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Autore: Anna Santarello

Afghanistan, ora i talebani vogliono piantare alberi

Greenreport.it – 27 febbraio 2017

Afghanistan capo dei Talebani 320x234Il leader dei talebani: «Il Profeta dell’Islam ci ha, praticamente e verbalmente, incoraggiato a piantare alberi»

I talebani non sono certo famosi per il loro rispetto per l’ambiente: per la coltvazione, il controllo e il commercio illegale del papavero da oppio hanno disboscato intere vallate e con la loro furia settaria iconoclasta hanno distrutto patrimoni dell’umanità come i Buddha di Bamiyan, ma ora il loro capo, il mullah Hibatullah Akhundzada, più noto come leader religioso che come guerriero, ha esortato la popolazione civile e i combattenti a «Piantare uno o più alberi da frutta o non da frutta per l’abbellimento della Terra e a beneficio delle creazioni di Allah l’Onnipotente».

La deforestazione in Afghanistan è un problema gravissimo, acuito da guerra, povertà e cambiamento climatico: gli alberi vengono abbattuti per riscaldarsi o per il commercio illegale del legname. Le dichiarazioni dei talebani su tematiche ambientali sono rarissime e per questo quanto detto da Akhundzada, che è diventato loro leader nel maggio 2016, è importante: nel suo “Messaggio speciale” di ieri ha affrontato temi che potrebbero prefigurare una svolta per la fase post-conflitto e in netto contrasto con la solita retorica guerresca contro il governo di Kabul è la coalizione della Nato che lo sostiene.

«Piantare alberi volge un ruolo importante nella protezione dell’ambiente, per lo sviluppo economico e la bellezza della terra – ha detto il mullah talebano in una dichiarazione pubblicata dall’ Afghan Taliban Voice of Jihad  – Piantare alberi e l’agricoltura sono considerati azioni che danno sia un bene che un beneficio terreno, così come immensi frutti in seguito».

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Kunduz, ucciso governatore ombra dei talebani

Redazione ANSA – KABUL, 26 febbraio 2017

6e0dccf188935c3c5b1b26eec57ed7afNell’attacco di un drone operato dagli Usa.

Il potente ‘governatore ombra’ dei talebani della provincia di Kunduz (Afghanistan settentrionale), Mullah Sallam, è stato ucciso oggi nell’attacco di un drone operato dagli Usa. Lo ha reso noto un alto ufficiale della polizia afghana.

In una conferenza stampa il generale Sher Aziz Kamawal, comandante della regione nord-orientale, ha indicato che le sue fonti nel distretto di Dasht Arch hanno confermato senza ombra di dubbio che i razzi sparati dal velivolo senza pilota hanno ucciso proprio il leader talebano più temuto di Kunduz.

Nell’attacco, ha infine detto, “sono morti il Mullah Sallam, suo fratello e otto altri talebani”. il ‘governatore ombra’ dell’Emirato islamico dell’Afghanistan era in carica da alcuni anni e sotto la sua guida per due volte gli insorti sono riusciti ad entrare nel capoluogo, Kunduz City.

Alti tassi di mortalità materna in Afghanistan

Rawanews da The Guardian – Sune Engel Rasmussen – 25 febbraio, 2017

mother child afghan newborn 150x150Una ricerca inedita di UN Population Fund suggerisce che i dati sulla mortalità materna del paese possono essere superiori a quelli conosciuti.

Per anni, il calo dei tassi di mortalità tra le donne in gravidanza è stato considerato come uno dei grandi risultati degli aiuti stranieri in Afghanistan.

In realtà, però, il numero di donne afghane che muoiono durante la gravidanza o il parto può essere più di due volte più alto di quello reso noto dai donatori.

Dal 2010, i dati pubblicati hanno mostrato tassi di mortalità materna di 327 ogni 100.000 nati vivi, un calo significativo dai 1.600 nel 2002. Eppure, recenti indagini mostrano un quadro diverso.

