Più di 160 persone sono state arrestate dalla polizia oggi a Istanbul in seguito agli scontri scoppiati tra le forze dell’ordine e un gruppo di manifestanti che volevano radunarsi in piazza Taksim, per celebrare il primo maggio nonostante il divieto delle autorità. Lo riferisce l’agenzia di stampa Dogan.
In precedenza l’emittente Ntv aveva parlato di circa 70 fermi nel distretto di Besiktas.
Gli agenti hanno utilizzato i gas lacrimogeni contro un gruppo di manifestanti che si era radunato nel quartiere Mecediyekoy, sventolando delle bandiere con degli slogan contro il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan.
La Turchia celebra il potere del Labour Day, due settimane dopo un referendum che ha rafforzato significativamente i poteri del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Attualmente stiamo vivendo le conseguenze della globalizzazione neoliberista che conferisce al capitale potere illimitato, genera in tutto il mondo disuguaglianze, sfruttamento, espulsione e distruzione degli spazi vitali ecologici e porta avanti guerre. Questa disuguaglianza ha conseguenze drammatiche e produce vittime in tutto il mondo. Attraverso povertà, guerra e terrore attualmente milioni di persone sono costrette a lasciare il proprio Paese. Davanti alle porte dell’Europa incontrano un vento di odio e discriminazione. Anche in Germania nella società vengono alimentate paure.
L’incomprensione porta all’esclusione e impedisce una convivenza sociale pacifica. La politica (economica) responsabile delle drammatiche condizioni di vita delle persone, che a livello mondiale promuove inesorabile sfruttamento e espulsione – o quanto meno lo accetta e lo tollera – invece non viene messa in discussione e così vengono oscurate le reali cause della fuga. È questo che rende possibile che condizioni difficili nella società vengano strumentalizzate da partiti e organizzazioni di destra e che le divisioni sociali vengano rese sempre più profonde. È necessario opporre a questo con determinazione i valori della democrazia, dell’uguaglianza e della pace, mostrare solidarietà internazionale e rivendicare con forza un ordinamento sociale democratico e partitario.
SOSTENIAMO HAWCA, CHE GESTISCE UNA CASA PER DONNE MALTRATTATE A KABUL, DOVE OGNI ANNO OLTRE 200 DONNE TROVANO PROTEZIONE E AIUTO LEGALE E PSICOLOGICO DI SEGUITO L’APPELLO DI NAJIA KARIMI, LA DIRETTRICE DI HAWCA.
Vi sto scrivendo da Kabul, dove l’Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan HAWCA (Associazione Umanitaria per le Donne e i Bambini dell’Afghanistan) negli ultimi 13 anni gestisce un rifugio di emergenza per donne. Tuttavia, dovrà chiuderlo entro pochi giorni, a meno che non si trovino nuovi finanziamenti.
Ciò significherebbe non poter dare più sostegno a ragazze come Zarmina, che era stata costretta a sposarsi con un membro talebano all’età di 14 anni. Dopo essere sfuggita alle continue violenze sessuali e domestiche, ha ricevuto cure mediche urgenti e un percorso di riabilitazione nel rifugio ed è ritornata a scuola. Non avendo nessuno che la sostiene, Zarmina dipende da HAWCA. Se ritornasse al suo villaggio, i talebani la ucciderebbero mediante lapidazione.
Le indagini sull’assassinio a Parigi di Sakine Cansız, Fidan Doğan e Leyla Şaylemez sono state riaperte su appello degli avvocati contro la chiusura del caso a gennaio a causa della morte sospetta dell’unico sospetto.
Il 9 gennaio 2013 il membro fondatore del PKK Sakine Cansız (Sara), la rappresentante del KNK (Congresso Nazionale del Kurdistan) e l’esponente del movimento curdo dei giovani Leyla Şaylemez (Ronahi) sono state uccise con tre proiettili in testa nel cuore di Parigi capitale della Francia.
Il solo sospettato arrestato nel caso, il sicario Ömer Güney, è morto il 17 dicembre 2016 in circostanze sospette. Secondo gli avvocati del sospettato , Guney è morto a causa di una infezione ai polmoni. È stato anche affermato che il sospettato aveva una malattia celebrale, ma non ci sono state dichiarazioni fino ad oggi che la sua salute stava peggiorando.
