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Autore: Anna Santarello

8 MARZO: eroine dei tempi moderni, Cecilia Strada e le donne afghane

Infermieristicamente – 8.3.2015 – Articolo di Maria Luisa Asta

kate holt222La storia passata e presente ci racconta di donne spesso sottovalutate, se non peggio ignorate.
Nella migliore delle ipotesi, quanto di loro c’è stato riportato e narrato ha comunque subito la selezione dello sguardo maschile.

Sembra che nonostante l’avvento dell’era moderna, le “conquiste” in materia di emancipazione non abbiano poi così tanto modificato questo modus pensandi, e le Donne oggi fanno ancora fatica a conquistare un posto nel mondo, nonostante le grandi ed autentiche qualità.

Se guardiamo al panorama mondiale, la società è pregna di “grandi donne” sin dagli albori; dal passato riemergono imperatrici, nobili e proletarie, sante e guerriere.

Oggi abbiamo scienziate, intellettuali, artiste, sportive, poetesse, donne ribelli, abili politiche.. donne che hanno cambiato e fatto grande il mondo.
Sarebbe facile, in un giorno come questo in tema di donne, ripercorrere la storia di eroine del passato, già ampiamente conosciute; invece mi piacerebbe raccontarvi di una donna dei nostri tempi, la storia di una donna la cui vita si interseca con quella di donne sconosciute, ma altrettanto importanti, donne alle quali è negato il diritto più elementare, essenza della donna stessa, ovvero quello di dare la Vita.

Vi racconto la Storia di Cecilia Strada e delle donne afghane.

Cecilia Strada dal 21 Dicembre 2009 è la presidentessa di Emergency, organizzazione non governativa, fondata dal padre, Gino Strada e dalla moglie Teresa Sarti nel 1994.
Cecilia, è una donna coraggiosa, di quelle che nella vita hanno deciso di fare una scelta, ripercorrendo le orme del padre.
In una intervista al Corriere della Sera, nell’inserto io Donna, Cecilia ci racconta cosa vuol dire essere a capo di Emergency, cosa ha significato essere figlia di Gino Strada , e ci racconta il dramma delle donne Afghane.

Dall’intervista al Corriere della Sera, Io Donna:
“Le mie giornate sono così, ricche di emozioni, senza ferie e senza week end, ma non le cambierei mai, perché fai la differenza tra la vita e la morte”.

Cecilia, il primo contatto con la guerra.
“Ad otto anni mio padre mi ha portato al campo medico di Quetta (Pakistan), là ho visto un bambino della mia età con una pallottola in testa. Mi è scattato qualcosa”.

Non sarà stato facile essere la figlia di “Emergency”.
“Mi sento fortunatissima, ho avuto la possibilità di conoscere il mondo, che non è come lo immaginavo, ed al tempo stesso di fare la mia parte”.

Le emergenze oggi?
“L’Afghanistan, a luglio abbiamo avuto un record di ricoveri”.

Eppure non se ne parla.
“Se i militari se ne vanno, non è il caso di raccontare che lì ci sono ancora vittime. L’ Afghanistan è il paese dove la presenza di Emergency è più articolata, perché le Donne devono chiedere il permesso al marito per farsi curare. Noi nel centro di maternità abbiamo solo personale femminile. Il mio cuore è là”.

Ed è qui che la storia di Cecilia, donna volitiva, impavida, incrocia la storia ed il cammino di altre Donne, che della paura sono pieni i loro giorni. Paura, sottomissione, guerra, morte.

emergency cecilia strada def 561bCecilia Strada:
“In Afghanistan migliaia di Donne non sopravvivono al parto e alla gravidanza, perché non hanno accesso alle strutture ospedaliere, sia per il retaggio culturale nel quale vivono e di cui parleremo, sia perché la rete ospedaliera è del tutto insufficiente, e molto al di sotto degli standard già nella capitale, per poi diventare inesistente e in totale stato di abbandono se ci si sposta nelle zone limitrofe.
All’epoca della caduta dei Talebani i riflettori mediatici furono puntati con avidità sulle donne che toglievano il burka, all’entusiasmo degli operatori, forse superiore alla spontaneità dei gesti ripresi è però seguito il nulla: un lungo silenzio.

