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Autore: Anna Santarello

Sotto un cielo di stoffa

Federico Brugnani, 26 ottobre 2017 ecoinformazioni

sottou cielo di stoffa inverigo cella e1509116980327Una cinquantina di persone, in prevalenza donne, hanno affollato la Sala consiliare di Inverigo in una sera di metà settimana il 25 ottobre, per quella che è stata una iniziativa di notevole spessore, per i temi trattati, ma anche per l’impegno e la personalità delle partecipanti. L’occasione è stata la presentazione del libro Sotto un cielo di stoffa di Cristiana Cella, organizzata dal Coordinamento italiano sostegno donne afghane e dal Comune di Inverigo.

Dopo il saluto dell’assessora Alessandra Trevisani, la coordinatrice del Cisda Graziella Mascheroni ha presentato l’associazione e le sue finalità, volte essenzialmente al sostegno ed alla emancipazione delle donne afghane tramite progetti sviluppati in sinergia con associazioni locali di vario genere, dalla ong riconosciuta alla associazione femminista semiclandestina.

La serata è entrata nel vivo con una sorta di duetto tra la consigliera (qui in veste di membro del Cisda) Camilla Mantegazza, moderatrice ma che ha saputo dare un contributo attivo, e Cristiana Cella, l’autrice del libro [Sotto un cielo di stoffa, La città del sole editrice, 2017, pagg. 296, 13 euro], una vita spesa ad occuparsi di Afghanistan fin da quando nel 1980 entrò in maniera rocambolesca nel paese al seguito dei gruppetti di mujaheddin democratici (anche di simpatie maoiste, come emergerà nel racconto) in lotta contro l’invasione sovietica.

Con lo sfondo colorato dalle magnifiche foto di Carla Dazzi, che hanno fatto da contorno anche alla festa missionaria di domenica e che oltre a paesaggi ritraevano volti bellissimi e dagli sguardi intensi, di bambini, donne, uomini, anziani, quasi per contrasto Camilla ha introdotto il tema con un brano dal libro che descrive la fragilità dell’esistenza quotidiana nella Kabul di oggi, dove la gente comune è in balia della violenza insensata di bande, talebani, daesh, signori della guerra.

Da qui è partita Cristiana nella descrizione di alcune delle storie che riempiono una parte del libro, dove alla fragilità dell’esistenza dovuta ai pericoli oggettivi della strada, delle città e degli ambienti rurali, se sei donna si somma la fragilità dell’esistenza dentro casa, dovuta alla violenza di padri, mariti, fratelli, addirittura figli o suocere.

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Il Tpi: «Gli Usa in Afghanistan colpevoli di crimini di guerra»

Il Manifesto – Emanuele Giordana, 5 novembre 2017

05est prigionieri afghansitan Abusi. La Corte penale internazionale accusa la Cia: «Tortura, trattamento crudele, stupro». Sotto tiro anche le responsabilità degli 007 di Kabul e per i talebani solo l’ala Haqqani.

«La situazione nella Repubblica Islamica d’Afghanistan è stata assegnata a una Camera preliminare della Corte Penale Internazionale (Icc) dopo la mia decisione di chiedere l’autorizzazione ad avviare un’inchiesta sui reati che si suppone siano stati commessi in relazione al conflitto armato».

La dichiarazione della procuratrice capo del Tribunale penale internazionale Fatou Bensouda rimbalza nelle agenzie di stampa nella notte di venerdi, giorno della partenza diTrump per il suo viaggio in Asia, il più lungo – recita la velina della Casa Bianca – che un presidente americano abbia fatto nell’ultima quarto di secolo.

Ma Trump non andrà in Afghanistan e del resto la tegola era attesa da circa un anno: da quando, a metà novembre 2016, la giurista del Gambia a capo della Corte dal 2012, aveva annunciato nel suo Rapporto preliminare di attività che il dito era puntato anche contro gli Stati Uniti per i quali c’erano «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che in Afghanistan avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra».