Non c’è stata ancora una dichiarazione ufficiale sulla causa della sua morte. Ma questa morte si è verificata solo alcune settimane prima che il processo era in procinto di iniziare. Il processo avrebbe dovuto iniziare il 23 gennaio. A fine gennaio, agli avvocati dei familiari delle tre donne curde era stato notificato che il caso contro Ömer Güney, da tenersi al tribunale penale di Parigi, era stato chiuso a causa della morte dell’unico sospettato.
Protesta la portavoce del Ypj Nesrin Abdullah: gli Stati Uniti fermino i raid dell’esercito di Erdogan.
Erdogan continua il massacro. Con il silenzio-assenso di tutti (solo la Russia ha timidamente protestato l’altro giorno). Ma adesso le donne che stanno affrontando a viso aperto lo Stato Islamico in Siria non ci stanno: le combattenti curde sono pronte a ritirarsi dall’offensiva in corso a Raqqa, in Siria, contro i jihadisti dello Stato islamico (Isis), se gli Stati Uniti non faranno nulla di concreto per fermare i raid aerei della Turchia contro le forze curde.
È quanto ha detto la portavoce del battaglione femminile delle Unità di Difesa del popolo (Ypj), Nesrin Abdullah, dopo gli attacchi di giorni scorsi messi a segno da Ankara, costati la vita a 28 persone, tra cui 20 combattenti curdi, 12 donne e 8 uomini. Due giorni fa, le Unità di difesa del popolo (Ypg) hanno chiesto di imporre una no-fly zone su Rojava, il Kurdistan siriano, accusando Ankara di “aiutare i terroristi”.
“Se gli Stati Uniti o la coalizione o il portavoce Usa riesce solo a dire ‘siamo preoccupati o non siamo contenti’ (dei raid turchi, ndr), a noi non va bene – ha detto Abdullah a Sputnik in lingua turca – se questa è la reazione, noi non la accettiamo. Significa che accettano quello che ci è stato fatto. “Fino ad oggi abbiamo combattuto al fianco della coalizione contro il terrorismo Isis – ha proseguito – siamo ancora impegnate in questa lotta. Ma la nostra gente aspetta una risposta da noi sul perchè la coalizione non sta dando prova di una reazione concreta verso la Turchia. Se la coalizione non dà prova di una reazione concreta allora ritireremo le nostre forze da Raqqa. La coalizione deve convincere la nostra gente. Non siamo il bastone di nessuno con cui colpire il loro nemico”. Abdullah ha quindi ricordato che la Turchia è un Paese Nato e che un’assenza di risposta significa che l’Alleanza atlantica ha approvato gli attacchi di Ankara.
27 e 28 aprile, due giorni vergognosi nella storia del nostro paese ricordano le prigioni, le tortura, l’uccisione di migliaia di persone innocenti, le fosse comuni, i massacri, gli stupri, il saccheggio dei tesori nazionali, vendendo del nostro paese agli stranieri, e centinaia di altri crimini e le slealtà. Quest’anno, questo giorno grave e luttuoso sarà marcato dall’arrivo a Kabul del “macellaio di Kabul” Gulbuddin Hekmatyar. Sarà come sale sulle ferite di migliaia di persone vittime della lotta senza pietà sua e dei suoi compagni jehadisti.
Gli Stati Uniti, dopo averli finanziati per decenni, quando hanno invaso l’Afghanistan hanno imposto i loro lacchè jehadisti. Questi banditi sono tornati al potere come vincitori indiscussi, senza alcuna responsabilità per le loro azioni criminose del passato, soprattutto durante il loro terribile regime di sangue e tradimento dal 1992 al 1996, e hanno continuato il saccheggio. La loro mafiosa dominazione e oppressione ha aiutato la ripresa dei talebani, della rete di Haqqani e di altri gruppi terroristici che hanno causato un bagno di sangue in Afghanistan negli ultimi dieci anni e mezzo.