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Le “poesie velenose” delle donne afghane

WordPress – Sportello Parlaconlei

donne afghane1A Kabul esiste un’associazione letteraria, “Mirman Baheer”, creata e gestita da donne. Nella sua sede le poetesse e le redattrici lavorano alla luce del sole, ma non si può dire lo stesso delle donne che abitano nei paesi delle restanti province. Per loro c’è un solo modo per condividere la propria Arte: dettare i versi al telefono.

I versi in questione sono Landai, poesie di due versi che raccontano la condizione della donna nel Paese.

Nei Landai le donne, spesso ragazzine, raccontano la propria vita nelle “gabbie” della famiglia patriarcale: brevi versi clandestini, dettati al telefono in anonimato e recitati via radio, che potremmo definire “satirici”, perché assumono un significato politico straordinario.

Spinte dall’ascolto dei Landai alla radio, altre donne decidono di fare altrettanto, raccontando la propria schiavitù e i propri desideri di libertà. Purtroppo, da quelle parti, di poesia si può anche morire.

Landai significa “piccolo serpente velenoso”, e assolve ad una delle principali funzioni dell’Arte: unire e raccontare, spesso contro la volontà di chi detiene il Potere.

Leggi di più:

https://lunanuvola.wordpress.com/2012/05/05/morire-di-poesia

https://poetkatehutchinson.wordpress.com/2012/04/29/landai-the-afghani-womens-poetic-form

Afghanistan, Malalai Joya, le corazze e la violenza sulle donne.

Libreriamo Incertimondo il blog di Enrico Campofeda – 7 marzo 2015

khubra 800x540Ha camminato a lungo, giorni fa, per le strade centrali di Kabul. Protetta più che dal burqa da un’armatura che ne difendeva le forme, pur disegnate sul metallo. L’anonima studentessa è stata fotografata e l’immagine è subito rimbalzata da media a media un po’ in tutto il mondo.

Non tutti sottolineavano il motivo della protesta: le molestie sessuali, i rapimenti, gli stupri che in Afghanistan donne giovani e mature subiscono ovunque, ma in troppi casi fra le mura domestiche.

Una vergogna, purtroppo, ampiamente diffusa in ogni latitudine, al di là di fedi religiosi, fondamentalismi o secolarismi emancipati solo a parole. A qualche giorno di distanza dal provocatorio gesto della studentessa è seguito, sempre a Kabul, un altro flash mob.

Stavolta era un gruppo di ragazzi a indossare un burqa e sfilare per via, ricordando ai concittadini quanta oppressione s’accompagna a quei tradizionali paramenti femminili per volontà d’una tradizione maschilista dura a morire. Ieri come oggi.

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Afghanistan, uomini in burqa per i diritti delle donne.

Corriere della sera / Bolg Le persone e la dignità – 6 marzo 2015 – di Monica Ricci Sargentini

burqa4burqa1 500x361Coraggio e ironia. Non ci sono altre parole per definire la singolare protesta di alcuni giovani afghani che, giovedì 5 marzo, sono scesi in piazza indossando il burqa, il tradizionale abito che copre le donne dalla testa ai piedi, limitando fortemente anche la loro visione del mondo.

È una di quelle occasioni in cui le immagini parlano più di qualsiasi articolo.

Cosa penserà il ragazzo nella foto? Come si sentirà?

La manifestazione, Uomini col burqa, è stata organizzata a pochi giorni dalla Giornata internazionale della donna.