In uno studio non pubblicato, il governo afgano ha rilevato un livello medio di mortalità materna tra 800 e 1.200 per ogni 100.000 nati vivi, secondo gli operatori umanitari a Kabul che hanno visto la ricerca.

Se queste cifre fossero confermate, questo significherebbe che le donne in Afghanistan – nonostante più di 15 anni di aiuti internazionali volti a migliorare i dati della mortalità materna – possono trovare la morte per complicazioni durante il parto a tassi simili a quelli della Somalia e del Ciad; tassi superati solo dal Sud Sudan.

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Afghanistan, jihadisti di lotta e di governo

dal Blog di Enrico Campofreda.

trafficoIl caso Hekmatyar è emblematico non solo per la vociferata amnistia di cui dovrebbe godere uno dei più noti warlord mediorientali, da più parti accusato di crimini contro l’umanità, ma per il suo ingresso con tutti gli onori nel quadro istituzionale del Paese. Certo la strada dell’oblìo verso le nefandezze del recente passato della storia afghana aveva già avuto precedenti, seppure meno illustri, con l’amministrazione Karzai. Anni addietro alcuni signori della guerra come Khalili e Fahim erano stati perdonati ed elevati al rango di vicepresidenti, Sayyaf medesimo era, ed è, presente nella Loya Jirga.

I criminali Rabbani e Massud furono il primo presidente, l’altro osannato come eroe. In quest’ottica, dunque, non ci sono state sostanziali trasformazioni da trent’anni a questa parte; l’ultimo esempio è Dostum, vicepresidente in carica, voluto da Ghani. Ultimamente il generale buono per ogni stagione è un po’ in difficoltà per storie di stupri compiuti da alcune sue guardie del corpo verso donne uzbeke di clan rivali ed è stato invitato dal presidente a farsi da parte. Non è detto che obbedirà, perché i suoi kalashnikov hanno un peso nei conciliaboli.
Ghani lo sa: l’ha coptato per questa qualità. I boss della guerriglia hanno fatto da padroni e sono rimasti sulla breccia anche grazie alle continue ingerenze esterne nel territorio afghano compiute prima dai sovietici poi dalla Nato.
Tantoché i mujaheddin, e ora i taliban, battono e ribattono sul tasto della resistenza allo straniero per sostenere le proprie azioni armate e fare proseliti fra una popolazione stremata e confusa.

Eppure le narrazioni mainstream sull’Afghanistan – magari non tutte ma quelle filogovernative sì – si sono basate su informazioni di comodo finalizzate ad avallare il disegno statunitense di esportazione di “democrazia”.
Le presidenze post talebane di Karzai e Ghani, eletti e rieletti grazie a brogli elettorali, non hanno pacificato la vita interna, né migliorato le condizioni sociali, sperperando i fondi della comunità internazionale con speculazioni gestite da potentati locali, molti dei quali sono per l’appunto signori della guerra, trasformati caso per caso in signori degli affari. Quelle narrazioni non dicono che costoro occupano posti di potere e con la propria violenza e il fondamentalismo ideologico impediscono il processo di trasformazione promesso con tanto di convention e assisi organizzate per il mondo dal governo locale e dai protettori occidentali.
L’inserimento istituzionale di Hekmatyar, che potrebbe fare il pontiere con la componente talebana dialogante, s’accompagna a un avvicinamento della diarchia Ghani-Abdullah al partito Hezb-e Islami, utile al piano di pacificazione. Dallo scorso autunno questo partito ha ripreso una meticolosa propaganda nelle aree dov’è storicamente radicato (Herat, Kunduz) e, chi ne segue da anni il percorso politico, pensa che giocherà con l’attuale governo uno scambio su due questioni: prigionieri e rifugiati.
Tuttora un pezzo della militanza combattente di Hezb è carcerata. Secondo l’agenzia Onu che su quei territori elabora statistiche (Unama) una parte di costoro è computata come talebani. Sarebbero oltre cinquemila combattenti.