Con loro, sotto la lente, polizia e 007 afghani e parte dei talebani. Ma adesso il passo è diventato formale e dunque esecutivo, con una richiesta di autorizzazione a procedere per le accuse di crimini di guerra in Afghanistan dopo l’invasione guidata dagli Usa 17 anni fa. L’indagine, col mandato alla procura di sentire testimoni, interrogare vittime, avere accesso a informazioni riservate (almeno in teoria anche perché né gli Usa né i talebani riconoscono l’autorità dell’Icc), riguarda le attività della Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento talebano); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (Nds); militari e agenti americane.

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Noi la chiamiamo missione di pace. Loro fame, guerra e morte

Globalist – 1 novembre 2017

0004B87B il bambino di un campo profughi vicino islamabad in pakistanOgni giorno dall’Afghanistan arriva il bollettino di morti, sparatorie o attentati. Chi può scappa ma trova una vita altrettanto dura. Come questo bambino in un campo profughi in Pakistan.
La notizia è una delle tante che arrivano ogni giorno dall’Afghanistan e che nemmeno catalizzano l’attenzione perché le cose vanno avanti così da 16 anni, ossia da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan allora in mano ai talebani per portare la pace e la democrazia.

Ma le cose non sono andate così, nonostante sedici anni ininterrotti di bugie e semopre – sia ben chiaro – tenendo in mente la barbarie e la brutalità dei talebani che in quando a crudemtà non hanno nulla da invidiare dall’Isis (con il quale tra l’altro sono nemici, tanto che si sparano tra di loro).

Il bollettino odierno dice che almeno otto persone sono morte ed altre 27 sono rimaste ferite nella provincia settentrionale afghana di Parwan per l’esplosione di un’autocisterna per il trasporto di carburante, causata da una bomba che ha provocato un incendio, le cui fiamme si sono propagate ad un autobus che era parcheggiato nelle vicinanze. Il capo della polizia di Parwan, generale Muhammad Zamaz Mamozai, ha indicato che si è trattato di un attentato non ancora rivendicato avvenuto nella città di Charikar e che ha causato la distruzione dei due pesante automezzi, il danneggiamento di una seconda autocisterna, e una tragedia fra i passeggeri dell’autobus che era in viaggio verso la provincia di Faryab. Il direttore dell’Ospedale civile di Parwan, Muhammad Qasim Sangin, ha infine precisato che “le condizioni di otto dei feriti ustionati sono molto critiche ed è stato necessario trasferirli in un ospedale più avanzato di Kabul”.

Tutto ciò oltre ai lutti, alle divisioni continua a far cresce il numero di profughi, di coloro che cercano rifugio nel Pakistan paese nel quale le condizioni di vita sono altrettanto terribili. Come quella di questo bambino afghano, in un campo di rifugiati dalle parti di Islamabad. Non parlate a lui di pace o missioni di pace. Nella sua breve esistenza non ha mai vissuto un giorno di pace. Ma ha attraversato solo fame, guerra e morte.

Kurdistan nel limbo, Barzani rinuncia alla presidenza

Dal Blog di Enrico Campofreda – 30 ottobre 2017

barzaProseguirà – così ha scritto in una lettera inviata al Parlamento regionale – a rincorrere, assieme agli amati peshmerga, il diritto di ottenere una nazione kurda, ma per ora Masoud Barzani rinuncia a rivestire l’incarico di presidente del Krg che scade il 1° novembre. Una decisione controversa ma realistica, seguìta alla fase del successo del referendum da lui fortemente voluto e vinto il mese scorso con un consenso del 93%, cui è seguita la minacciosa reazione del governo iracheno. E la minaccia s’è concretizzata in quel movimento di truppe e carri armati giunti sin nel cuore di Kirkuk.

Così capitale del petrolio, ripulita dall’Isis a opera dei guerriglieri kurdi, veniva occupata dalle truppe spedite da Baghdad che l’hanno riconquistata senza combattere. I peshmerga, per non cadere in un conflitto fratricida, si ritiravano anche in virtù delle grandi manovre diplomatiche compiute da potenze locali (Arabia Saudita, Turchia e pure Iran) schierate col governo di Abadi.

