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Autore: Anna Santarello

Ghani-talebani, un accordo per la vita politica

Dal blog di Enrico Campofreda – 15 gennaio 2015

The Baloch insurgent groups in Pakistan are markedly secular and they share a common agenda focusing on the independence of Balochistan Karlos ZurutuzaCercasi taliban, disperatamente. Per colloquiare, trattare, pianificare un futuro che ad Ashraf Ghani sfugge di mano. Nonostante il patrocinio statunitense della sua elezione, nonostante il superamento dei brogli e dei contrasti quasi armati con Abdullah, nonostante l’affratellamento dei due contendenti la normalizzazione del Paese è pura finzione.

Perciò, fra un attentato e l’altro, il presidente afghano s’avvicina a grandi passi al detestato Pakistan, con cui non sono mancati attriti anche recenti. Non solo per le antiche velleità annessioniste dell’ingombrante vicino, ma per l’intento di usare a proprio vantaggio le contraddizioni economiche e militari. Non ultima quella della sicurezza frutto dell’incessante via-vai talebano nella comune frontiera.

Col paradosso, da parte del premier Sharif e del suo omonimo responsabile delle forze armate (rispettivamente Nawaz e Raheel), di combattere i Tehreek interni, portatori di morte in casa e tollerare i turbanti interessati alla nazione contigua, quelli della Shura di Quetta. Forse le prospettive per entrambi i governi ora potrebbero mutare se si organizzerà il grande tavolo di trattative cui Ghani tiene moltissimo e al quale lavora di persona.

È lui a muovere le fila di possibili colloqui che lo interessano soprattutto per salvare le Forze Armate afghane da critiche dissoluzioni, com’è accaduto ad altri eserciti mediorientali, peraltro assai più strutturati e navigati. Per seguire questa via le mosse estere del “presidente diplomatico” hanno finora escluso una visita di cortesia al gigante asiatico indiano, grande avversario di Islamabad.

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Peshawar, il trauma, la scuola, l’incerto futuro

Dal blog di Enrico Campofreda – 13 gennaio 2015

bimbeascuolaÈ una vittoria perché tornano a scuola, contro chi vuole calpestare questo strumento di crescita e trasformarlo in luogo di paura. La divisa verde che li contraddistingue fa più college British che caserma sebbene il luogo, dopo l’attentato della follìa, costato la vita a centoquarantanove fra bambini scolari e giovani studenti, sia controllatissimo e cinto di filo spinato.

Un secondo muro ora si frappone fra il perimetro fortificato e gli edifici dove sorgono le aule. Accade a Peshawar, provincia Khyber Pakhtunkhwa, un’area travagliata come e più di altre del Pakistan.

Lì la mattina del 16 dicembre è diventata un incubo per centinaia di figli di militari che frequentano quell’istituto privato dove un manipolo di guerriglieri Tehreek ha fatto provare a degli innocenti quel terrore vissuto dai bambini del Waziristan sotto le granate delle forze armate di Stato. Una tesi aberrante, ma sostenuta dalle aberranti azioni repressive condotte dall’esercito pakistano in quelle zone.

Ovunque la guerra si dipana cerca giustificazioni di comodo per coprire i propri crimini e usarli a sua misura. La nemesi secondo la quale i figli dei militari devono pagare per le stragi compiute dai padri, non ha niente a che vedere con le leggi del destino, come nulla di epico c’è in certe operazioni di polizia militare che diventano pulizia etnica, razzista o politica.

“Rientrare a scuola è come sfidare i terroristi” rivela Hasan, dieci anni, all’emittente Al Jazeera che filmava la riapertura, orgoglioso di essere lì e ricordare il cugino Asad assassinato nel raid. I terribili flash che i superstiti rivivono sono studiati da medici e psicologi che i coetanei vittime sull’altro fronte non incontreranno mai. L’etnìa e la ragion di stato li rendono poveri e marginali, impossibilitati a quello che siamo abituati a definire normalità. La normalità di simili luoghi sono incertezza e paura. Chi le istilla, chi le conserva, non è una parte sola.

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L’Islam riflette sull’estremismo di casa

Dal blogblog di Enrico Campofreda – 11 gennaio 2015

parisAccanto alla marcia repubblicana di Parigi che va in mondovisione, l’area dell’Islam sunnita s’interroga su se stessa. Personalità religiose, intellettuali e politologi musulmani discutono sui pericoli e danni del fondamentalismo.

 
Avevano iniziato a farlo già un anno fa in Kuwait a un summit dei Paesi arabi che si ripeterà a marzo. Il discorso è proseguito nella prestigiosa Bibliotheca Alexandrina dell’omonima città egiziana.