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Rapporto annuale 2016-2017 / Medio-Oriente e Africa del Nord: Afghanistan

Amnesty International, Rapporto Annuale 2016/2017.

Copertina Rapporto 2016 2017 600x825 3 150x150Repubblica Islamica dell’Afghanistan

Capo di stato e di governo: Mohammad Ashraf Ghani Ahmadzai

L’intensificarsi del conflitto ha provocato diffuse violazioni dei diritti umani e abusi. Migliaia di civili sono stati uccisi, feriti o sfollati a causa delle violenze, mentre la costante insicurezza ha limitato l’accesso a istruzione, sanità e altri servizi. I gruppi armati d’insorti si sono resi responsabili della maggior parte delle vittime civili, ma anche le forze filogovernative hanno ucciso e ferito civili. Le forze antigovernative e quelle filogovernative hanno continuato a usare minori come combattenti. Il numero di sfollati si è attestato a 1,4 milioni (più del doppio rispetto al 2013), mentre circa 2,6 milioni di rifugiati afgani vivevano fuori dal paese, molti in condizioni deplorevoli.

È perdurata la violenza contro donne e ragazze ed è stato rilevato un aumento di punizioni pubbliche di donne da parte di gruppi armati, anche con esecuzioni e fustigazioni. Attori statali e non statali hanno continuato a minacciare i difensori dei diritti umani e a impedire loro di svolgere il proprio lavoro; i giornalisti hanno affrontato violenze e censura. Il governo ha continuato a effettuare esecuzioni, spesso dopo processi iniqui.

CONTESTO

A gennaio, i rappresentanti di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti hanno tenuto colloqui su una road map per la pace con i talebani. A gennaio si è svolta una conferenza a Doha, alla presenza di 55 partecipanti di alto livello provenienti da diversi contesti a livello internazionale, tra cui i talebani. In quell’occasione, una delegazione della commissione politica dei talebani con sede a Doha ha ribadito che un processo di pace formale sarebbe potuto iniziare solo dopo che le truppe straniere avessero lasciato il paese. Ha inoltre posto altre precondizioni, tra cui la cancellazione dei nomi dei leader talebani dalla lista delle sanzioni delle Nazioni Unite.

A febbraio, il presidente Ghani ha nominato ministro della Giustizia il noto avvocato per i diritti umani Mohammad Farid Hamidi, mentre il generale Taj Mohammad Jahid è stato nominato ministro dell’Interno. Il presidente Ghani ha creato un fondo per sostenere le donne sopravvissute alla violenza di genere, al quali i membri del governo hanno contribuito versando il 15 per cento del loro stipendio di febbraio.

A marzo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato per un altro anno il mandato della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UN Assistance Mission in Afghanistan – Unama); il Segretario generale delle Nazioni Unite ha nominato Tadamichi Yamamoto come rappresentante speciale dell’Unama.

Dopo anni di negoziati di pace tra il governo e Hezb-i-Islami, il secondo più grande gruppo di insorti del paese, il 29 settembre il presidente Ghani e Gulbuddin Hekmatyar, alla guida del gruppo, hanno firmato un accordo di pace che concedeva a quest’ultimo e ai suoi combattenti l’amnistia per presunti crimini di diritto internazionale e permetteva il rilascio di alcuni prigionieri di Hezb-i-Islami.

L’instabilità politica è aumentata tra le crescenti spaccature all’interno del governo di unità nazionale, tra i sostenitori del presidente Ghani e quelli del capo dell’esecutivo Abdullah Abdullah. A ottobre, l’Eu ha organizzato una conferenza internazionale di donatori per sostenere economicamente l’Afghanistan nei prossimi quattro anni. La comunità internazionale ha promesso circa 15,2 miliardi di dollari Usa per aiutare l’Afghanistan in settori quali la sicurezza e lo sviluppo sostenibile. Poco prima della conferenza, l’Eu e l’Afghanistan hanno sottoscritto un accordo che permette l’espulsione di un numero illimitato di richiedenti afgani che non hanno ottenuto l’asilo, nonostante il peggioramento della situazione della sicurezza nel paese.