Visto l’abbandono statunitense al suo piano di consolidare il ruolo autonomo della regione del Kurdistan tramite una ratifica dell’indipendenza, Barzani aveva fatto ripiegare le sue milizie. Le elezioni previste per l’inizio di novembre sono state posticipate di otto mesi e ora c’è bisogno di riempire il vuoto d’incarico e di potere.

La richiesta viene da Barzani in persona, l’ha girata al Parlamento del Kurdistan ben conoscendo le difficoltà che essa suscita, in una struttura rimasta bloccata per due anni. Lui, navigato e astuto politico, resta alla guida del Partito Democratico del Kurdistan, forza maggioritaria nei confronti dell’Unione patriottica (che il 3 Ottobre scorso ha perso il vecchio leader Talabani) e del Gorran, formazione d’ispirazione nazional-liberale che ha fortemente contestato il clanismo e la corruzione presenti nella politica kurdo-irachena. Si vocifera che nelle manovre di Barzani senior alberghi il piano di aprire la strada per incarichi superiori a suo nipote, Nechirvan, il cacciatore in doppiopetto, già investito del ruolo di premier del Krg.

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SGUARDO DA UN GRANELLO DI SABBIA: A MILANO IN SCENA IL DOCUMENTARIO CHE RACCONTA LE DRAMMATICHE CONDIZIONI DI VITA DELLE DONNE AFGHANE

Appuntamento il 10 novembre presso Auditorium S.Cerri, via Valvassori Peroni 56, Milano.

afghanistan cisda locandina 1 724x1024Venerdì 10 novembre alle 20.30 presso l’Auditorium S.Cerri di Via Valvassori Peroni 56 a Milano andrà in scena la proiezione di “Sguardo da un granello di sabbia”, il documentario che, alla vigilia della Giornata Mondiale contro la violenza di genere, racconta le drammatiche condizioni di vita delle donne afghane.

Attraverso gli occhi di tre donne afghane, una dottoressa, un’insegnante e un’attivista per i diritti umani, il film del regista Meena Nanji è la storia di come la guerra, le intromissioni straniere e la nascita dell’islam politico abbiano strappato alle donne afghane i diritti e la libertà.

 

Afghanistan, i pendolari del Jihad

di Enrico Campofreda, Agoravox.it, 26 Ottobre 2017

AFP5413258 Articolo a6b15Non è escluso che negli ultimi sanguinosi attentati contro la comunità sciita afghana di Kabul (20 morti il 29 agosto e 42 lo scorso 20 ottobre) ci sia la mano dei pendolari del Jihad, quelli che abitualmente attraversano in alcuni punti stabiliti il confine afghano-pakistano, lungo la storica linea Durand.

Un tragitto gestito dalla Shura di Quetta e ormai noto alle polizie dei due Paesi, ma da esse ignorato. Le citate stragi sono state rivendicate dall’Isis contro cui la componente ortodossa dei talib si è apertamente pronunciata. Però in quell’autostrada del traffico di miliziani, armi, droga e commerci vari può essersi inserito anche qualche dissidente sconosciuto perché, a detta di osservatori geopolitici locali, gli attentati rivendicati dalla Stato Islamico sono compiuti da ex talebani che usano il brand del Califfato. Sia costoro (ad esempio il gruppo del Khorasan) sia i più numerosi combattenti talebani fanno di quel confine poroso il proprio territorio. Nessun apparato di sicurezza sembra interessato a fermarne attraversamenti, flussi, scambi, e creazione di basi per addestramento, incontri, riposo e riabilitazione dei feriti.

È una zona senza controllo terrestre che corre per 2.400 chilometri, toccando un terzo delle province afghane. Chi ha studiato geograficamente l’area cita ben 235 punti di possibile attraversamento, uno ogni 10 chilometri. Quelli usati ufficialmente dai mercanti locali sono una ventina, due con check-point presidiati: la cosiddetta Porta di Torkham, nell’area di Nangarhar e quella di Wesh-Chaman a sud verso Kandahar. Lì c’è dogana con tanto di poliziotti sui due lati inviati da Kabul e Jalalabad; non incorruttibili, ma presenti.

