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Autore: Anna Santarello

Afghanistan, mullah sposa bambina di sei anni, arrestato

lepersoneeladignita.corriere.it – 1 AGOSTO 2016, di Monica Ricci Sargentini

rsz afghanistan sposa bambina 640x480A 60 anni ha sposato una bambina di sei ”per crescerla e prendersene cura”. L’incredibile cerimonia è avvenuta in Afghanistan nella provincia occidentale di Ghor ed ha per protagonista un mullah del distretto di Obe, Mohammad Karim.

L’uomo ha sostenuto che la bambina gli era stato offerta dalla famiglia come “dono religioso” ma la polizia lo ha arrestato. In manette è finito anche il padre della piccola . In un primo tempo i genitori avevano detto che la figlia era stata rapita ma, secondo il portale di notizie Khaama press, dopo ore di interrogatorio il padre ha ammesso di averla costretta a sposarsi in cambio di alcuni capi di bestiame, un sacco di riso, del tè e biscotti. (nella foto il mullah parla in questo video)
La bambina viveva nella provincia di Herat, al confine con l’Iran ed era scomparsa durante il Ramadan. La responsabile degli Affari per le donne di Ghor, Masoom Anwari, ha messo la piccola in una casa famiglia:

“È in stato di choc – ha detto-. Continua a ripetere che ha paura di quell’uomo”.

In Afghanistan l’età legale per il matrimonio è 16 anni per le femmine e 18 anni per i maschi ma raramente questa soglia viene rispettata. Poche settimane fa, sempre nella provincia di Ghor, si era verificato il caso di una ragazzina di 14 anni morta dopo essere stata seviziata e maltrattata dal marito per due anni. Zahra, questo il suo nome, era stata data in sposa in cambio di una nuova moglie per suo padre. Donne oggetto che vengono scambiate tra uomini proprio come si fa con il bestiame.

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Conferenza nazionale del Cisda

Cisda Onlus – 31 luglio 2016

cisda sitoNelle giornate del 2 e 3 luglio si è tenuta la Conferenza nazionale del Cisda che quest’anno ha visto la partecipazioni di ospiti stranieri dalla Germania, Usa, Turchia, Londra, Kurdistan, la portavoce del partito Afghano Hambastagi, una delegata di Rawa oltre alle associazione italiane con cui solitamente collaboriamo.

Le due giornate sono state così suddivise:
sabato – intera giornata in sessione plenaria con gli interventi degli ospiti che hanno raccontato la situazione nei loro paesi
domenica mattina – attività in gruppi di lavoro
domenica pomeriggio – ancora plenaria per relazioni dei lavori di gruppo e conclusioni.

In attesa di una relazione, che arriverà non appena le registrazioni degli interventi saranno trascritte, ecco gli argomenti trattati nei gruppi e in sintesi gli obiettivi che ognuno si è dato:

Basi e Armamenti
Il Gruppo si è dato due obiettivi fondamentali, uno più praticabile e uno più a lungo termine. Entrambi gli obiettivi verranno proposti da No Dal Molin e portati avanti con l’aiuto delle compagne del Cisda e soprattutto in coordinamento con le associazioni internazionali che già lavorano sui temi delle basi e degli armamenti. 
Il primo obiettivo è stendere un manifesto elencando i pro e i contro della presenza di basi americane sul territorio, smontando ovviamente le argomentazioni a favore. Il manifesto avrà un linguaggio semplice e sarà la sintesi delle argomentazioni comuni a tutti i paesi che vedono una presenza massiccia di basi americane sul territorio.

Questo per dare alle persone interessate la possibilità di scegliere,  sviluppando un pensiero critico che potrebbe col tempo diventare opposizione convinta. 
Il secondo obiettivo – quello più complesso da realizzare – è lanciare la proposta a tutti i movimenti internazionali impegnati sull’argomento di rivedersi dieci anni dopo Portorico per fare il punto della situazione. A Portorico nel 2007 si tenne una conferenza internazionale alla presenza di ben 400 delegati rappresentanti di vari paesi che ospitano basi americane. Fu un’occasione straordinaria per scambiare informazioni,  aggiornamenti, metodi di lotta. L’idea di proporre una medesima conferenza dieci anni dopo potrebbe davvero rafforzare il movimento internazionale.

