Il Manifesto – G. Battiston – 19 Aprile 2016
A una settimana esatta dall’annuncio dell’offensiva di primavera, i Talebani colpiscono Kabul con un attacco spettacolare. Un camion carico di centinaia di chili di esplosivo è stato fatto esplodere contro una sede dei servizi segreti afghani (foto LaPresse) che ha il compito di proteggere i più alti funzionari del governo. In seguito, alcuni militanti sono entrati nell’edificio, dove sembra si svolgesse un corso di addestramento, ingaggiando una battaglia con le forze di sicurezza, prima di essere uccisi.
Sono almeno 30 le vittime accertate, tra cui molti civili, e 327 i feriti, trasportati negli ospedali della città, tra cui quello di Emergency. L’attentato è stato condotto in una delle zone più protette e controllate della capitale: un segno della capacità dei Talebani di colpire ovunque. E una vera e propria sfida agli apparti di sicurezza del governo di Ashraf Ghani, che nei giorni scorsi avevano sventato due attentati della rete Haqqani, una delle fazioni più pericolose della galassia dei «turbanti neri», a cui molti già attribuiscono la responsabilità della carneficina di ieri.
I Talebani hanno rivendicato l’attacco come parte dell’«Operazione Omar», l’offensiva di primavera annunciata martedì 12 aprile, quest’anno dedicata al mullah Omar, il defunto leader. Nel comunicato sull’Operazione Omar, si rintracciano i temi classici del movimento: il jihad non è solo un diritto, è un dovere di tutti gli afghani che hanno a cuore la difesa del Paese «dagli invasori occidentali»; la battaglia andrà avanti fino a quando l’ultimo militare straniero non lascerà l’Afghanistan.
Ma ci sono novità: per la prima volta, si parla non solo della necessità di conquistare aree e centri urbani, ma anche di pianificare la fase successiva del controllo e della gestione dei territori conquistati. I Talebani non mirano soltanto a mettere in difficoltà il governo Ghani, già indebolito da una profonda crisi politica, ma mirano sempre più a presentarsi come un’alternativa valida.
Che il governo afghano sia in profonda crisi, lo dimostra la visita di John Kerry, il segretario di Stato Usa, arrivato a sopresa il 9 aprile a Kabul, dove ha incontrato sia il presidente Ghani sia il «quasi primo ministro», Abdullah Abdullah. É stato proprio Kerry, nel settembre 2014, a imporre la coabitazione forzata ai due, che si accusavano reciprocamente di brogli elettorali: governate insieme o niente soldi, aveva detto Kerry. Ne è nato un accordo per un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente, è stata istituita una nuova figura, quella del Ceo, Chief of Executive Officer, destinata appunto ad Abdullah.