Però chi vuole evitare controlli, anche per la semplice merce legale come frutta e verdura, non dunque per oppio e derivati, sceglie altri passaggi. Che poi sono gli stessi da decenni, forse da secoli. Gli ultimi a usarli erano stati i mujahhedin islamici opposti alle truppe sovietiche intervenute in appoggio al governo del Pdpa e trattate da occupanti. Sigillare tanti passaggi significa disporre in quei punti migliaia di soldati e rifornirli periodicamente, esponendoli a quegli attacchi che vengono portati anche in vigilatissime aree urbane, figurarsi in lande sperdute. Perciò i governi dei due Stati non hanno mai imboccato questa strada, restando però tagliati fuori da una presenza sul territorio e da un rapporto con le sue popolazioni. Prevalentemente d’etnia pashtun e in molte aree legate da relazioni tribali centenarie, non a caso il Pashtunistan è considerato da molti clan un’entità assai più credibile degli Stati nazionali afghano e pakistano. Quest’ultimi, lì dove sono presenti con check point e uomini, mostrano verso la ‘lunga linea dello sconfinamento’ un comportamento opposto: tendenzialmente repressivo da parte di Kabul, seppure con risultati di sconsolante incapacità fino a confessarsi riluttante ad affrontare il problema. Benevolente sul lato di Islamabad, i cui agenti sembrano offrire il benvenuto ai turbanti e non solo per la comune fede islamica. Cosicché i transiti proseguono indisturbati con manipoli armati mescolati alla gente che commercia oppure traffica illecitamente.

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Appello per la richiesta di incontro urgente con Abdullah Öcalan

da  https://www.facebook.com/UIKIOnlus/posts/1404026336390499

Care/i Compagne/i

ocalan4 599x275Ci sono novità preoccupanti rispetto alla salute del leader Abdullah Öcalan.
Negli ultimi giorni vengono diffuse sui social media notizie sul fatto che Öcalan sarebbe morto in carcere. Come il popolo curdo siamo molto preoccupati per la vita di Öcalan.
Vi chiediamo come cittadini italiani di inviare una lettera d’urgenza al Comitato per la Prevenzione della Tortura CPT- Consiglio d’Europa.
Come e-mail urgente da mandare a:cptdoc@coe.int; corinne.goberville@coe.int; Jeroen.SCHOKKENBROEK@coe.int

Lettera di esempio:
Al Comitato per Prevenzione della Tortura (CPT)
Council of Europe / Conseil de l’Europe
F – 67075 Strasbourg Cedex
Tel +33 (0)3 88 41 22 79 / Fax +33 (0)3 88 41 27 72
email: cptdoc@coe.int ; corinne.goberville@coe.int; Jeroen.SCHOKKENBROEK@coe.int
Ai Rappresentanti del CPT e del Consiglio d’Europa

Richiesta di incontro urgente con Abdullah Öcalan

Ci sono novità preoccupanti rispetto alla salute del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan. Negli ultimi giorni vengono diffuse sui social media notizie sul fatto che Öcalan sarebbe morto in carcere. Le organizzazioni della società civile cosi’ come il popolo curdo sono preoccupate per la vita di Öcalan.
È un diritto fondamentale della sua famiglia, dei suoi rappresentanti legali e dell’opinione pubblica essere informati sulla salute di Öcalan. Per questa ragione deve essere permessa con urgenza una visita ad Öcalan da parte dei suoi legali e della sua famiglia.

Cominceremo una protesta di veglia permanente a partire dal 23 ottobre 2017 davanti al Consiglio d’Europa e al CPT, per chiedere che il CPT intervenga, recandosi sull’isola carcere di Imrali per verificare le condizioni di salute del Sig. Ocalan.