Le compagne di No Dal Molin lavoreranno con Marc Herold (docente universitario Usa) per i contatti con la rete internazionale. Inoltre – anche se questo non è un obiettivo ma semplicemente un metodo di lavoro – le compagne No Dal Molin hanno chiesto a Marc informazioni sui costi che i governi devono sostenere per mantenere le basi americane sul proprio territorio, ricerca non facile ma che Marc si è volentieri offerto di fare.

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Jihad afghana: talebani contro Daesh

Enrico Campofreda dal suo Blog – 28 luglio 2016

bambinidelDaesh 300x166I dissidenti del nord-est – La vicenda narrata da Ubaid Ali – un ricercatore che ha seguìto le concitate fasi dell’attacco talebano a Kunduz – su nuclei di miliziani uzbeki del Jundullah Group, è sintomatica di quanto sta accadendo in questi mesi in Afghanistan.
Una lotta per l’egemonia nell’insorgenza contro le truppe Nato e l’esercito afghano e per il controllo di tante province, dove dettano legge i governatori-ombra che rispondono alla turbolenta famiglia talebana. In alcune di queste zone l’Isis cerca e trova alleanze per dissapori e contrasti fra gruppi etnici minoritari e i vari clan della galassia talebana. È accaduto nell’autunno 2015 nell’area di Takhar: lì i membri del Jundullah hanno portato la bandiera nera del Daesh in alcuni villaggi.

Takhar è un distretto di circa un milione di abitanti, prevalentemente di etnìa tajika e uzbeka e qualche presenza hazara. Il 9 settembre 2001 in quella località venne assassinato il comandante Massoud, utilizzando un’intervista televisiva mascherata. Una trappola alla quale non sfuggì neppure il mitizzato leader militare dell’Alleanza del Nord.

Quali legami hanno avuto gli attuali guerriglieri uzbeki del Jundullah con Abdolmalek Rigi, capo della struttura combattente originaria presente nel Baluchistan, che venne catturato, processato e impiccato nel carcere iraniano di massima sicurezza di Evin nel 2010, non è dato sapere. Probabilmente nessuno, vista la distanza temporale che separa i fatti: cinque anni nelle vicende di combattentismo e terrorismo possono diventare un’eternità. Certo le azioni di disturbo verso Teheran compiute dall’organizzazione proseguono e insistenti voci indicano una copiosa infiltrazione del gruppo da parte di agenti della Cia, com’era accaduto per Qaeda. Così i distinguo compiuti dai talebani afghani, che s’oppongono ferocemente agli Usa, sono risultati più marcati.

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Turchia, chiusi 131 mezzi di informazione

La Stampa – 28 luglio 2016

2016 07 27T213907Z 893248326 S1BETSBERJAB RTRMADP 3 TURKEY SECURITY CONSPIRACY kKhH U10801473120173V1C 1024x576LaStampa.itSarà dedicata al fallito golpe del 15 luglio la riunione annuale del Consiglio Militare Supremo (Yas) che si svolgerà oggi ad Ankara, in anticipo rispetto alla data prevista. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è riunito ieri con il premier Binali Yildirim e con il capo di Stato Maggiore, il generale Hulusi Akar, per discutere l’agenda della riunione.

Per il governo parteciperanno alla riunione il primo ministro, che presiederà la seduta, e il ministro della Difesa, Fikri Isik, insieme ai vertici militari non silurati dopo il fallito golpe. In cima alla lista dei temi da discutere le nuove procedure all’interno delle Forze armate e la loro «ristrutturazione» annunciata nei giorni scorsi da Erdogan e da Yildirim, oltre alle promozioni e alle nomine degli ufficiali che andranno a prendere il posti dei golpisti e dei presunti sostenitori della rete di Fethullah Gulen, il predicatore accusato di essere l’ispiratore del golpe. Per la prima volta, la riunione dello Yas si svolgerà a la Cankaya, l’ex palazzo presidenziale ora sede del primo ministro, e non a Palazzo Cakmak, la sede dello Stato Maggiore. Inoltre, mentre i precedenti incontri sono durati fino a tre giorni, la riunione di oggi si chiuderà in giornata con le decisioni sui vari temi in agenda.

