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Autore: Anna Santarello

«Uno squadrone della morte operava in Afghanistan»

Ticinonline – 3 luglio 2017

l 87kjLo rivelano alcuni media britannici specificando che alcuni commandos delle Sas avrebbero giustiziato civili disarmati con l’accusa di essere talebani. Corbyn: «Vogliamo un’inchiesta»
LONDRA – Uno «squadrone della morte» britannico, formato dai commandos delle Sas, avrebbe operato in Afghanistan nel periodo 2011-2013 compiendo vere e proprie esecuzioni di civili disarmati e accusati arbitrariamente di essere talebani.

È quanto rivelano alcuni media del Regno Unito che pubblicano i dettagli della Operazione Northmoor, condotta dalla polizia militare britannica per far luce su quelli che emergono sempre più come «crimini di guerra» commessi dalle forze speciali di sua maestà.

Lo squadrone non solo sarebbe responsabile di diverse esecuzioni di persone prelevate nelle loro case, ma avrebbe anche tentato di insabbiare il tutto, ad esempio lasciando delle pistole vicino ai corpi dei prigionieri per fingere che fossero ribelli armati.

Il caso, rivelato dal Sunday Times, ha scatenato la reazione del leader Labour Jeremy Corbyn che vuole un’inchiesta indipendente. Il governo invece, a fronte di prove sempre più compromettenti per le forze armate, starebbe cercando di chiudere in fretta le indagini condotte dalla polizia militare.

Donna uccisa con ascia da marito nel nord dell’Afghanistan

Khaama Press (Translated by RAWA), June 13, 2017

Dazebao 150x150Una donna è stata uccisa con un’ascia nella provincia settentrionale di Sare Pul.

Le autorità della provincia dicono che l’incidente si è verificato durante mezzogiorno nella zona di Chashme Shifa della provincia, il giorno prima.

Zabiullah Amani, portavoce del governatore, ha confermato l’incidente, dicendo che il marito era fuggito. Ha riportato le attività in corso per arrestarlo e perseguirlo.

L’uomo, chiamato Noor Mohammad, ha ucciso sua moglie dopo una lite. Anche se le autorità lo confermano, non è stato ufficialmente accusato del violento incidente.

È stato riferito che la donna ha un bambino di un anno e mezzo.

Nonostante gli sforzi degli organismi per i diritti delle donne negli ultimi dieci anni e mezzo in Afghanistan, la violenza contro le donne non è diminuita. La violenza domestica è una delle questioni sociali più gravi della società che porta ogni anno all’assassinio di decine di donne.

Vite preziose

Da: www.hawca.org – 10 giugno 2017

(Nome codice 189) (per proteggere l’identità della vittima Hawca usa il nome in codice invece dei nomi originali)

case 201 300x169Sono tre anni che mi sono sposata. Io e mio padre eravamo felici di questo matrimonio, ma mia madre non era d’accordo perché voleva che sposassi mio cugino.

È stato dopo il matrimonio che ho avuto modo di sapere che mio marito è dipendente dalla droga. Non ha un lavoro e quindi non ha soldi per mantenermi. D’altro canto, mia suocera mi ha trattato male. Lei e i suoi parenti hanno iniziato a battermi e a molestarmi e mi hanno impedito di visitare i miei genitori. Ogni giorno, quando mio marito usciva di casa, i miei parenti mi chiudevano in bagno finché non tornava. Quando mi sono lamentata con lui di sua madre e delle sue sorelle, invece di sostenere me ha preso la loro parte e ha iniziato a picchiarmi.

Per circa otto mesi non ho potuto vedere o contattare i miei genitori, così mio padre è venuto a casa mia per capire cosa stava succedendo. Dopo aver visto le mie condizioni, mi ha portato con lui a casa dei miei. Mio padre ha deciso di accettare il mio divorzio, ma mia madre non mi ha sostenuto in questa faccenda, perché era ancora arrabbiata con me per non aver sposato mio cugino. Mio padre ha cercato di ottenere il mio divorzio attraverso la mediazione, ma mio marito e la sua famiglia non sono stati d’accordo e quindi dopo due anni il caso è stato portato alla procura generale che mi ha mandato al centro di protezione delle donne di Hawca.