È un dato di fatto che Ocalan è l’unica persona a suggerire una soluzione ai problemi delle guerre e dei conflitti nel Kurdistan e nella regione più ampia del Medio Oriente, e qualunque rischio per la sua salute e la sua sicurezza può provocare una grave escalazione di dolore e di rabbia che può degenerare in un lungo periodo di guerra e di spargimento di sangue.
Il governo dell’AKP di Erdogan è direttamente responsabile per la sicurezza e la salute di Öcalan e ogni male di cui abbia sofferto. I suoi legali e la sua famiglia hanno il diritto di ricevere informazioni sulla sua situazione.

In questo momento critico, richiamiamo tutte le organizzazioni internazionali a tutela dei diritti umani alle proprie responsibilità. Esse devono adoperarsi per scongiurare ogni timore per la sicurezza e la salute del sig. Abdullah Öcalan.

Per milioni di persone, Abdullah Öcalan è una guida politica: per loro, le sue condizioni psicofisiche rivestono somma importanza. Ogni esitazione o inazione aggraverebbe tali timori, che sono legittimi e umani: per alleviarli, occorre agire con la massima urgenza e rendere possibile un incontro col sig. Abdullah Öcalan presso il penitenziario dell’isola di Imralɩ [dove egli è attualmente detenuto].
Facciamo dunque appello al Comitato per la Prevenzione delle Tortura (CPT) perché intervenga per garantire che siano ottenute le informazioni necessarie.

Distinti saluti

UIKI : Il popolo curdo è preoccupato per le condizioni del leader Abdullah ÖCALAN

dal sito di UIKI

ocalan4 599x275 300x138Appello Urgente alle istituzioni EU, alla Stampa e all’Opinione Pubblica

Ci sono novità preoccupanti rispetto alla salute del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan. Negli ultimi due giorni alcune aree stanno diffondendo nei social media notizie sul fatto che Öcalan sarebbe morto in carcere. Noi come popolo curdo siamo preoccupati per la vita di Öcalan.

Voci recenti e discussioni nei media turchi sul fatto se sia vivo o meno hanno creato gravi preoccupazioni tra i curdi in Turchia, nel Medio Oriente e in Europa, compresa l’UE.

Tutti sono consapevoli della sensibilità del nostro popolo e del suo partito rispetto alla salute e alla vita del leader del popolo curdo. Tenendo a mente questo, è indispensabile che le novità che vengono diffuse non siano falsificate. Le dichiarazioni del Pubblico Ministero di Bursa non sono in alcun modo sufficienti.

È un diritto fondamentale della sua famiglia, dei suoi rappresentanti legali e dell’opinione pubblica essere informati sulla salute di Öcalan. Per questa ragione deve essere permessa con urgenza una vista Öcalan da parte dei suoi legali e della sua famiglia.

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Shrinking space: quali spazi per i difensori dei diritti umani?

dal sito IN DIFESA DI

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Venerdì 27 ottobre la rete “In Difesa Di – per i diritti umani e chi li difende” e Un Ponte Per…, in occasione del Salone dell’Editoria Sociale a Roma, presenteranno l’evento “Difensori dei diritti umani sotto attacco”.

L’iniziativa intende favorire uno scambio di riflessioni sul tema del cosiddetto shrinking space (la restrizione degli spazi di agibilità), l’emergenza dell’attacco ai difensori/e dei diritti umani a livello globale ed europeo, e una ricognizione della situazione nel nostro paese a partire dalle recenti strategie di criminalizzazione delle ONG e delle attività di solidarietà con i migranti.

Parteciperanno alla discussione:

Francesco Martone (portavoce della rete In Difesa Di)
Ben Hayes e Frank Barat (Transnational Institute)
Carlotta Besozzi (Civil Society Europe)
Modera l’evento Domenico Chirico (Un Ponte Per).

Quando: 27 ottobre 2017, ore 19.45 – 21.15

Dove: Salone dell’Editoria Sociale, Porta Futuro: Via Galvani 108, 00153 Roma (Sala B)

Cosa si intende per shrinking space?
In un suo editoriale per la rivista statunitense Harper’s, la scrittrice e attivista Rebecca Solnit si cimenta con il tema dello spazio. Spazio fisico di agibilità, e spazio immateriale di compressione dei diritti. Tutto il potere, dice “può essere inteso in termini di spazi. Spazi fisici, come anche le economie, le conversazioni, la politica – tutto può essere inteso come aree occupate inegualmente. Una mappa di questi territori costituirebbe una mappa del potere e dello status. Chi ha di più e chi ha di meno”, ed il”dominio dello spazio e del territorio da parte di chi ha potere può essere chiamato violenza strutturale”.

