta dei talebani, che nelle due precedenti Conferenze di Doha non avevano accettato di partecipare, grazie all’accoglimento delle loro condizioni, finora sempre escluse, che hanno imposto di invitare solo loro come rappresentanti del popolo afghano e di non affrontare il problema dell’oppressione e dell’esclusione sistematica delle donne dall’istruzione e dalla società.

Condizioni umilianti, non solo per le donne afghane ma anche per tutta la comunità democratica internazionale, ma accettate dall’Onu e da tutti gli stati partecipanti (seppure con il dissenso del Canada). Accettazione molto criticata da varie associazioni afghane di donne, da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty e addirittura da Richard Bennett, “relatore speciale Onu sui diritti umani in Afghanistan, (che non ha partecipato all’incontro) e che sono costate all’Onu una grossa perdita di credibilità circa il suo ruolo di difensore dei diritti umani. Persino il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW) ha espresso profonda preoccupazione per l’esclusione di donne e ragazze dall’incontro di Doha.

La “prima volta” dei talebani… un passo verso il riconoscimento

Apparentemente questa conferenza non ha sortito risultati importanti. Non ci sono stati commenti ufficiali entusiasti alla conclusione dell’incontro, niente toni trionfalistici. Rosemary DiCarlo, sottosegretaria generale dell’Onu per gli affari politici e di pace, che ha presieduto il meeting a nome dell’Onu, ha fatto la sua conferenza stampa in tono minore, quasi in sordina.

Ha messo in evidenza che non c’è stato alcun riconoscimento ufficiale del governo de facto, che non sono state tolte le sanzioni, e che quindi i talebani non hanno ottenuto quanto avevano chiesto. Inoltre ha dichiarato di aver sostenuto in tutti i modi i diritti delle donne, sia direttamente nei colloqui con i talebani, sia attraverso gli incontri, avvenuti a meeting concluso, con le donne che hanno accettato di parlare con lei (alcune si sono rifiutate per protesta), ma senza alcun risultato.

Si potrebbe dire che l’incontro sia finito con un nulla di fatto, dato che né i talebani hanno ottenuto il riconoscimento internazionale del loro governo e la revoca delle sanzioni internazionali, né l’Onu ha ottenuto il mitigamento dei decreti contro i diritti delle donne.

Ma invece un risultato importante c’è stato: è proprio ciò che DiCarlo ha chiamato, soddisfatta e orgogliosa, “la prima volta” dei talebani, il loro primo contatto ufficiale con l’Onu, promettendo che sarà solo l’inizio…

Il vero successo è invece tutto dei talebani ed è costituito proprio dall’essere stati ammessi a un incontro con l’Onu per la prima volta e alle loro condizioni, che l’Onu ha accettato pur di averli a Doha, soprassedendo all’apartheid subito dalle donne e tanto stigmatizzato dall’Onu stesso. Questa “prima volta”, tanto contrastata dalle donne e dagli attivisti per i diritti umani, rappresentava un successo già prima che la conferenza avesse luogo, per il fatto stesso di essere auspicata e cercata dall’Onu.

Mentre l’Onu svende i loro diritti, le donne in Afghanistan sono ancor più represse

Bennett aveva ben espresso il sentire di tutti gli oppositori al governo de facto dell’Afghanistan e delle organizzazioni di donne, dichiarando che la rinuncia ai loro diritti era un prezzo troppo alto da pagare per avere in cambio la normalizzazione dei rapporti con i talebani e l’ingresso nella cosiddetta comunità internazionale.

Un altro importante riflesso di questa visibilità internazionale che i talebani hanno ottenuto nel sedersi al tavolo dell’Onu alle loro condizioni è tutto interno. Le donne che resistono e continuano a protestare a rischio della vita ora saranno ancor più duramente represse grazie a una legittimazione di fatto che la comunità interazione ha regalato a chi devasta diritti delle donne e del proprio popolo.

Ma come giustifica l’Onu questa svendita dei diritti delle donne?