A 14 anni dalla caduta del regime di Talebani, in Afghanistan resta ancora molto da fare per i diritti delle donne e le violenze commesse contro le afghane rimangono spesso impunite mentre i loro diritti vengono molte volte ignorati o calpestati.

Avvolti nel burqa i ragazzi hanno percorso le strade di Kabul intonando slogan a sostegno dei diritti delle donne. La manifestazione si è fermata sotto gli uffici della Commissione per i diritti umani nella zona di Pul-i-Surkh.

Qualche settimana fa in Turchia gli uomini avevano indossato la minigonna dopo lo stupro e l’uccisione di una giovane.

I signori della morte.

dal blogblog di Enrico Campofreda – 2 marzo 2015

MargScelgono di chiamarsi “Marg” che in dari significa morte. Sono l’ultimo gruppo paramilitare comparso in Afghanistan, con tanto di divise create coi colori della bandiera nazionale.

Per “tranquillizzare” i concittadini dichiarano guerra a Talebani e Isis, per ora della provincia di Balkh dove girano a gruppi di 15-20 in sella a potenti moto.

Chi li finanzia e sponsorizza non è distante dal governo, visto che uno dei motivi del loro arrivo è la diminuzione sul territorio di militari Nato e delle agguerrite truppe di contractors di cui la Casa Bianca s’è servita fino allo scorso dicembre.

L’effetto scenico esiste, occorrerà vedere quanto timore e quanta potenza di fuoco sapranno opporre ai nemici, fatti salvi i civili che nei conflitti, programmati o casuali, diventano spesso bersaglio. In un’intervista volutamente lanciata su media mondiali tal Mohammed Mahdiyar, capo dei Marg di Balkh, sostiene d’essere stanco di fare da testimone a ripetute uccisioni e attacchi suicidi. Mister Mahdiyar la violenza vuole restituirla colpo su colpo e sceglie di mettersi in proprio, come un antico signore della guerra.

I combattenti della morte sostengono d’essere gente che s’oppone ai fanatici religiosi e ai teppisti, uccidendoli senza battere ciglio. Affermano d’essersi formati un anno fa, probabilmente la loro sortita risale all’estate quando i contendenti alla presidenza Ghani e Abdullah, poi accordatisi, minacciarono lo scontro armato e organizzarono ciascuno le proprie bande. A esse si sommarono altre formazioni locali, specie quelle che in alcune zone volevano sopperire al ritiro di soldati statunitensi da terra. Ad addestrarli direttamente quell’esercito mai sciolto che è l’Alleanza del Nord, i mujaheddin anti sovietici che furono di Massoud e Rabbani.

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Torture afghane, gli uomini neri di Karzai.

dal blog di Enrico Campofreda – 5 marzo 2015

Kandahar prison 010Ci son volute 125 interviste di Human Rights Watch per confermare quello che strutture democratiche afghane, come la Social Association Afghan Justice Seeks, denunciano da un decennio: nel Paese uccisioni, torture, terrore proseguono come ai tempi della guerra civile sotto lo sguardo assente, e spesso complice, del governo.

La chiamata di correo per l’ex presidente Karzai, introdotto assieme all’Enduring Freedom da Pentagono e Casa Bianca, è totale. Diversi degli otto “uomini forti” dell’apparato afghano (Shujoyi, Timur, Karwan, Noor, Kapisa, Alam, Khalid, Razziq) denunciati dalle cento pagine di rapporto, erano suoi uomini.

Voluti e incaricati per la politica sporca e sanguinolenta, su cui il capo della Cia Panetta e il presidente statunitense Obama annuivano. Nelle testimonianze rese, non senza timore, da parte di superstiti e familiari delle vittime ce n’è per ciascuno degli otto.

