www.reset.it – 23 giugno 2017
«Attualmente non stiamo vincendo in Afghanistan, ma rimedieremo il prima possibile». Così ha dichiarato il segretario alla Difesa Usa, James Mattis, in una recente audizione al Senato. È un giudizio insolitamente esplicito, che fa seguito a quello del generale John Nicholson, a capo delle truppe statunitensi e della Nato in Afghanistan, per il quale la più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti si è trasformata in uno «stallo». Per uscirne, il presidente Donald Trump ha delegato al Pentagono le decisioni sulla nuova strategia da adottare nel Paese centro-asiatico. Dovrebbe essere pronta per la metà di luglio, ma sui giornali si discute da settimane intorno al numero di soldati americani da inviare a sostegno degli attuali 8.500 già presenti. Il generale Nicholson a febbraio ha chiesto un «rinforzo» di qualche migliaio di uomini. Gli verranno accordati. Il segretario alla Difesa Mattis è d’accordo, ma invoca una strategia più ampia, regionale, che segnali una discontinuità rispetto al passato. E «con urgenza».
Da dove possa venire una simile discontinuità, non è chiaro. È chiaro invece il paradosso dell’amministrazione Usa: Trump vorrebbe lavarsi le mani del dossier-Afghanistan, ma non può farlo, né può replicare le politiche del predecessore, Barack Obama. C’è l’immagine da superpotenza da tutelare. Verrebbe meno, se si abbandonasse l’Afghanistan così com’è ora: con i Talebani più forti di prima, un governo di unità nazionale litigioso e privo di legittimità, l’economia che arranca, i morti civili che aumentano, la presenza – marginale ma significativa – dello Stato islamico nelle aree a ridosso con la frontiera pachistana, le potenze regionali pronte a colmare il vuoto del disimpegno americano, 2,5 milioni di rifugiati all’estero e 1,5 milioni di sfollati interni.
Eppure l’immagine da superpotenza è già compromessa. A causa dello scarto tra gli obiettivi iniziali e i risultati conseguiti. Ma anche dell’incertezza su quali fossero, e siano oggi, i veri obiettivi della guerra afghana. Uno dei più autorevoli studiosi del Paese, Antonio Giustozzi, insieme ad Ali Mohammad Ali ha esaminato l’impegno degli Usa in Afghanistan dal 2001, quando l’amministrazione Bush ha deciso di rovesciare l’Emirato islamico come reazione agli attentati dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono. Il risultato? Altalene e cambi di passo continui.
Ricapitoliamo: all’inizio l’intervento militare è servito a dare una sonora lezione ad al-Qaeda e ai Talebani, accusati di ospitare lo sceicco saudita Osama bin Laden. Poi è subentrata l’idea di fare dell’Afghanistan una sorta di Corea del Sud dell’Asia centrale, un Paese alleato e malleabile, che garantisse ospitalità ai militari americani per il controllo della regione. Poi si è ritenuto più utile puntare sullo State-building, per accorgersi che è un’operazione che ha costi diplomatici, finanziari e politici molto alti. In seguito, riconosciuta la resilienza delle forze anti-governative, si è arrivati alla conclusione che l’unico modo per uscire a testa alta dal pantano afghano fosse un processo negoziale. Non è mai veramente decollato, e forse è definitivamente tramontato nel maggio 2016, quando il leader dei Talebani, mullah Akhtar Mansour, nominato successore del defunto mullah Omar, è stato polverizzato da un drone americano mentre viaggiava nel Beluchistan pachistano, di ritorno dall’Iran. A dispetto della sua controversa nomina come leader degli studenti coranici, «nessun altro leader politico talebano era meglio posizionato per trascinare un’ampia fetta dei Talebani a sostenere i colloqui di pace», nota Antonio Giustozzi.