DiCarlo ha spiegato che purtroppo i talebani non si vogliono sedere al tavolo delle trattative se ci sono le donne, quindi l’Onu è stato costretto a lasciarle fuori dalla porta.

Questa frase, che fa passare questa scelta come un atto di realismo, in realtà dà per scontata la sconfitta della comunità internazionale nella difesa delle donne afghane, dimostra che ci si è già arresi al volere dei talebani, che non si vedono alternative.

Il vero messaggio che emerge da Doha3 sta nel dare per scontato che i talebani abbiano il controllo del paese, e nel riconoscere, di fatto, il loro governo, anche se lo si nega ufficialmente.

L’Onu si giustifica con la necessità di favorire lo sviluppo economico dell’Afghanistan al fine di aiutare il popolo affamato, come se bastasse dialogare con i talebani per convincerli ad avviare un “normale” processo di governo basato sui bisogni del popolo e non su quelli della sharia.

Ma non si vuole tener conto dei fatti: tutti gli aiuti finora inviati all’Afghanistan sono stati intercettati e taglieggiati dai talebani a beneficio dell’apparato statale e dei loro fedeli funzionari mentre poco o niente è arrivato nelle mani delle persone a cui erano destinati, a dimostrazione di quanto poco importi al governo talebano il benessere del suo popolo. Si è visto, per esempio, come si sono comportati in occasione dei terremoti e delle alluvioni che hanno distrutto interi territori e tolto tutto alla popolazione già stremata: come numerose fonti hanno riferito, il soccorso è stato nullo o tardivo perché la logica talebana è quella di considerare le catastrofi come fenomeni naturali mandati da dio e quindi da accettare come una fatalità.

Può quindi davvero bastare l’apertura di un dialogo con i talebani per condizionarli a cambiare la loro visione fondamentalista e teocratica e adottare una governance laica?

I soldi congelati da USA e paesi europei sono degli afghani NON dei talebani

I soldi della Banca centrale afghana congelati da USA e paesi europei (circa 9 miliardi di dollari), che l’Onu e diverse organizzazioni (anche italiane) chiedono di scongelare potrebbero certamente servire a dare ossigeno a una popolazione stremata da guerre e miseria, ma consegnare questi fondi ai talebani significherebbe darli a despoti che hanno a cuore solo il mantenimento del proprio apparato e dei propri sostenitori e che taglieggiano la popolazione con balzelli, tasse, ricatti (come ha ben dimostrato il report (CORRUPTION AND KLEPTOCRACY IN AFGHANISTAN UNDER THE TALIBAN)

Bisogna trovare forme più dirette di sostegno alla popolazione, e bisogna colpire il governo talebano per la sua responsabilità nell’imporre un sistema di oppressione di tutto il popolo e di apartheid di genere alle donne.

In difesa delle vittime degli assalti sessuali da parte degli oppressori talebani!

rawa.org, 5 luglio 2024

Le donne vittime di stuptaliban afghan womenri di gruppo da parte di questi figuri non sono “disgrazie di famiglia”, come vengono definite dalla disgustosa cultura patriarcale, ma donne resilienti e coraggiose

Il 3 luglio 2024, il giornale britannico “The Guardian” ha riportato uno scioccante caso di violenza sessuale dei talebani nei confronti di una detenuta. I talebani hanno girato un filmato dello stupro di gruppo di una prigioniera e in seguito l’hanno mandato a lei, minacciandola di diffonderlo se non fosse rimasta in silenzio. Questa donna coraggiosa ha inviato la clip a diversi media, tra cui “Rukhshana”.

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Diritti negati. Video-choc dall’Afghanistan: donna stuprata nelle carceri dei taleban

Mentre a Doha l’Onu ha parlato con i talebani dimenticando le donne in Afghanistan le donne continuano a subire violenze e discriminazioni

Avvenire, 3 luglio 2024, di Antonella Mariani  AFGHANISTAN RELIGION 20121363

Da mesi si susseguono denunce e report sul trattamento disumano riservato a chi protesta o indossa male l’hijab: ora ci sono le prove. L’inchiesta del Guardian

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Iraq: prove di invasione turche

Contropiano, 3 luglio 2024, di Carla Gagliardini  kurdi confine iraq 720x300

Negli ultimi due giorni la Turchia si è data molto da fare nel governatorato di Duhok, che appartiene alla Regione del Kurdistan iracheno, attaccando con colpi di artiglieria la città di Deraluk e colpendo il villaggio di Miska, nel sotto-distretto di Kani Masi.