La teoria basagliana definiva questa violenza strutturale come “crimine di pace”, altri la chiamano semplicemente, “necropolitica” termine coniato dal sociologo africano Achille Mbembe assieme a quello di “biopotere”. Spazi che si chiudono nella tenaglia tra “necropolitica” e “biopotere”. In gergo il termine usato è “shrinking space”: un’espressione che però rischia di rielaborare un’urgenza ed un’emergenza politica globale in maniera asettica e per questo “depoliticizzata”.

Chi è responsabile del restringimento di questi spazi di agibilità? Chi li occupa e popola quegli spazi? Solo quella che si può considerare secondo norma la società civile? In realtà anche la scelta delle terminologie ormai diventate ricorrenti tra fondazioni e agenzie di cooperazione, rischia – come sottolineato in un dossier del Transnational Institute che ha un programma di lavoro sul tema – di invisibilizzare ancor di più quello che già di per sé è invisibile, chi quotidianamente lotta e resiste per i propri diritti e quelli della collettività.

Ad aprile di quest’anno CIVICUS ha reso noti i dati raccolti nel corso del 2016. La loro pubblicazione ha un titolo eloquente “People Power under Attack” (il potere del popolo sotto attacco). Secondo CIVICUS, solo il tre percento della popolazione mondiale vive in paesi dove lo spazio di agibilità ed iniziativa civica può considerarsi “aperto”. Sono ben 106 i paesi dove chi si mobilita pacificamente rischia la galera, la morte o la repressione. Dei 195 paesi monitorati da CIVICUS in 20 lo spazio di agibilità è chiuso, represso in 35, ristretto in 63, ed “aperto” in solo 26. Oltre sei miliardi di persone vivono in paesi dove l’agibilità politica e civica è chiusa, repressa o ostruita.

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Liberata Raqqa dalle donne kurde, l’omertà della stampa

G. Sgrena – 18/10/2017

Al comando delle donne del Ypj le Forze democratiche siriane hanno conquistato la capitale dello stato islamico, ma in prima basta una fotonotizia.

0004B48B la comandante kurda rojda felat che ha guidato le forze democratiche sirianeÈ sconvolgente l’omertà della stampa per il modo come è stata data la notizia della liberazione di Raqqa da parte delle Forze democratiche siriane con in prima fila le kurde del Ypj. È stata liberata la «capitale» dello Stato islamico, dove l’Isis di al Baghdadi è nato è cresciuto, dove la barbarie è stata consumata per diffondersi in Siria e in Iraq. Con la liberazione di Mosul e, soprattutto, di Raqqa i jihadisti più feroci perdono un punto di riferimento, d’ora in poi mancherà loro il terreno sotto i piedi. Letteralmente. E non è poco. Dove manderanno gli aiuti i loro sostenitori?

La liberazione è costata molto sia alla popolazione civile che ai combattenti, certo hanno avuto l’aiuto degli Usa, ma i marine non erano sul terreno. È forse questo il motivo che ha impedito ai media (soprattutto alle tv nostrane) di dare il dovuto risalto alla notizia? Certo non c’era la bandiera a stelle e strisce come a Baghdad e non è stata possibile una foto che esaltasse la potenza americana.

Certo però le foto erano belle, con le combattenti donne radiose, immagini insolite per uno scenario di guerra e così la stampa se l’è cavata con una foto-notizia in prima pagina. Ma le comandanti, con il viso deciso e orgoglioso, hanno dichiarato: «combattiamo per liberare le donne del Rojava».
Un altro motivo per esaltare le foto ma non le parole di queste donne.
La rivoluzione è femmina e fa paura a tutti e soprattutto ai paesi confinanti, come la Turchia, dove Erdogan fa insegnare a scuola che le donne devono obbedire al marito.

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