Ordinata la chiusura di 131 mezzi di informazione

Il governo turco ha emesso un decreto che ordina la chiusura di 131 mezzi di mezzi di informazione accusati di legami con la rete di Fethullah Gulen. In particolare è stata disposta la chiusura di tre agenzie, 16 canali televisivi, 23 radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici. Si tratta in diversi casi di media che già nei mesi scorsi, a causa dei legami con Gulen, erano stati messi sotto amministrazione controllata. Tra i più noti, il quotidiano Zaman, il canale all-news Samanyolu e l’agenzia Cihan. Il decreto che ordina la loro chiusura è stato pubblicati in gazzetta ufficiale ieri sera.

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Aderiamo all’appello: L’Unione Europea fermi la repressione in Turchia Lettera aperta a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari Esteri  

progressi.org – 25 luglio 2016

COMUNICATO STAMPA
L’Unione Europea fermi la repressione in Turchia
Lettera aperta di associazioni, sindacati, ong
a Federica Mogherini,
Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari Esteri

petitionAssociazioni, sindacati, reti e ong hanno inviato una lettera aperta a Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri, in cui esprimono profonda preoccupazione per la deriva autoritaria assunta dal governo turco.
Il prolungamento dello stato d’emergenza e la sospensione della Convenzione Europea dei Diritti Umani aprono scenari drammatici, mentre il presidente Erdogan con sistematiche epurazioni sta eliminando qualsiasi luogo di produzione di idee critiche, nelle scuole, nelle università, nei media, nella magistratura. Sono più di 60mila gli insegnanti, i magistrati, i funzionari pubblici, i giornalisti sollevati dal loro incarico, mentre sono state incarcerate 13mila persone, e il numero, in entrambi i casi, cresce costantemente.

Di fronte a questo scempio della democrazia, le istituzioni e i governi europei non hanno purtroppo reagito con la necessaria fermezza. L’UE sta dimostrando di essere vittima del ricatto esercitato dal governo turco data la sua posizione strategica nella regione. Ma nessuna ragion di stato può giustificare il silenzio europeo di fronte alle violazioni dei diritti umani e agli arresti indiscriminati.

Alla Mogherini viene chiesto di mettere in campo tutte le azioni possibili per fermare il disegno autoritario di Erdogan, a cominciare dalla sospensione del processo di integrazione europea e dell’accordo sui migranti.
Da parte loro, i firmatari si impegnano a promuovere in Italia e in Europa azioni di solidarietà col popolo turco, con l’obiettivo di arrivare a un grande appuntamento europeo per impedire ad Erdogan di cancellare la democrazia in Turchia.
In Italia è in programma già per domani un sit-in nei pressi dell’ambasciata turca. Dopo quello che si è tenuto mercoledì scorso per la libertà di informazione, quello di domani, promosso da Flc-Cgil, Cisl scuola e Uil scuola, avrà al centro la difesa del sistema dell’istruzione.

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URGENTE AZIONE per lo stato di salute di Abdullah Ocalan

UIKI Onlus – Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia – 21 luglio 2016

URGENTE AZIONE

baskan3 300x204Care Compagne e Cari Compagni della Rete di Soliderietà con il popolo curdo

Le preoccupazioni per lo stato di salute di Abdullah Ocalan stanno aumentando dopo il tentato golpe di venerdì e per l’atmosfera sempre più violenta e imprevedibile.

In allegato trovate le lettere d’urgenza da inviare al Comitato per la Prevenzione della Tortura CPT- Consiglio d’Europa.