Sono stati espressi timori per la progressiva crisi economica, dovuta alla diminuzione della presenza internazionale nel paese e all’aumento della disoccupazione.

A settembre e ottobre, i talebani hanno improvvisamente aumentato gli attacchi nel tentativo di conquistare grandi province e città. A ottobre si sono impadroniti di Kunduz: durante l’operazione sono state tagliate le forniture di energia elettrica e di acqua, gli ospedali hanno esaurito i farmaci ed è aumentato il numero delle vittime civili. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (United Nations Office for Coordination of Humanitarian Affairs – Unocha) ha registrato circa 25.000 sfollati interni nel giro di una settimana da Kunduz, in fuga verso la capitale Kabul e i paesi limitrofi.

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Il muro della vergogna frontiera tra la Turchia e il Rojava

Uiki – Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia.

muro 2 599x275Il muro della vergogna frontiera tra la Turchia e il Rojava – mentre il muro americano al confine con il Messico ha ricevuto molta attenzione suscitando delle critiche e delle proteste, la costruzione da parte della Turchia di un muro di 3 metri e alto e più di 900 km al confine con la Siria si è svolta senza preavviso.

Il primo ministro turco Binali Yildirim ha espresso critiche nei confronti del muro tra gli Stati Uniti e Messico, che molti consideravano un’ipocrisia: “state costruendo muri, ma i muri non sono mai una soluzione. Saranno finalmente abbattuti come il muro di Berlino che si trovava lì per anni “, ha detto il primo ministro turco in occasione dell’incontro con il suo omologo britannico Theresa May, a gennaio.

Il muro di cemento sormontato di filo spinato è stato criticato dall’amministrazione autonoma del nord della Siria (Rojava), che ha dichiarato che si tratta di uno sforzo per dividere i curdi che vivono da una parte e dall’altra della frontiera e anche una violazione della sovranità popolare, che è in corso di costruzione sul suolo siriano.

Il Ministero degli esteri siriano e degli espatriati ha anche condannato il muro e ha chiamato il segretario generale delle Nazioni Unite e il presidente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a far cessare le aggressioni della Turchia qualificando il muro come “violazione del principio dei Rapporti di buon vicinato” secondo l’agenzia Sana. La costruzione del muro di 367 km al confine tra Siria e Turchia è iniziato nel 2014 e dovrebbe essere completata entro la prima metà di questo 2017 secondo una previsione del ministro della difesa Fikri Isik del Novembre dello scorso anno.

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Meena, fonte di ispirazione per tutta l’umanità

di Edu Montesanti, per l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane nel trentesimo anniversario dell’assassinio della sua fondatrice.

250px Meena founder of RAWA speaking in 1982A trent’anni dalla sua scomparsa voglio rendere omaggio a un’eroina dell’Afghanistan e del mondo; Meena, fondatrice dell’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, assassinata nel 1987, è stata un esempio di passione e coraggio per la difesa di cause umanitarie come la fame, il freddo, le malattie e gli stupri. La sua vita è una fonte di ispirazione in tutti gli angoli del pianeta. Il venezuelano Alí Primera, compositore preferito di Hugo Chavez, cantava, con tutta la sua forza: “Coloro che muoiono per la vita non moriranno mai”. Queste parole descrivono molto bene la vita di Meena.

Trent’anni fa Meena ha lasciato questo mondo e noi sentiamo molto la sua mancanza; tutto il suo lavoro e la sua resistenza non erano dedicati solo alla nobile causa afghana. Meena ha dato la sua vita per il suo popolo ma anche a ideali universali. Il suo amore e la sua forza, il suo prezioso lavoro e la resistenza, la sua grazia senza pari, la sua passione e il suo coraggio sono esempi per tutta l’umanità. Meena vive in ogni angolo del pianeta in cui qualcuno soffre la fame, un bambino piange, una persona è malata, una donna è violentata e una vita è calpestata.