Ma i curricula di Asadullah Khakid, Abdul Razziq, Atta Mohammad Noor superano ampiamente quelli dei compari. Khalid è un politico della provincia Ghazni, aderente al partito Ittihad, gli islamici fondamentalisti di uno dei più coriacei signori della guerra: Rasul Sayyaf, che un anno fa correva per la presidenza. Khalid, dopo aver lavorato per il National Directorate of Security (motivo per cui subì un primo attentato nel 2007), dopo essere stato ministro degli affari tribali, è assurto alla direzione dell’Intelligence interna, beneficiandone del potere e della prossimità coi consiglieri della Cia.

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ESSERE DONNA IN AFGHANISTAN.

Kim international magazine – 4 marzo 2015 – di Mirko Polisano

Senza titolo 112La storia di Mrs Esmauh, artigiana di Herat e tra le pochissime donne dell’Afghanistan a guidare un’auto. L’abbiamo incontrata a Camp Arena e abbiamo scoperto una persona con un grande cuore.

Herat (Afghanistan )- Mrs Esmauh non è un’attivista politica afghana ma, a suo modo, è una rivoluzionaria. Non è soltanto una delle artigiane più note a Herat, è difatti una delle poche donne a guidare la macchina in Afghanistan.

Ha quasi 50 anni e gli occhi alla continua ricerca di sfide in una società, come quella afghana, patriarcale e dove le donne sono considerata cittadine di serie B. Lei, determinata e nella sua uniforme ribalta sfacciatamente i ruoli di genere.

A lei si affidano donne incatenate alle tradizioni e alla paura che vivono attraverso di lei i loro sogni di libertà. Nella sua macchina come nella vita, Esmauh mette alla prova quei limiti, reali e immaginari, dettati dalla religione e dalle credenze. Lavora con le donne del carcere di Herat, donne che hanno commesso una colpa.

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Afghanistan: governo ed alleati responsabili di torture e omicidi

newsfidelityhouse – 3 marzo 2015 – Cronaca

afghanistan diritti umani 600x352Secondo un rapporto dell’Osservatorio per i Diritti Umani, il governo afghano ed i suoi alleati occidentali hanno promosso stupri, torture ed esecuzioni, celandole agli occhi del mondo, dalla caduta dei talebani ad oggi.
Una nuova denuncia arriva quest’oggi dall’Human Rights Watch, l’Osservatorio per i Diritti Umani, relativa stavolta alle accuse mosse agli alti ufficiali del governo afghano, colpevoli di promuovere atti di terrorismo contro la popolazione civile con il tacito consenso del proprio governo, e degli alleati occidentali.

Il dossier, intitolato “Today We Shall All Die” (traducibile in “Oggi Moriremo Tutti”) è una triste raccolta di terribili testimonianze, che raccontano e documentano torture di vario genere, stupri ed esecuzioni sommarie, perpetrati dai militari in un contesto di totale impunità avallato in primis dagli stessi vertici del governo afghano, in seguito alla caduta dei talebani.

Citando direttamente il rapporto, si può infatti apprendere che “L’incremento di politiche abusive e di reti criminali non era inevitabile, ma le preoccupazioni immediate per il mantenimento di un inflessibile baluardo contro i talebani, ha fatto passare in secondo piano le visioni politiche di un governo a lungo termine, e con esse il rispetto dei diritti umani in Afghanistan”. Sotto la lente d’ingrandimento sono finiti in particolare otto ufficiali afghani, alcuni dei quali vengono addirittura annoverati fra gli uomini più potenti ed influenti del Paese, ed alcuni membri delle forze straniere ufficialmente alleate all’attuale governo locale. Tra gli implicati nello scandalo figura anche l’ex capo dei servizi di sicurezza, che nega però ogni accusa a riguardo.