Per favore, copiate e inviate, aggiungendo i vostri nomi o nomi del associazione e dettagli di contatto.

come questione urgente da mandare a:
cptdoc@coe.int ; corinne.goberville@coe.int; Jeroen.SCHOKKENBROEK@coe.int

vi ringraziamo molto,

Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia Onlus
In allegato
1. Lettera in Inglese a CPT
2. Lettera in Italiano a CPT
3. Dossier sulla situazione del Abdulah Ocalan (inglese)
4. Dossier sulla situazione del Abdullah Ocalan si trova sul sito di www.uikionlus.com

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LETTERA APERTA
Appello urgente

Al Comitato per Prevenzione della Tortura (CPT)

Council of Europe / Conseil de l’Europe
F – 67075 Strasbourg Cedex
Tel +33 (0)3 88 41 22 79 /  Fax +33 (0)3 88 41 27 72
Email : cptdoc@coe.int ; corinne.goberville@coe.int; Jeroen.SCHOKKENBROEK@coe.int

Ai Rappresentanti del CPT e del Consiglio d’Europa

Richiesta di incontro urgente con Abdullah Öcalan

Come sapete, in Turchia è fallito il tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016. Anche in questa fase concitata appare chiaro che l’episodio avrà ripercussioni significative.
Quando, un anno fa, ha deciso di intensificare la guerra al popolo curdo e distruggere città e villaggi curdi, il Presidente Tayyip Erdoğan ha anche intrapreso azioni repressive nei confronti della società civile curda, come la sospensione dell’immunità ai/alle parlamentari curdi/-e e la rimozione dall’incarico e il carcere per i/le co-sindaci. La repressione del popolo curdo è un fatto storico senza precedenti.

Sono queste atrocità, queste politiche anti-democratiche adottate dall’AKP in Turchia e in Kurdistan ciò che ha spianato la strada al tentato golpe del 15 luglio scorso. Dopo il fallimento del golpe, il Presidente Erdoğan ha esteso tale strategia di distruzione all’intera Turchia.

Possiamo affermare con sicurezza che, se i risultati delle elezioni del 7 giugno 2015 fossero stati rispettati e fosse proseguito il processo di soluzione del conflitto, non vi sarebbe stato nessun golpe. La questione curda irrisolta e la mancanza di democratizzazione in Turchia sono da sempre terreno fertile per i colpi di Stato.

In tali circostanze, nutriamo gravi timori per la sorte del sig. Abdullah Öcalan – timori condivisi dalla sua famiglia, dai suoi legali, dal popolo curdo e dall’opinione pubblica. Le dichiarazioni e i provvedimenti del governo, purtroppo, non li alleviano di certo.
Da 15 mesi, negli incontri con i suoi legali, con funzionari statali e con le delegazioni dell’HDP, il sig. Abdullah Öcalan lancia continui moniti circa questa possibilità d’un golpe. In una simile situazione di violenza e contro-violenza, la sua incolumità personale potrebbe essere minacciata.

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Torture in Turchia: Amnesty International chiede osservatori indipendenti per incontrare detenuti

Amnesty International – 24 luglio 2016

n 102030 1 300x156Amnesty International ha raccolto credibili informazioni sui pestaggi e le torture, compresi gli stupri, che stanno avendo luogo in centri di detenzione ufficiali e non ufficiali della Turchia.

L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto che osservatori indipendenti abbiano immediato accesso a tutti i centri di detenzione, tra i quali stazioni di polizia, centri sportivi e palazzi di giustizia.

A seguito del fallito colpo di stato, sono state arrestate oltre 10.000 persone.

Secondo informazioni attendibili in possesso di Amnesty International, ad Ankara e Istanbul la polizia costringe i detenuti a rimanere in posizioni che causano dolore fisico anche per 48 ore, nega loro cibo acqua e cure mediche e li sottopone a insulti e minacce. Non mancano segnalazioni di brutali pestaggi e torture, compresi gli stupri.

“Le notizie di pestaggi e stupri sono estremamente allarmanti, considerando soprattutto l’alto numero di arresti dell’ultima settimana. I crudi dettagli di cui siamo in possesso sono solo un esempio di quello che potrebbe star accadendo nei luoghi di detenzione” – ha dichiarato John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International.

“E’ assolutamente fondamentale che le autorità turche fermino queste pratiche ripugnanti e consentano agli osservatori internazionali di incontrare tutti i detenuti” – ha aggiunto Dalhuisen.

I detenuti sono trattenuti arbitrariamente anche in centri informali di detenzione, non possono incontrare avvocati né familiari e non sanno esattamente di cosa siano accusati. Ciò mette in pericolo il loro diritto a un processo equo.