In un villaggio del distretto di Al-Amadiya, nel nord del governatorato, ha invece ingaggiando scontri a fuoco con membri del braccio armato del PKK, costringendo i residenti ad abbandonare il territorio.

In base a quanto riportato dal KNK (Congresso Nazionale del Kurdistan) nel comunicato del 28 giugno scorso, ci sarebbero segnali di un piano di invasione da parte dell’esercito turco nella regione del Kurdistan iracheno perché “l’aumento dei convogli di camion e veicoli blindati che attraversano varie regioni sottolinea l’escalation delle tensioni.

Secondo quanto riferito, le truppe sono state viste muoversi attraverso i villaggi nel governatorato di Dohuk”.

Dall’inizio dell’anno fino al 31 maggio, sempre per voce del KNK , Ankara ha condotto 833 attacchi aerei sul suolo della regione del Kurdistan iracheno e su Mosul.

Domenica 30 giugno ha ucciso sette membri del PKK, colpendoli sia in Siria che in Iraq, violando apertamente la sovranità dei due Stati, come d’altronde fa da anni.

A seguito degli accordi siglati lo scorso aprile tra Baghdad e Ankara, Erdogan aveva annunciato l’intenzione di intraprendere in estate azioni militari in Iraq e in Siria contro il PKK. Il Presidente turco era uscito soddisfatto dagli incontri avuti con il Primo Ministro del governo federale iracheno, Mohammed Shia Al Sudani, e con il Primo Ministro del governo del Kurdistan iracheno, Masrour Barzani, perché  aveva sostanzialmente ottenuto l’autorizzazione a portare avanti la sua offensiva nelle zone del Kurdistan iracheno dove si trovano membri e basi del PKK. Aveva anzi auspicato che si potessero effettuare le operazioni militari in modo congiunto, assicurazione ricevuta da Erbil e che probabilmente arriverà anche da Baghdad.

L’Iraq si trova infatti in una posizione vulnerabile rispetto alla Turchia poiché, fra le tante questioni che legano i due Paesi, la più importante è quella relativa alle risorse idriche.

La Turchia è in grado di gestire il flusso d’acqua di cui l’Iraq ha disperatamente bisogno, afflitta com’è dai cambiamenti climatici. avendo costruito le dighe sui fiumi Tigri e Eufrate, che bagnano anche l’Iraq. L’Iraq ha sempre accusato il vicino di aver ridotto dell’80% le risorse idriche del Paese.

Gli accordi firmati ad aprile cercano di dirimere questa controversia ma Baghdad deve pagare un prezzo di fedeltà a Ankara sul versante anti-PKK. In questo modo si spiega perché nessuna voce governativa si sia alzata, nemmeno dalle parti del Kurdistan iracheno, dopo due giorni di attacchi turchi.

A farsi sentire è stato però il PUK (Unione Patriottica del Kurdistan) che, secondo  quanto riportato da ANF News, è intervenuto denunciando il silenzio di Erbil e Baghdad, a dimostrazione della debolezza dello Stato iracheno. Ha dunque chiesto che venissero prese delle azioni per fare cessare queste manovre poiché “l’unico obiettivo turco è di minare la sicurezza e la stabilità del Paese e violare la sovranità dell’Iraq”.