Procedura:
Il suo caso è stato preso in carico da Hawca e le sono state fornite le informazioni necessarie dall’avvocato difensore di Hawca. È stato aperto un procedimento in tribunale ed è stata emessa una denuncia contro il marito. Alla fine del procedimento il giudice ha approvato il decreto che dà il divorzio.

La donna è stata molto felice del supporto di Hawca e ha dichiarato che, grazie a questa, ora ha la possibilità di iniziare una nuova vita.

“Donne per il cambiamento” – Seconda tavola rotonda

da: www.facebook.com/AHRAM.AFGHANISTAN/ – 20 giugno 2017

19388730 1973763142845494 4854156907588863479 o 300x200 1La seconda tavola rotonda “Eliminazione della violenza contro le donne” si è tenuta il 20 giugno 2017 a Radio Salam Afghanistan e sarà trasmessa lunedì 26 giugno 2017 da Radio Salam Watandar su 98,9 FM. Questa tavola rotonda fa parte della campagna “Donne per il cambiamento”, lanciata da Cospe, Hawca e Cshrn con l’obiettivo di promuovere i diritti umani, concentrata sulle donne quali artefici di cambiamento e difensori dei loro diritti, nel quadro del progetto Ahram (Azione e mobilitazione per i diritti umani in Afghanistan), cofinanziato dall’Unione Europea.

I relatori sono stati Jawad Zawolistani, direttore del programma e advocacy dell’Organizzazione afghana per i diritti umani e la democrazia (Ahrdo), e Shazia Malakzai, dell’Organizzazione per la promozione delle capacità delle donne afghane (OPAWC)

Sono state affrontate le seguenti questioni:

  • quali tipi di violazioni sono comuni in Afghanistan?
  • il governo afghano sta fallendo nel proteggere i diritti e la sicurezza delle donne?
  • sono state spese ingenti somme di denaro per i diritti delle donne in Afghanistan, ma la situazione è ancora insoddisfacente e migliora lentamente. Qual è il motivo di tutto questo?
  • opinioni sulla legge Evaw (Eliminazione della violenza contro le donne). Perché il parlamento non l’ha ratificata?
  • al fine di eliminare la violenza contro le donne, cosa si può fare per cambiare la mentalità degli uomini?
  • fatti e cifre sulla violenza domestica e reazione sociale alla violenza.

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Trump e la vecchia guerra Afghana, quale sarà la nuova strategia?

www.reset.it – 23 giugno 2017

afghanistan trump 320x400«Attualmente non stiamo vincendo in Afghanistan, ma rimedieremo il prima possibile». Così ha dichiarato il segretario alla Difesa Usa, James Mattis, in una recente audizione al Senato. È un giudizio insolitamente esplicito, che fa seguito a quello del generale John Nicholson, a capo delle truppe statunitensi e della Nato in Afghanistan, per il quale la più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti si è trasformata in uno «stallo». Per uscirne, il presidente Donald Trump ha delegato al Pentagono le decisioni sulla nuova strategia da adottare nel Paese centro-asiatico. Dovrebbe essere pronta per la metà di luglio, ma sui giornali si discute da settimane intorno al numero di soldati americani da inviare a sostegno degli attuali 8.500 già presenti. Il generale Nicholson a febbraio ha chiesto un «rinforzo» di qualche migliaio di uomini. Gli verranno accordati. Il segretario alla Difesa Mattis è d’accordo, ma invoca una strategia più ampia, regionale, che segnali una discontinuità rispetto al passato. E «con urgenza».

Da dove possa venire una simile discontinuità, non è chiaro. È chiaro invece il paradosso dell’amministrazione Usa: Trump vorrebbe lavarsi le mani del dossier-Afghanistan, ma non può farlo, né può replicare le politiche del predecessore, Barack Obama. C’è l’immagine da superpotenza da tutelare. Verrebbe meno, se si abbandonasse l’Afghanistan così com’è ora: con i Talebani più forti di prima, un governo di unità nazionale litigioso e privo di legittimità, l’economia che arranca, i morti civili che aumentano, la presenza – marginale ma significativa – dello Stato islamico nelle aree a ridosso con la frontiera pachistana, le potenze regionali pronte a colmare il vuoto del disimpegno americano, 2,5 milioni di rifugiati all’estero e 1,5 milioni di sfollati interni.