Sabato 23 luglio, il governo turco ha emesso il primo decreto dello stato d’emergenza, che aumenta da quattro a 30 giorni il periodo di detenzione senza incriminazione. Questa modifica rischia di esporre i detenuti ad altre torture. Il decreto autorizza a osservare o persino registrare gli incontri tra avvocati e detenuti e restringe le possibilità di nominare un difensore di propria scelta, compromettendo ulteriormente il diritto a un processo equo.



Torture e maltrattamenti

Amnesty International ha parlato con avvocati, medici e una persona in servizio all’interno di una struttura detentiva.

L’organizzazione per i diritti umani ha ricevuto numerose denunce relative a detenuti trattenuti in centri non ufficiali, come centri sportivi e stalle. Diversi detenuti, tra cui almeno tre giudici, erano trattenuti nei corridoi dei tribunali. 

Tutte le persone incontrate da Amnesty International hanno chiesto di rimanere anonime per ragioni di sicurezza.

L’organizzazione ha ascoltato resoconti estremamente allarmanti di maltrattamenti e torture, soprattutto nel centro sportivo della polizia di Ankara, nel palazzetto dello sport Başkent e nelle stalle di un centro ippico, sempre nella capitale.

Secondo queste denunce, la polizia costringe i detenuti a rimanere in posizioni che causano dolore fisico, nega loro cibo acqua e cure mediche, li sottopone a insulti e minacce e infligge loro pestaggi e torture, compresi gli stupri e le aggressioni sessuali.

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L’Afghanistan fra bombe, vittime, profughi, occupazione nel rapporto Unama

Enrico Campofreda dal suo Blog – 25 luglio 2016

conseguenzeguerra 300x200Le cifre son fredde, seppure impressionanti. Inorridiscono solo gli animi più sensibili che di fronte al sangue, all’odore di carne bruciata non ce la farebbero a sopportare come fanno i volontari di certe Ong.
Non riuscirebbero a operare, salvando quel che si riesce a salvare come accade ai dottori di Emergency e Médicins sans frontières, se non diventano anch’essi bersagli.

E per crimini di guerra che non verranno mai dichiarati tali, lo diventano come a Kunduz nello scorso ottobre. I dati dell’Umana divulgati proprio in concomitanza con l’ultima grande strage di civili avvenuta in Afghanistan – seppure questi civili siano diventati bersaglio perché avevano assunto una funzione di attivisti con la pacifica protesta rivolta al governo Ghani – parlano di 5.166 cittadini colpiti nei primi sei mesi di quest’anno. 1.601 di loro non ce l’ha fatta, 3.565 sì.

Ma con quali conseguenze è un discorso a parte. Chi ama la vita ci rivelò che preferiva camminare con le grucce, invece d’esser finito sottoterra come alcuni parenti, comunque onorati dall’uomo non più bipede. È l’altra faccia di quella che si definisce vita: sono i freddi numeri dei sopravvissuti tramutati nel mucchietto di pelle e ossa che se ne sta accartocciato in qualche angolo polveroso di Kabul, aiutato dall’elemosina che è pur sempre il terzo pilastro dell’Islam.

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Afghanistan: Onu, record bimbi uccisi da inizio 2016

Redazione ANSA – GINEVRA 25 luglio 2016

42737f87c71b31ffe6c900075337e4f3Record di vittime civili in Afghanistan nei primi sei mesi del 2016, tra le quali il numero più alto di bambini uccisi in soli sei mesi. Dall’inizio dell’anno a giugno – rivela un rapporto dell’Onu reso noto a Ginevra – sono stati documentati “1.601 morti civili e 3.565 feriti, per un totale di 5.166 vittime civili”. Ciò rappresenta un “aumento del 4% rispetto ai primi sei mesi del 2015 – afferma l’Onu – ed è il totale più alto per un periodo di sei mesi dal 2009”.