Il progetto di Erdogan di eliminare ogni cellula del PKK e dei suoi affiliati fuori dai confini nazionali non si limita all’Iraq ma guarda anche alla regione del Rojava, nella parte settentrionale della Siria, dove gli attacchi turchi non cessano mai e, se Ankara deciderà di portare avanti il suo piano, si aprirà una nuova stagione di intensi scontri. E’ infatti fondamentale per la Turchia spezzare quella linea di continuità che unisce l’Amministrazione Autonoma del Rojava con quella del distretto di Shengal, nel nord dell’Iraq e al confine proprio con il Rojava, dove risiedono gli ezidi. il popolo vittima del genocidio dell’ISIS nell’agosto del 2014.

I movimenti di questi giorni nel Kurdistan iracheno fanno pensare che la Turchia voglia dare seguito all’annuncio di aprile. Bisognerà vedere con quale portata militare agirà per capire se Erbil e Baghdad resteranno a guardare senza battere ciglio, nonostante i danni che verranno causati ai territori e ai residenti delle zone colpite. Su questo piano il KDP (Partito Democratico del Kurdistan), il partito al governo del Kurdistan iracheno, deve fare bene i propri calcoli perché il 20 ottobre prossimo si terranno, dopo continui rinvii, le elezioni nella regione e per la prima volta il KDP sembra vacillare.

 

Il prezzo che ha pagato l’ONU per parlare con i talebani

Il Post, 2 luglio 2024 

Le due parti si sono incontratDonna afghana scuolae a Doha, per la prima volta da quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan: le Nazioni Unite hanno dovuto accettare di escludere dalle riunioni le donne afghane e di non parlare di diritti umani.

Domenica e lunedì si è tenuta a Doha, in Qatar, un’importante conferenza organizzata dalle Nazioni Unite sul futuro dell’Afghanistan. È il terzo incontro di questo tipo da quando l’esercito statunitense si è ritirato dal paese, ma il primo in cui ha partecipato anche una delegazione dei talebani, il gruppo radicale islamista che governa in modo autoritario l’Afghanistan dall’agosto del 2021. All’incontro erano presenti gli inviati speciali di una trentina tra stati e organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Non c’era invece nessuna donna afghana e nessun rappresentante della società civile e delle organizzazioni per i diritti umani del paese, per una richiesta esplicita dei talebani: è stato il prezzo da pagare, assai contestato, per avviare un qualche tipo di dialogo con il regime.

La conferenza è stata parte di un processo avviato dall’ONU a maggio dell’anno scorso per il graduale reinserimento dell’Afghanistan nella cosiddetta comunità internazionale.

Alla prima delle conferenze di Doha sull’Afghanistan i talebani non furono invitati. Alla seconda, a febbraio di quest’anno, si rifiutarono di partecipare perché non venne concesso loro escludere dai temi della conferenza il rispetto dei diritti umani e la condizione delle donne. All’epoca il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, definì «inaccettabili» le richieste. Non questa volta però, perché i talebani hanno ottenuto ciò che chiedevano, cioè la promessa di non parlare di alcuni temi e l’esclusione di donne e società civile afghane.

La sottosegretaria dell’ONU per gli Affari Politici e di Pace, Rosemary DiCarlo, incontrerà oggi separatamente proprio i rappresentanti della società civile, in una riunione che però non fa ufficialmente parte della conferenza e quindi ha una rilevanza molto inferiore.

Il percorso che l’ONU sta portando avanti è lungo e complicato, perché vuole conciliare due esigenze contrapposte: da un lato quella di riaprire gradualmente i rapporti diplomatici ed economici con l’Afghanistan per farlo uscire dall’isolamento, favorire lo sviluppo e migliorare le condizioni di vita della popolazione; dall’altro quella di non legittimare un regime integralista e autoritario che impone restrizioni gravissime sui diritti umani, soprattutto delle donne.

DiCarlo ha detto che gli incontri di Doha di questi giorni non devono essere considerati come un segnale del riconoscimento dell’autorità dei talebani in Afghanistan, ma solo un passo verso il dialogo, con l’obiettivo principale di portare il regime a rispettare il diritto internazionale in tema di diritti umani.