Eppure l’immagine da superpotenza è già compromessa. A causa dello scarto tra gli obiettivi iniziali e i risultati conseguiti. Ma anche dell’incertezza su quali fossero, e siano oggi, i veri obiettivi della guerra afghana. Uno dei più autorevoli studiosi del Paese, Antonio Giustozzi, insieme ad Ali Mohammad Ali ha esaminato l’impegno degli Usa in Afghanistan dal 2001, quando l’amministrazione Bush ha deciso di rovesciare l’Emirato islamico come reazione agli attentati dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono. Il risultato? Altalene e cambi di passo continui.

Ricapitoliamo: all’inizio l’intervento militare è servito a dare una sonora lezione ad al-Qaeda e ai Talebani, accusati di ospitare lo sceicco saudita Osama bin Laden. Poi è subentrata l’idea di fare dell’Afghanistan una sorta di Corea del Sud dell’Asia centrale, un Paese alleato e malleabile, che garantisse ospitalità ai militari americani per il controllo della regione. Poi si è ritenuto più utile puntare sullo State-building, per accorgersi che è un’operazione che ha costi diplomatici, finanziari e politici molto alti. In seguito, riconosciuta la resilienza delle forze anti-governative, si è arrivati alla conclusione che l’unico modo per uscire a testa alta dal pantano afghano fosse un processo negoziale. Non è mai veramente decollato, e forse è definitivamente tramontato nel maggio 2016, quando il leader dei Talebani, mullah Akhtar Mansour, nominato successore del defunto mullah Omar, è stato polverizzato da un drone americano mentre viaggiava nel Beluchistan pachistano, di ritorno dall’Iran. A dispetto della sua controversa nomina come leader degli studenti coranici, «nessun altro leader politico talebano era meglio posizionato per trascinare un’ampia fetta dei Talebani a sostenere i colloqui di pace», nota Antonio Giustozzi.

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Quelle vittime che sorridono

di Roberto Saviano

Da: espresso.repubblica.it – 26 giugno 2017

saviano fotoLa triste verità dei nostri tempi è che se non esiste una fotografia come prova di un avvenimento, è difficile pensare che sia accaduto davvero. Senza immagini non si comunica nulla, nemmeno la morte. Stentiamo a credere che una bomba sia esplosa con la drammaticità che i superstiti raccontano, se non vediamo immagini di morte che poi saranno utilizzate come simbolo di lutto e atrocità.
E soprattutto se non guardiamo in faccia i protagonisti della tragedia, ovvero i morti, ma dobbiamo guardarli quando erano in vita, nei ritratti che magari, in un momento di felicità, avevano pubblicato sui loro social. Quello che colpisce la nostra sensibilità più di ogni altra cosa, con riguardo non solo agli attentati terroristici ma anche alle sciagure degli ultimi anni (i terremoti che hanno devastato il centro Italia, l’incendio alla Grenfell Tower di Londra), è poter guardare negli occhi le vittime.

Volti spesso sorridenti che noi osserviamo sconvolti sapendo che qualcosa di tragico e improvviso ha posto fine a quelle esistenze. Un camion in corsa, un piccolo commando di folli armati di coltelli di ceramica viola, una bomba devastante. Ma anche un incendio o un terremoto.

Guardiamo negli occhi uomini, donne, bambini, adolescenti e ci sentiamo partecipi di quel lutto, un lutto che sentiamo vicino e che finisce per riguardarci.
Spesso ci vengono raccontate le storie delle persone che non ci sono più. Storie di emigrazione o di anni passati a lavorare per coronare un sogno sfumato in un attimo. Accanto ai volti delle vittime ci sono poi quelli dei carnefici. Volti familiari quelli delle vittime, pelle olivastra i carnefici, capelli nerissimi, in loro stranamente non ci riconosciamo.

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La protesta delle donne contro il vertice G20 è forte e variegata

www.uikionlus.com – 27 giugno 2017

G 20 1Come Associazione delle Donne del Kurdistan in Germania (YJK-E) e Ufficio delle Donne per la Pace (Cenî), condanniamo la politica del G20 ostile alle donne, basata sullo sfruttamento e la repressione. Gli Stati del G20 rappresentano una politica del dominio e un sistema economico che si contrappone in modo distruttivo alle persone, alla natura e alla vita.