Negli ultimi 16 anni, gli invasori statunitensi e la NATO hanno utilizzato ogni occasione per tentare di ripulire il sangue dai volti dei loro agenti criminali; alcuni anni fa, i leader del 27 e 28 aprile si perdonarono reciprocamente nella tana dei lupi (Parlamento); Dostum “si è scusato” per il “impatto negativo” che le sue azioni avevano sulle persone dopo che fu scelto come vice di Ghani. Poche ore dopo che è stato firmato un accordo di pace tra il governo e il partito di Gulbuddin, Qareeb ul-Rahman Saeed, gli assassini di Gulbuddin del Hezbe Islami, si sono scusati con “il popolo e soprattutto le famiglie che avevano sofferto durante la guerra civile”. Diversi leader di partito hanno subito rifiutato le scuse. Questi traditori hanno inscenato queste “scuse” su ordine dei loro padroni e credono che in questo modo si risolveranno i conti con la gente. Ma queste persone non sono bambini che hanno rotto tazze e piatti e possono risolvere il problema con una scusa, queste persone sono responsabili di innumerevoli massacri, tradimenti, saccheggi e la totale distruzione del nostro paese. Per queste azioni, dovrebbero essere concessa la pena massima in un tribunale popolare, perché solo allora il nostro Paese afflitto potrebbe guardare verso un futuro pacifico senza spargimento di sangue.
Gli attacchi contro i civili avvenuti nei primi tre mesi del 2017 e l’incapacità del governo di garantire un’adeguata protezione alla popolazione confermano che l’Afghanistan non è un paese sicuro dove rimandare i rifugiati.
“In un periodo in cui il numero delle vittime civili rimane elevato e in cui le donne e i bambini subiscono le conseguenze peggiori della violenza, è insensato dire come fanno molti governi che l’Afghanistan è un paese sicuro dove rimandare i rifugiati”, ha dichiarato Horia Mosadiq, ricercatrice di Amnesty International sull’Afghanistan.
Dal ritiro, alla fine del 2014, delle forze militari internazionali, la situazione della sicurezza nel paese si è fortemente deteriorata, il numero delle vittime civili è salito e la crisi degli sfollati interni si è fatta più acuta. I talebani controllano una parte di territorio mai così ampia dal 2001.
La Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha recentemente diffuso un rapporto che documenta 715 morti e 1466 feriti nel primo quadrimestre del 2017.
Il numero più elevato di vittime civili è stato registrato nella capitale Kabul, seguita dalle province di Helmand, Kandahar e Nangarhar.
I telebani controllano quai metà del territorio afghano. Il fallimento della ‘exit strategy’ Usa con delega al governo di Kabul. Il 22 aprile l’attacco alla base di Mazar-e Sharif, con oltre 150 soldati afghani uccisi. Lunedì 24 aprile, l’attentato con autobomba all’ingresso di Camp Chapman. L’Italia con 1000 militari sul campo, e sono guai.
Un mese fa la perdita di Sangin, nella provincia meridionale di Helmand, confine con il Pakistan. Il 22 aprile l’attacco alla base di Mazar-e Sharif, nella parte opposta del Paese, con oltre 150 soldati afghani uccisi. Lunedì 24 aprile, neppure il tempo di contare i soldati uccisi, altro attentato con autobomba all’ingresso di Camp Chapman, nella provincia orientale. La geografia dell’attacco talebano è completa, a tutto campo. Prova di forza mentre lo Stato Islamico cerca di dare concretezza al suo progetto dell’emirato islamico del Khorasan. Gli integralismi al momento si combattono tra loro ma per la presenza occidentale (Italia compresa), sommano la minaccia. Mentre al governo di Kabul rimane solo il controllo del 57% del paese. Poco più di mezzo Afghanistan, a diminuire. Soltanto l’anno precedente ne controllava il 72 per cento. L’avanzata del gambero miliardi di dollari e migliaia di morti dopo. E persino nel corrottissimo governo afghano, il massacro di Mazar-e Sharif è sembrato troppo: dimissioni del ministro della Difesa, Abdullah Habibi, e del capo dello stato maggiore dell’esercito, Qadam Shah Shaheem. Per quel che valevano.