Non mancano inoltre numerosi collegamenti con ufficiali e politici americani, colpevoli secondo quanto si legge nel rapporto di assoluta connivenza nei confronti dei criminali. Lo stesso Hamid Karzai, primo Presidente eletto in Afghanistan ed in carica dal 2004 al 2014, aveva dichiarato al momento della sua elezione: “La giustizia è un lusso per adesso, e non perderemo la pace nel tentativo di concedercelo”.
Una considerazione perfettamente coerente rispetto a ciò che sarebbe poi successo nel Paese. Uno dei boia più infervorati ed implacabili risponde al nome di Assadullah Khalid, ex capo dell’agenzia di controspionaggio afghana. Secondo un dossier confidenziale stilato dal governo canadese a partire dal 2007, Khalid è uno dei principali mandanti di stupri, torture ed omicidi: “Le accuse delle violazioni dei diritti umani da parte di Khalid sono numerose, e consistenti”. In un telegramma inviato dall’ambasciata americana, il cui contenuto è stato accidentalmente reso noto ai media, Assadullah Khalid viene descritto come “incredibilmente corrotto ed incompetente”.

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LA PRIMA TASSISTA DONNA DELL’AFGHANISTAN.

The Post Internazionale – di Ludovico Tallarita – 2 marzo 2015.

la prima tassista in afghanistan orig mainSara Bahayi è una donna afghana di 38 anni, non è sposata e al volante di una Toyota Corolla ha iniziato una piccola rivoluzione.
Sara Bahayi è una donna afghana di 38 anni. Non è sposata, è estroversa e al volante della sua Toyota Corolla ha cominciato una piccola rivoluzione.

Il suo taxi, numero di matricola 12925, è il primo a essere guidato da una donna.
Sara guadagna in media tra i 10 e i 20 dollari al giorno, abbastanza per supportare la sua famiglia, ma essere una donna autonoma in un Paese dove la norma è ancora quella di una società fortemente patriarcale, non è affatto facile.
Durante la giornata lavorativa, Sara viene spesso schernita dagli abitanti locali e non è raro che riceva minacce di morte.
Inoltre, la maggior parte degli uomini si rifiuta di entrare nel suo taxi, perché crede che una donna non debba mai guidare per una persona dell’altro sesso.
Per questa ragione, i suoi clienti sono spesso donne, anche loro stufe di essere vittime della discriminazione di genere.
“Per quanto tempo ancora le donne dovranno dipendere dai guadagni dei loro mariti e prendere ordini dagli uomini?”, chiede Sara. “Io voglio che le donne siano indipendenti, che facciano qualcosa per se stesse”.

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LA PERSECUZIONE DEGLI AFGHANI IN PAKISTAN

The Post Internazionale – di Luigi Mastrodonato – 2 marzo 2015

la persecuzione afghani in pakistan orig mainDopo l’attentato di matrice Taliban in una scuola a Peshawar, cresce nel Paese la discriminazione contro gli immigrati afghani.
Il 16 dicembre 2014 un gruppo di Taliban ha fatto irruzione in una scuola di Peshawar uccidendo 132 bambini.

Gli attentatori erano perlopiù di nazionalità afghana e questo non è sfuggito alle autorità governative pakistane che hanno dato vita a una vera e propria campagna anti-afghana.
Gli immigrati afghani sono diventati il capro espiatorio dei fallimenti del Paese, così da celare l’incapacità delle autorità governative a mantenere la pace e la sicurezza.

Si tratta di un fenomeno ampio poiché nel Paese si contano un milione e mezzo di afghani, come evidenzia l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite.
Quello che ne deriva è una situazione di violazione dei diritti umani su larga scala. Human Rights Watch riporta numerosi casi di intimidazioni e minacce verso immigrati afghani, esortati a lasciare il Paese come unica alternativa all’arresto.

I primi a essere colpiti sono i rifugiati non registrati, ma le misure restrittive colpiscono anche afghani presenti sul territorio pakistano da decenni. Questi ultimi si ritrovano costretti ad abbandonare le loro case e le loro attività per fare ritorno nel Paese d’origine, che spesso non è nemmeno il Paese natale per le nuove generazioni nate in Pakistan da genitori immigrati.

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