In America Latina abbiamo una lunga storia di resistenza contro potenze straniere e vigliacchi locali, burattini dell’impero; la nostra storia è simile a quella che il popolo afghano ha dovuto affrontare fin dal XIX secolo. Lotte comuni, perdite comuni, sogni comuni, vittorie comuni.
La vita e il sangue di Meena gridano oggi tra le pietre afghane per il suo paese invaso e depredato come per tutta l’umanità che amava. Meena e Alí Primera, lei afghana e lui “figlio” di Hugo Chavez, oggi, avevano ideali comuni di giustizia sociale, di libertà e pace. Meena ci manca da trenta lunghi anni; è morta così giovane ma vivrà per sempre.

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Kabul, sussurri e grida sul ritorno del macellaio

di Enrico Campofreda – Agoravox

hikmatyar 1 1e39cProcede speditamente lo sdoganamento del macellaio di Kabul e il suo ingresso nel “governo democratico” di Ghani. Dallo scorso settembre Gulbuddin Hekmatyar, leader del partito islamista, uno dei più noti e sanguinari signori della guerra, era corteggiato dal presidente afghano per un piano di pacificazione nazionale.
Piano che prevede di stabilire accordi coi talebani, innanzitutto per giungere a una tregua nelle province più focose dell’insorgenza (Helmand, Kandahar, Kunduz, Balch, Wardak) e strada facendo ipotizzare una divisione dei ruoli fra un governo di facciata che mantiene rapporti internazionali e i reali controllori del territorio, i miliziani col turbante, cui viene concesso un bel pezzo della gestione dell’economia dell’oppio e le tangenti per non intralciare il cosiddetto sviluppo della normalizzazione (sfruttamento del sottosuolo da parte di aziende straniere, opere come il gasdotto Tapi, più possibili servizi venturi). 

Così i boss politici possono vivere felici e contenti, la popolazione continuare a languire ed essere costretta a ingrassare i trafficanti di rifugiati. Alla quadratura del cerchio sta offrendo un contributo anche un organismo sempre presentato super partes: l’Onu, che ha cancellato ogni sanzione nei confronti di Hekmatyar. Il leader islamista può ora presentarsi nella capitale che martoriò a metà anni Novanta, senza il pericolo d’essere arrestato come stabiliva una sanzione emanata nel 2003 a seguito proprio d’una risoluzione Onu del 1999.

Un pericolo fittizio poiché dalla sponda governativa nessuno si sogna d’intralciare il ruolo dell’ex mujaheddin, anzi. Il suo radicamento nella politica armata locale, i trascorsi che lo rendono un’icona del jihadismo ne farebbero una pedina utile al dialogo fra amministrazione Ghani-Abdullah e insorgenza predisposto dalla regia del Pentagono. Ma gli ultimi mesi dicono anche altro.
L’Hezb è un’entità a sé che solo in alcune circostanze ha condotto azioni coi Talib, inoltre l’impatto di fuoco e lo stesso reclutamento di giovani generazioni resistenti non vedono certo brillare il gruppo. Tutto gira sulla fama del vecchio ‘macellaio’, però i quadri intermedi non manistestano carisma.

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Afghanistan, Putin ha tre ragioni per allearsi coi talebani

di Giuliano Battiston –  Pagina 99

Russia taleban 1 150x150Si dice che i russi forniscano le armi ai mujahedin. Per limitare l’arrivo di eroina in patria e di militanti Isis in tutta l’area. E contenere l’influenza Usa in Asia centrale

«Ho visto accatastate sullo stesso aereo bare di zinco che riportavano i morti a casa e valigie piene di pellicce di montone, jeans, mutandine da donna… tè cinese». A parlare è un ex soldato, addetto alle trasmissioni. «Troppo grandi per entrare nei minuscoli alloggi d’epoca chrušcëviana», le bare di zinco sono quelle dei soldati russi deceduti in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, le cui vite sono state raccontate dal premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic nel suo quasi omonimo, splendido reportage narrativo.