Attualmente il regime talebano non è riconosciuto come legittimo dall’ONU ed è quindi estremamente isolato. Impoverito da decenni di guerra e occupazione, l’Afghanistan è in una profonda crisi economica iniziata ancora prima del 2021, e oggi aggravata dalle sanzioni internazionali, dalla corruzione e dall’incapacità dei talebani di governare efficacemente il paese. L’85 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e la situazione è ancora più grave per le donne, a cui i talebani hanno vietato l’accesso all’istruzione dopo i 12 anni e alla maggior parte dei lavori.

La decisione dell’ONU di andare incontro alle richieste dei talebani è stata criticata da molti osservatori e osservatrici.

Richard Bennett, il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, ha scritto sul New York Times: «Se [l’esclusione della società civile] è il prezzo da pagare per la presenza dei talebani a Doha, è un prezzo troppo alto». «Il rischio [di questa scelta] è legittimare la cattiva condotta dei talebani e danneggiare irreparabilmente la credibilità delle Nazioni Unite nella difesa dei diritti delle donne», ha detto Tirana Hassan, la direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. «I talebani hanno silenziato le donne nel paese usando la violenza e la tortura. Escludendole dagli incontri di Doha, l’ONU e la comunità internazionale hanno legittimato i talebani a silenziarle anche fuori dai confini dell’Afghanistan» ha scritto sul Guardian l’ex parlamentare afghana e attivista Fawzia Koofi.[*]

Nella stessa valutazione indipendente che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha fatto scrivere a novembre sull’Afghanistan, e che avrebbe dovuto fornire una traccia per gli incontri di questi giorni, ci sono una serie di precise richieste per portare al miglioramento della condizione dei diritti umani e soprattutto delle donne. «Qualsiasi forma di rintegrazione dell’Afghanistan nelle istituzioni e nei sistemi globali deve passare dall’inclusione delle donne afghane anche nelle posizioni di leadership», si legge nel rapporto.

Finora i talebani hanno sempre difeso le restrizioni imposte alle donne: sostengono che si tratti di temi di politica interna che non devono influire sul riconoscimento internazionale della loro autorità, e le giustificano come parte di un sistema di valori che secondo loro appartiene alla fede islamica e alle tradizioni afghane. Tuttavia non esistono regimi paragonabili, per durezza e pervasività della violenza contro le donne, in nessuno dei 50 paesi a maggioranza musulmana che fanno parte dell’Organizzazione della Cooperazione islamica.

Oggi in Afghanistan le donne non possono percorrere distanze oltre i 77 chilometri senza essere accompagnate da un parente uomo, né andare al parco o in altri luoghi pubblici; non possono fare sport; non devono lasciare la loro abitazione senza un buon motivo e comunque devono sempre indossare il burqa o almeno l’hijab; non possono lavorare per le organizzazioni non governative e non possono andare all’università. Le donne e le femministe afghane già durante il primo regime talebano, negli anni Novanta, avevano iniziato a parlare di “apartheid di genere” per descrivere la loro sistematica esclusione dalla vita civile e politica del paese.

La presenza dei talebani a Doha non è la prima occasione in cui i talebani sono stati chiamati a rappresentare l’Afghanistan dopo l’insediamento del nuovo regime. Alcuni paesi hanno cominciato ad aprire con loro dei dialoghi informali, principalmente per motivi economici.

A settembre del 2023 la Cina è diventata il primo paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan dopo l’insediamento del nuovo regime talebano: già dai tempi dell’occupazione statunitense aveva avviato i rapporti con l’Afghanistan per l’apertura di una miniera di rame nell’ambito della “Nuova Via della Seta”, il progetto che prevede grandi investimenti su infrastrutture in tutto il mondo. A maggio di quest’anno la Russia, che a causa dell’isolamento a cui è sottoposta dopo l’invasione dell’Ucraina ha la necessità di trovare nuovi partner economici, ha invitato una delegazione del gruppo islamista a un importante forum economico internazionale che si tiene annualmente a San Pietroburgo, anche se continua formalmente a considerare il gruppo un’organizzazione terroristica.