I rappresentanti governativi che all’inizio di luglio si incontrano ad Amburgo, sono i rappresentanti del sistema capitalista di economia finanziaria e sfruttamento il cui obiettivo è di scaricare le perdite finanziarie della loro crisi sulle aree e le persone che meno di tutti ne sono responsabili. Già Rosa Luxemburg descriveva che il capitalismo senza lo sfruttamento di sempre nuove fonti – non ancora conquistate dal capitalismo – non può continuare ad esistere. Per questo il sistema economico cerca di penetrare sempre di più in tutti gli ambiti della vita delle persone.

È molto importante riconoscere il nesso tra patriarcato e i problemi sociali, politici ed economici in essere. Il patriarcato rappresenta la prima forma di oppressione. Il dominio dell’uomo sulla donna è stato la prima spaccatura nella società attraverso la quale gli esseri umani sono stati divisi in oppressi e oppressori.
Costruendo su questi rapporti di potere hanno potuto svilupparsi altre forme di oppressione e per questo il patriarcato è parte di ogni struttura di potere e di dominio. La spaccatura patriarcale della società ha causato la prima divisione del lavoro che poi ha portato alla società divisa in classi. Schiavitù e servitù della gleba hanno costruito sulle esperienze dell’oppressione delle donne e anche il capitalismo è potuto nascere solo in base all’oppressione di genere, perfino sviluppandola ulteriormente. Per questo in tutte le forme di oppressione è possibile trovare elementi patriarcali. Per questo una lotta per la liberazione dei generi è sempre anche una lotta contro le forme del sistema capitalista.

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Le Madri per la Pace, le famiglie di Gezi e le donne si uniscono alla Marcia per la Giustizia

www.uikionlus.com – 26 giugno 2017

madri 599x275Le Madri per la Pace si sono unite alla Marcia per la Giustizia con i loro foulard bianchi, ieri, durante il 12 ° giorno di marcia e hanno dichiarato che questa marcia resterà incompleta se non continuerà fino al carcere di Edirne.

È da anni che le madri chiedono giustizia, tutti i giorni, con la pioggia e con il sole, e ora hanno espresso la loro richiesta di giustizia come parte della marcia.

Perihan Akbulut, una delle Madri per la Pace, dovette migrare a Istanbul dopo che il suo villaggio di Çelik, nel quartiere di Derik a Mardin, fu bruciato nel 1993. Akbulut ha dichiarato che da anni sta cercando la pace e la giustizia.
“Stiamo con tutti quelli che chiedono giustizia”, ha detto Akbulut e ha aggiunto che non ci può essere pace senza giustizia. E ancora: “Le carceri sono piene dei nostri figli perché non c’è giustizia. I cimiteri sono pieni di corpi dei nostri figli. La nostra volontà nel parlamento è stata arrestata. Questo paese sarà salvato se viene raggiunta la giustizia. Abbiamo bisogno anche della giustizia per Imralı, se nel paese esistesse giustizia la volontà di 40 milioni di persone sarebbe ascoltata e Abdullah Öcalan non sarebbe più in carcere “.

Akbulut ha detto che tutti i popoli della Turchia dovrebbero difendere la giustizia e ha aggiunto: “Come tutti si sono riuniti durante i tempi di Gezi, tutti dovrebbero riunirsi qui e ora. Come siamo venuti da Istanbul per partecipare a questa marcia, tutti dovrebbero venire e aderire “.

La Madre per la Pace Revşan Dündar dovette migrare a Istanbul quando il suo villaggio nel quartiere di Hizan a Bitlis è stato bruciato nel 1994.

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L’estremismo è il veleno dell’umanità

Associazione Diritti e Frontiere, Rohina Bawer – 16/6/2017

afgblood 150x150L’estremismo in Afghanistan e nel mondo si associa ad una limitazione della mobilità delle donne. In Afghanistan l’estremismo si concretizza in dettagli ancor più sofisticati. Ha un impatto sulla vita delle donne più che altrove, blocca il loro diritto all’istruzione causando ansia e un costante timore di violenza. Spesso le donne si trovano in una condizione di impotenza e insicurezza che ha cambiato la loro vita sino a livelli sgradevoli mai visti. In realtà le donne non hanno alcun controllo sulle proprie vite e soffrono in una società dominata dagli uomini.