Venerdì 21 aprile, un commando talebano ha trucidato 150 soldati afghani, in una delle più importanti basi militari del loro esercito. L’attentato è avvenuto venerdì pomeriggio in Afghanistan nella provincia di Balkh, nel nord del paese, vicino a Mazar-e-Sharif, il quartier generale Shaheen, del 209esimo reggimento delle forze armate afghane che presidia gran parte del nord del paese. Stando a quanto detto dalle forze armate locali, 10 erano i talebani che, vestiti con uniformi ufficiali e dotati di documenti apparentemente ineccepibili, avrebbero attaccato la base militare afghana mentre l’esercito si trovava a mensa o in moschea.
Secondo un rapporto della NATO, il governo di Kabul non controlla più il 57% dei distretti dell’Afghanistan. I sopravvissuti dell’attacco sono stati intervistati in ospedale da un’agenzia di stampa francese. Costoro hanno espressamente posto dei seri dubbi sugli scarsi controlli fatti nella base militare, tanto da permettere a un manipolo d’insorti di poter entrare indisturbati armati fino ai denti. Il sospetto di complicità interne tra alcuni funzionari dello Stato afghano e i talebani è molto forte.
In una dichiarazione, il generale americano John Nicholson, che comanda la missione NATO di risoluzione in Afghanistan, ha confermato la fine delle operazioni delle forze speciali afghane addestrate dalle forze occidentali. Nonostante il ritiro dall’Afghanistan della maggior parte delle forze armate occidentali nel 2014, gli insorti continuano a guidare un esercito contro lo stato afghano, il quale malgrado i consigli della NATO e degli Stati Uniti, è sempre più preda della corruzione e dell’inettitudine.
Dall’intervento militare statunitense in Afghanistan alla minaccia di Daesh All’indomani dell’attentato terroristico al Word Trade Center di New York e del Pentagono del 2001, gli Stati Uniti decisero d’intervenire militarmente in Afghanistan ponendo come obbiettivo ufficiale la sconfitta dello stato talebano e di Osama Bin Laden, la mente dell’attacco alle Twin Towers e guida del noto gruppo terroristico Al-Qaeda. In realtà, ben altri erano gli scopi dell’attacco militare statunitense ed erano tutti votati agli interessi commerciali e strategici vista la vicinanza della Cina, Pakistan, Iran e India. Stabilire quindi una presenza nel territorio era per gli Stati Uniti fonte di controllo e di strategia politica oltre che economica.
Il presidente riprende in mano il dossier afghano dopo la fallimentare exit strategy di Obama. Verrà chiesto un nuovo sforzo anche al nostro paese?
Il 23 marzo la perdita di Sangin, nella strategica provincia meridionale di Helmand, situata al confine con il Pakistan e dove si concentra oltre il 40% della produzione mondiale di oppio. Il 22 aprile l’attacco alla base militare di Mazar-e Sharif, nella provincia settentrionale di Balkh con oltre 150 soldati afghani uccisi. Ieri, lunedì 24 aprile, l’attentato con autobomba all’ingresso di Camp Chapman, nella provincia orientale di Khost.
Con queste tre azioni condotte nell’ultimo mese i talebani hanno certificato la loro costante ascesa in Afghanistan. All’ombra dei tentativi dello Stato Islamico di dare concretezza al progetto dell’emirato islamico del Khorasan (ISIS Wilayat Khorasan), l’organizzazione oggi guidata dal mullah Haibatullah Akhundzada sta continuando a recuperare terreno. Secondo una stima degli Stati Uniti datata novembre 2016, allo stato attuale il governo di Kabul controlla in modo pressoché totale solo il 57% del paese rispetto al 72% del 2015. È il massimo livello di espansione territoriale dei talebani dall’arrivo delle truppe americane nel 2001.
La mattanza di Mazar-e Sharif non poteva non avere conseguenze sui vertici della Difesa afghana. La vergogna del massacro, compiuto da un gruppo di insorti che hanno potuto colpire indisturbati perché indossavano uniformi delle forze armate afghane, ha portato alle dimissioni del ministro della Difesa, Abdullah Habibi, e del capo dello stato maggiore dell’esercito, Qadam Shah Shaheem.
La strategia di Trump in Afghanistan L’ufficializzazione del loro passo indietro è arrivata ieri nelle stesse ore in cui a Kabul è atterrato Jim Mattis (nella foto in apertura), segretario della Difesa americano, al termine di un tour di visite che negli ultimi giorni lo aveva portato in Arabia Saudita, Egitto, Israele, Qatar e Gibuti.