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[*] N.d,R. Ricordiamo che  Fawzia Koofi è un personaggio controverso e aveva partecipato ai colloqui di pace con i talebani nel 2019 e aveva affermato che erano cambiati e ci si poteva fidare. (sic.)

 

 

Erdogan pronto all’assalto del Kurdistan siriano

Panoramakurdo, 29 giugno 2024, di Shorsh Surme  Turchia Kurdistan

Il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Edward Price è tornato ad avvertire la Turchia “di tener fede alla dichiarazione congiunta dell’ottobre 2019, compresa la parte che prevede di fermare le operazioni offensive nel nord-est della Siria”, ovvero di astenersi da un attacco transfrontaliero in Siria, compresa l’area controllata dalle Forze Democratiche Siriane a guida curda (SDF).

L’avvertimento di Price fa seguito ai commenti fatti una settimana fa dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan ai giornalisti che lo accompagnavano al suo ritorno da una visita in Azerbaigian, secondo cui “verrà lanciata un’operazione oltre confine contro le Unità di protezione del popolo curdo siriano, o YPG”, come riferito l’Associated Press.
L’YPG costituisce il nucleo armato del principale partner della coalizione guidata dagli Stati Uniti in Siria nella lotta contro l’Isis, l’SDF. Tuttavia la Turchia vede l’YPG come il ramo siriano del turco Partito dei Lavoratori del Kurdistan, cioè il PKK.
“Come dico sempre, li attaccheremo all’improvviso, una notte”, ha detto Erdogan ai giornalisti che viaggiavano con lui, aggiungendo che “dobbiamo farlo”.
Ad una domanda specifica rivoltagli in conferenza stampa sulla dichiarazione di Erdogan, Price ha ribadito che “Lo abbiamo detto la scorsa settimana, quando questa proposta è stata avanzata per la prima volta, ma rimaniamo profondamente preoccupati per affermazioni che potrebbero portare a un potenziale aumento dell’attività militare nel nord della Siria”.
Price ha invitato “tutte le parti a rispettare il cessate-il-fuoco”, e ha spiegato che “Crediamo che qualsiasi sforzo fatto diversamente potrebbe essere controproducente” per i nostri sforzi per risolvere “il conflitto più ampio in Siria”, ma anche per “gli enormi progressi che si stanno realizzando insieme ai nostri partner curdi, nello sforzo contro l’Isis che ha compiuto passi così importanti negli ultimi anni”.
Fatto sta che tra ieri e oggi la Turchia ha ammassato tre divisioni al confine, due pronte per un’invasione del Rojava, cioè del Kurdistan Siriano, e una al confine con il Kurdistan Iracheno per prevenire che i Peshmerga possano accorrere in soccorso dei curdi siriani.
Non è la prima volta che il “sultano” Erdogan bombarda il Kurdistan Siriano, e in particolare la città di Kobane con la scusa della presenza di “terroristi”, ma anche nelle ultime ore la North Press ha riportato di attacchi curdi “nelle campagne settentrionali di Aleppo e nella città di Tel Tamer, a nord di Hasakah”. In un bombardamento sarebbe stata distrutta la chiesa assira di Tel Tawil, oltre a edifici scolastici e ad abitazioni.
Alcuni critici puntano il dito contro la Russia in quanto “garante del cessate-il-fuoco del 2019”, poiché non starebbe facendo nulla “per fermare la Turchia”.
Erdogan continuerebbe così a stare con un piede in due scarpe: da un lato la Turchia è membro della Nato e come tale paese alleato degli Stati Uniti, dall’altro in Medio Oriente si comporta come vuole, acquista sistemi difensivi S-400 dalla Russia (pensati per abbattere gli F-35 della Nato) e intrattiene importanti rapporti commerciali con Mosca, che vanno dall’energia (compresa la costruzione di una centrale nucleare in Turchia) al settore petrolifero.
La possibile aggressione urca del Kurdistan Siriano arriverebbe in un momento di grande instabilità per la regione mediorientale, con gli houti in guerra nello Yemen, ma soprattutto la guerra tra Israele e Hamas in corso a Gaza.