 
Un confronto programmato che i tragici eventi parigini riportano all’ordine del giorno come un nodo improcrastinabile con cui l’islamismo mondiale (religioso, politico, culturale, sociale) deve misurarsi.

Sia per non perdere la partita contro l’esplicito disegno del “Califfato” qaedista o al-baghdadiano, sia per non trovarsi oggetto di attacchi sempre più taglienti dei pensatori occidentali sostenitori della chiusura nel proprio mondo fino a giustificare le scelte più xenofobe che da Le Pen giungono sino al Bachmann di Pegida. “Affrontare l’estremismo religioso è uno dei maggiori problemi che il nostro ambiente ha davanti. L’estremismo è stato radicato a lungo nelle nostre società” ha esordito il segretario della Lega Araba Nabil Al-Araby avviando l’assise.

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Le norme sui Droni in Afghanistan rimangono invariate, per questo e per altri motivi la guerra non è davvero finita

RollingStone – 7 gennaio 2015 di John Knefel

amx 300x204Anche se molti americani possono non essersene accorti, il 28 dicembre ha segnato quello che il governo degli Stati Uniti ha chiamato la fine ufficiale della guerra in Afghanistan. Quella guerra è stata la più lunga nella storia degli Stati Uniti – ma nonostante il nuovo annuncio che il conflitto sia formalmente finito, la guerra degli Stati Uniti è ben lungi dall’essere compiuta.

In realtà, l’amministrazione Obama considera ancora il teatro afgano un’area di ostilità attive, secondo una email da un alto funzionario dell’amministrazione – e quindi esente dall’applicazione delle linee guida sulle norme più severe e più mirate sull’utilizzo dei droni che sono state annunciate dal presidente in un importante discorso alla National Defense Università nel 2013.

Il funzionario comunica a RS che “L’Afghanistan continuerà ad essere considerata un ‘area di ostilità attive” nel 2015, “. “La PPG non si applica alle zone di ostilità.” (PPG sta per Presidential Policy Guidelines, il nome formale per le regole più severe per l’utilizzo dei droni.)

Questa sconcertante distinzione – che le operazioni di combattimento formali sono finite, ma che gli Stati Uniti rimangono ancora in un conflitto armato – per molti versi esemplifica l’eredità duratura della politica estera di Obama. Dallo Yemen al Pakistan, l’Iraq, la Siria e l’Afghanistan, l’amministrazione ha sempre minimizzato le sue azioni – alcune riconosciuta e alcune segrete – dicendo che le guerre sono (quasi) concluse e nello stesso tempo mantenendo praticamente tutti i poteri di un paese in guerra.

O, come riporta il giornalista e collaboratore di RS a Kabul, Matt Aikins, riferendosi all’Afghanistan: “un ‘formale’ porre fine alla guerra significa l’inizio di una guerra ‘informale’, senza scopo né fine, fondata sulla menzogna che gli Stati Uniti non siano più in guerra.”

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Missione Isaf, inglorioso addio alle armi

Blog di E. Campofreda, 29/12/2014

afghanistanisafVia dall’Afghanistan, ma non del tutto. Chi torna a casa sono 40.000 militari (32.000 statunitensi) della missione Isaf che conclude il suo ciclo di tredici anni di “guerra al terrore” dagli esiti disastrosi. Ufficialmente ha lasciato sul terreno 3.500 suoi uomini, ma ci sono anche i cadaveri non conteggiati di contractors impegnati in svariate occasioni soprattutto incursioni, rappresaglie, rapimenti.

L’intervento ha seminato morte non solo sull’insorgenza talebana, che in alcune province del sud-est ha aumentato una presenza e un rapporto con le popolazioni locali proprio a seguito dei bombardamenti generalizzati responsabili di migliaia di vittime civili. Quante siano state dal dicembre 2001, data di avvio della “missione di pace” Enduring freedom, non è possibile calcolarlo per la difficoltà oggettiva nel raccogliere dati certi.

Ufficialmente le statistiche menzionate dall’United Nations Assistance Mission of Afghanistan parlano di migliaia di morti (5.000 solo nel 2002, i dispacci Nato li definiscono “danni collaterali”) di poco inferiori a quelli provocati dai quattro sanguinosissimi anni (1992-96) di guerra civile interna. Le stragi del disonore, come quella di Shinwar compiuta nel marzo 2007 dalla 120a marines che mitragliava passanti sfogando la propria rabbia per un attentato subìto, si sono ripetute nel tempo.

La missione – che attivisti democratici afghani (Malalai Joya o alcuni membri di Hambastagi Party, da noi intervistati in varie occasioni) denunciano come “odiosa occupazione straniera” – proseguirà con medesimi scopi geostrategici.