L’Afghanistan è un paese che da lungo tempo lotta contro l’estremismo. L’estremismo provoca violenza contro la comunità afgana e ha sempre indirizzato azioni violente contro gli istituti scolastici, i funzionari pubblici, i membri della comunità, le donne ei bambini.

Gli USA ei loro alleati si precipitarono in Afghanistan sotto lo slogan di una “democrazia nascente” e della “guerra al terrore”, ma non è passato molto tempo perché la verità si rivelasse. Il loro progetto si è avvalso di devoti dell’Islam sostenuti finanziariamente per creare un’area instabile che giustificasse la loro occupazione in Afghanistan. La guerra in Afghanistan è stata creata da gruppi estremisti da molti anni che sono stati sostenuti dai paesi imperialisti per mantenere basi e centri di formazione nel paese.

Come risulta dai media, Ashraf Ghani ha raccontato a Tolo news che anche solo nel 2015 e 2016 circa 75.000 civili sono stati uccisi e feriti e ciò segnala un aumento drammatico dell’azione dei gruppi estremisti nella regione.

Oggi molte province dell’Afghanistan sono controllate da gruppi estremisti che rendono la regione instabile e usano la terra delle popolazioni locali per la coltivazione degli oppiacei.

Ahmad, un residente della provincia afgana di Helmend, mi ha detto che “Nella mia provincia ho visto un insegnante di scienza di 19 anni che è stato ucciso per aver insegnato materie miscredenti ai bambini musulmani “.

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Nell’Afghanistan senza pace la nuova minaccia ora è l’Isis

La Stampa – Domenico Quirico 18/6/2017

8291ce59704739013a33b5b68752131a kLPH U11003263459810zED 1024x576LaStampa.itHo sempre pensato che vi fosse nella storia afghana, nella impossibilità, per le grandi potenze che vi si sono accanite, di conquistare qualcosa di incomprensibile per noi, che ci chiamiamo ancora Occidente. Adesso la ennesima sconfitta si avvicina con l’accelerarsi della offensiva di quella grande armata del fanatismo che va ormai dai taleban ad Al Qaeda all’Isis. Ho incontrato questo giovane afghano in Turchia dove molti leader mujaheddin hanno casa e rifugio. Nel suo racconto personale, privato si specchiano tutti i nostri errori.

«Se mio fratello fosse morto di malattia, in un incidente, in guerra, sì! Anche in guerra, nel mio Paese combattiamo da duecento anni, forse troverei una ragione e penserei che le vie di Dio sono tortuose ma giuste e la sua grazia è dura da sopportare sia in cielo sia in terra.

Ma il problema è che le cose non stanno così. Neppure la morte appartiene a mio fratello. Non so a quale causa attribuirla, a quale libro iscriverla. Non c’è nessun legame fra essa e l’esistenza che ha condotto. La sua morte, ammazzato a raffiche di mitra da un commando di taleban davanti al nostro negozio, non ha nulla a che fare con la persona che è stato. Con altrettanta facilità la morte avrebbe potuto sfiorarlo soltanto, o risparmiarlo. Lo ha afferrato senza badarci. Per errore. Senza sapere che era lui. È stato derubato della sua morte. Perché i taleban lo hanno ammazzato per qualche scaffale pieno di dischi. Ma soprattutto perché pensavano fossi io.

«Disteso per terra nella sporcizia della strada, accanto alla sua moto, in una confusione di gente che fuggiva e urlava, gli occhi sbarrati dalla paura, una maschera di stupore sopra la maschera barbuta e sconvolta del suo volto: così mi ricordo di aver visto mio fratello il mattino in cui i taleban lo hanno ammazzato. Guarda la sua foto. Questo è lui, un ragazzone buono e simpatico non si vede? Le labbra imbronciate… non badarci, sono così i ragazzi, cercano di fare lo sguardo torbido per darsi importanza. Era un ragazzo del suo tempo. Sì sì! So che questo in Afghanistan non ha lo stesso significato che da voi. Si parlava della guerra e di quanto era accaduto nel nostro Paese e di quello che purtroppo sta di nuovo per accadere: ma lui non aveva paura, rifiutava di sacrificare il presente a un futuro imprevedibile, qualunque sia.

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