Cominciata nel dicembre del 1979 e conclusa nel febbraio del 1989, quell’occupazione – con il corollario di madri disperate, illusioni tradite, bocche piene di sangue, arti amputati e corpi bruciati – ha prodotto una vera e propria «sindrome afghana», per usare la definizione dello studioso russo Vladimir Boyko, che ha dedicato molti lavori al rapporto tra il suo Paese e l’Afghanistan.

Oggi, a quasi vent’anni di distanza dal ritiro delle truppe sovietiche, la sindrome afghana sembra archiviata. E Mosca è sempre più convinta di poter assumere un ruolo da protagonista nel futuro del Paese. Tanto da decidere di parlare perfino con i talebani, eredi – almeno in parte – di quei mujahedin che hanno costretto l’orso russo a ritirarsi nei propri territori. Per capire cosa è successo, si può partire dal 27 dicembre 2016.

Quando a Mosca si è tenuto un incontro trilaterale per discutere di Afghanistan, dentro un più ampio contesto regionale. Al tavolo, i rappresentanti di Russia, Cina e Pakistan. Alla fine dell’incontro Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha tirato le somme invocando «un approccio flessibile per rimuovere alcune figure dalla lista delle sanzioni Onu», come mezzo «per favorire un dialogo di pace tra Kabul e il movimento talebano».

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“Afghanistan – Il Grande Gioco”

Per I Diritti Umani di Ivana Trevisani.

gruppoLo spettacolo in cinque episodi, in scena al tealtro Elfo Puccini di Milano non ha restituito agli spettatori un gioco gioioso, come era possibile intuire, ma neppure giocato dal popolo afgano, semplice pedina, nonché purtroppo vittima passiva dall’attività delle diplomazie e dei servizi segreti stranieri, che hanno fatto del Paese la scacchiera delle loro partite di potere.

Guidato dalla notevole abilità di regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani il cast di attori e attrici (Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Emilia Scarpati Fanetti, Leonardo Lidi, Michele Radice, Massimo Somaglino, Hossein Taheri) ha magistralmente restituito la giostra storica di un Paese minuscolo in estensione ma enorme per importanza strategica, sia per governi occidental-colonialisti geograficamente lontani, che per quelli di Paesi tanto vicini da lambire i confini del tormentato angolo di terra.

L’insensatezza di confini e mappe che hanno tentato di costruire il mondo con “carta e inchiostro” e generato non uno stato ma un mostro dai tentatacoli inafferrabili e incontrollabili, offerta sulla scena teatrale, ha inevitabilmente suggerito al pubblico un rimando alla scena reale delle insensatezze contemporanee di medesima matrice d’intenti e di uguale esito distruttivo.

Il carosello storico-culturale ha preso l’avvio dal lontano 1842 con le “Trombe alle porte di Jalalabad” dell’esercito inglese d’occupazione e della tragica, per entrambe le parti in gioco, battaglia/carneficina. Spostandosi alla seconda metà del secolo, il secondo episodio, la “La linea di Durand” sognata e imposta dall’omonimo segretario degli esteri britannico alla fine del secolo, è stato un richiamo molto trasparente ai danni che quell’insensato e non isolato delirio di onnipotenza dell’arbitraria suddivisione del mondo, ha generato e continua a disseminare.

Con il passaggio agli inizi del ‘900 il terzo episodio ha ripreso la triste epopea politica e personale del modernizzatore re Amanullah Khan, ancora una volta vittima dei giochi sotterranei stranieri, impegnati con tragica riuscita ad alimentare e foraggiare lotte e rivalità interne e a difendere alleanze utili ai rispettivi governi.

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