La presenza, prevalentemente americana, sarà denominata Resolute support e dislocherà ufficialmente 12.500 uomini nelle diverse basi aeree (Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost) dove continueranno a partire Falcon e droni per azioni “antiterroristiche”. I militari Nato proseguiranno anche il ruolo di addestratori delle truppe dell’Afghan National Army che ammontano a 350.000 uomini.

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I popoli di Pakistan e Afghanistan hanno sofferenze comuni e comuni nemici

Solidarity Party of Afghanistan – 25 December 2014

“L’ingiustizia in un solo paese è una minaccia OVUNQUE” (Martin Luther King)

989 taliban attack on children school in peshawar 1 150x150Tra tutti gli attentati suicidi che fanno carneficina di persone innocenti, il recente massacro dei bambini della scuola di Peshawar riempie il cuore e la coscienza di ogni essere umano di immenso dolore. L’uccisione spietata da parte dei barbari talebani di circa 150 bambini innocenti e il ferimento di altri 130 ha rivelato per l’ennesima volta la profondità della depravazione di questi mostri anacronistici.

La scuola presa di mira – nonostante fosse gestita dall’esercito pakistano – era frequentata da bambini provenienti dalle famiglia più povere del Paese.Le vittime erano bambini e ragazzi che avevano sogni d’infanzia, che non avevano certamente alcun ruolo negli eventi, che in alcun modo hanno meritato un simile orrendo destino.

È straziante pensare che altri esseri umani possano gioire di questo tragico evento. E’ una reazione disumana giustificare questo gesto compiuto dai sanguinari talebani sostenendo che quelle giovani vittime fossero figli di ufficiali dell’esercito pakistano.

Oggi i pakistani, insieme agli afghani, sono in lutto per i loro figli e noi sentiamo il peso del loro dolore. D’altro canto riteniamo che il governo pakistano, in particolare l’esercito e l’intelligence pakistana, abbiano giocato un ruolo fondamentale, sia in Afghanistan che in Pakistan, nel sostegno ai talebani, essendo stati i loro principali finanziatori e sostenitori. Ma è assurdo e stupido confondere la viltà del Governo e dei servizi segreti pachistani con il popolo del Pakistan,che per primo ha fatto le spese delle folli politiche del loro governo.

989 awp and cmkp protest against taliban 300x200I partiti della sinistra pakistana condannano con fermezza l’attacco alla scuola di Peshawar

Il terrorismo fondamentalista non conosce confini e non è altro che uno strumento sanguinario nelle mani di dittature e governi feroci. Non hanno altro obiettivo se non quello di fermare lo sviluppo e il progresso. Il Pakistan ha funzionato come base per i terroristi con il contributo finanziario diStati Uniti, Regno Unito, Arabia Saudita. Purtroppo non è più un segreto che le organizzazioni militari e l’intelligence pachistana hanno promosso e sostenuto i gruppi fondamentalisti, nella logica di una politica neo-colonialista dell’intera regione. Per combatterli è necessaria unità e cooperazione tra i popoli e tra le forze progressiste che conoscono bene le nefandezze di questi spietati assassini.

Non sono i pakistani i nostri nemici. I nostri nemici sono Karzai e la sua cricca, l’attuale governo Abdullah-Ghani, che ugualmente sostengono in patria dei terroristi che diventano ogni giorni più spietati e feroci. Ashraf Ghani ha segretamente incontrato funzionari dell’esercito pakistano a Rawalpindi; a Kabul sono giunti inattesi il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Pakistano Raheel Sharif e il Direttore Generale del ISI (ndt: servizi segreti pakistani) Rizwan Akhtar. Questi sono segnali d’allarme che ancora una volta si stanno stabilendo relazioni nefaste lontane dai riflettori. La presenza di agenti pakistani su territorio afghano è talmente diffusa che persino il Ministro afghano degli Affari Interni e il Direttore della NDS (ndt: servizi segreti afghani) non hanno potuto ignorarla, definendola come un pericoloso fattore di insicurezza per l’Afghanistan.

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Campagna per una società tollerante in Pakistan

searchIl 16 Dicembre 2014, sette uomini armati hanno fatto irruzione nella Army Public School di Peshawar, uccidendo 132 studenti: l’attacco è stato rivendicato dai talebani pakistani in risposta alle operazioni militari del governo contro i militanti e contro il diritto all’istruzione. Tra il 2007 e il 2013, i talebani hanno colpito 122 scuole nella regione dello Swat, la maggior parte di queste frequentate esclusivamente da bambine. In uno di questi attacchi, Malala Yousufzai, una studentessa di 15 anni e attivista per i diritti delle donne, è stata colpita da un proiettile alla testa.