I bambini coinvolti sono 1.509, di cui 388 morti e 1.121 feriti, un dato “allarmante e vergognoso” ed anch’esso il più alto per un periodo di sei mesi. Il bilancio include 507 donne morte e 377 ferite. Il rapporto della squadra di esperti per i diritti umani della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) sottolinea che le forze anti-governative restano responsabili della maggior parte delle vittime civili (60 %), ma anche che i civili uccisi e feriti da forze pro-governative sono aumentati. Il rapporto calcola infine che il totale delle perdite civili registrate tra il primo gennaio 2009 e il 30 giugno 2016 è ora salito a 63.934 (22.941 morti e 40.993 feriti).

La relazione dell’Onu “Afghanistan – Rapporto di metà anno 2016-. Protezione dei civili nei conflitti armati” -documenta casi di persone “uccise durante la preghiera, il lavoro, lo studio, mentre si recavano a prendere l’acqua, mentre ricevevano cure negli ospedali”, deplora Tadamichi Yamamoto, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per l’Afghanistan e capo dell’Unama.”Ogni vittima civile rappresenta un fallimento e dovrebbe spronare le parti in conflitto a compiere significativi passi concreti per ridurre le sofferenze dei civili e aumentarne la protezione”,ha affermato. L’Alto Commissario Onu per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha esortato le parti al conflitto “a cessare i deliberati attacchi contro i civili e l’uso di armi pesanti nelle zone dove vivono i civili. L’impunità imperante di cui godono i responsabili di vittime civili deve cessare – di chiunque si tratti”.

Kabul, il massacro degli odiati hazara.

Dal Blog di Enrico Campofreda – 23 luglio 2016

2ccfda7f3ad1425f9b973955db8e9eba 18È stato un lampo, non la luce agognata, a portarsi via decine di afghani d’etnìa hazara. Venivano in gran parte dalla provincia di Bamyan e protestavano contro il governo che aveva cambiato il tragitto della linea d’alta tensione progettata dall’impresa Tutap che coinvolge ben cinque nazioni (Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Afghanistan e Pakistan).

Una mega impresa, fra le poche che forniscono servizi alle comunità, finanziata da una grande banca asiatica (Asian Development Bank). Gli hazara di fede sciita, da sempre poco amati dalla maggioranza pashtun totalmente sunniti, si vedevano penalizzati perché il progetto li tagliava fuori dal percorso, mutando un’iniziale direttrice.

Così avevano marciato in migliaia, sfidando l’aria che da oltre due anni tira nel Paese diventato ovunque, capitale compresa, territorio off limits per tutti. Nessun militare del Resolute support, dell’esercito di Ghani, e neppure certi signori della guerra suoi alleati, riesce a controllare quasi nulla del territorio.

Ci vivono ma possono essere colpiti. Per le presenze occulte, mirare ai manifestanti è stato fin troppo facile. Hanno usato kamikaze nascosti sotto dei burqa che si mescolavano ai partecipanti, come le donne celate sotto il velo integrale che passavano per via.

Nessuno ha voluto controllarle nonostante il punto d’arrivo della marcia si trovasse in una zona centrale di Kabul, Deh Mazang circle. Il castigo è stato tremendo: all’ospedale di Emergency di Kabul sono giunti oltre duecento feriti, molti in condizioni disperate, mentre nella piazza si contavano ottanta corpi maciullati. L’attentato risulta sanguinosissimo come non se ne vedevano da tempo e sarebbe potuto essere ancor più devastante perché la cintura d’un terzo kamikaze non è esplosa, circostanza che fa pensare a una preparazione non professionale degli ordigni. La determinazione stragista era, però, elevatissima e indica il desiderio d’imporsi nella strategia del terrore riapparsa pesantemente in ogni provincia afghana.

Dietro le bombe, secondo quanto ha divulgato la Bbc, ci sarebbe un gruppo legato all’Isis che vuol introdurre anche nel disastrato territorio afghano quei massacri diffusi e inaspettati di civili come sta facendo in Pakistan. I talebani locali hanno preso le distanze e condannato l’azione. Ma il Daesh da circa due anni cerca adepti e alleanze in tutta l’area e l’ha trovata in alcuni dissidenti dalla linea unitaria dei Talib. Rinata non tanto con l’elezione di Mansour (avvenuta un anno fa e durata pochi mesi poiché a primavera il neo leader è caduto vittima d’un drone), ma dal suo rimpiazzo con Haibatullah.

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