L’attacco ai bambini di Peshawar, il più efferato nella storia del Pakistan, ci ha inorridito e scioccato. Esprimiamo tutta la nostra vicinanza ai genitori di quei bambini rimasti uccisi nell’attentato. Ci siamo chiesti cosa fare, come reagire. Abbiamo capito che l’unica vera risposta è l’istruzione: un diritto universale, e veicolo di importanti valori quali la pace, la tolleranza e il pluralismo.

Richiamare l’attenzione su questo diritto e sulla qualità dell’insegnamento è ora più che mai necessario in Pakistan. Secondo il rapporto dell’ Annual Status of Education, in Pakistan, il 60% dei bambini in età scolastica non sa né leggere né scrivere. Nel 2011, nel rapporto del Pakistan Education Task Force, il Pakistan figurava secondo paese al mondo con il più alto numero di bambini privi di istruzione.

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COPERTE E BENI ALIMENTARI PER LE FAMIGLIE DEI CAMPI PROFUGHI DI KABUL.

unnamed 300x210Il progetto ha l’obiettivo di migliorare la condizione di vita dei profughi che vivono negli agglomerati di fango, legno e nylon nella città di Kabul, in Afghanistan.

Quella dei campi profughi è una popolazione che forzatamente ha dovuto abbandonare case e villaggi delle province più devastate del Paese, e che si è rifugiata, nel corso degli anni, nella “pacificata” Kabul.

I campi profughi sono caratterizzati da una gravissima precarietà abitativa, e vi sono pesanti carenze sul piano dei diritti umani più elementari. Le famiglie vivono in piccoli alloggi fatiscenti, costruiti con materiale di recupero e fango, carenti di corrente elettrica ed acqua potabile per gli usi alimentari e per l’igiene personale.

Mancano le scuole a garantire istruzione elementare e formazione a bambini e giovani. L’assistenza medico sanitaria per i profughi è di fatto inesistente, e diverse malattie facilmente prevenibili/curabili, in simili condizioni di vulnerabilità e indebolimento fisico, si aggravano irrimediabilmente (malattie broncopolmonari, malattie della pelle…).

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Kabul, a teatro con la morte

Giuliano Battiston – Il Manifesto – KABUL, 12 dicembre 2014

balcone emergency 1L’ospedale di Emergency a Kabul

“Bibi Jan, che ne dice se andiamo a tea­tro, domani?”. Rien­trato a Kabul dopo una decina di giorni di inter­vi­ste, appun­ta­menti man­cati e incon­tri for­tuiti tra Lash­kar­gah, nella pro­vin­cia meri­dio­nale dell’Helmand, e Jala­la­bad, a due passi dal con­fine paki­stano, ho subito chia­mato la prin­ci­pessa India d’Afghanistan.

Figlia del re rifor­ma­tore Ama­nul­lah Khan, capo di Stato negli anni Venti del Nove­cento, Bibi Jan ha pas­sato gli “ottanta” con estrema non­cha­lance, la stessa con la quale affronta la vita in una città poco ordi­na­ria come Kabul.

Sono andato a pren­derla nel primo pome­rig­gio di oggi, gio­vedì 11 dicem­bre, al Kabul Star, tra i migliori hotel di que­sta cao­tica città, a due passi dall’ambasciata ira­niana, tra la zona dei mini­steri e quella delle resi­denze diplo­ma­ti­che stra­niere.

Con un taxi abbiamo rag­giunto il liceo Este­q­lal, che al suo interno ospita il Cen­tro cul­tu­rale fran­cese, uno dei pochis­simi luo­ghi dove qui a Kabul sia ancora pos­si­bile seguire atti­vità cul­tu­rali vivaci, dalle mostre foto­gra­fi­che ai film, dagli spet­ta­coli tea­trali agli eventi musicali.

L’ingresso è ben pro­tetto. Una sbarra di metallo e un ampio can­cello impe­di­scono l’accesso alle auto­mo­bili. Si entra da una por­ti­cina di ferro, pas­sando per una stan­zetta dove due guar­diani hanno il com­pito di per­qui­sire e con­trol­lare i visi­ta­tori. Que­sta volta sono con una ospite molto spe­ciale. Nes­sun con­trollo. Solo un’ostentata rive­renza per la prin­ci­pessa India.

All’interno del Cen­tro cul­tu­rale, decine di ragazzi e ragazze scam­biano chiac­chiere, mes­saggi sui tele­fo­nini, qual­cuno scatta foto alle imma­gini appese alle pareti. È la gio­vane élite di Kabul, quella che guarda spesso con entu­sia­smo verso Occi­dente, che parla un discreto inglese, sfog­gia Iphone e scarpe lucide, i capelli impo­ma­tati per i ragazzi, il velo accen­nato e i pan­ta­loni stretti coperti da un vestito a mezza gamba per le ragazze.

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