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Autore: Anna Santarello

Hafiz Rasikh (Partito della Solidarietà): la farsa delle presidenziali ancora una volta non aiuta il popolo afghano

di Enrico CampofredaEnrico Campofreda – 17 marzo 2014

Dr.Hafizallah 1Signor Rasikh, quali sono le aspettative dei cittadini afghani per le prossime presidenziali?
In questo periodo anche noi parliamo delle elezioni, perché l’opinione pubblica si forma sulla fuorviante propaganda alimentata dai media interni e internazionali controllati dallo Stato.
Il dibattito ha un unico obiettivo: far credere alla gente che il proprio voto sia importante e decisivo per il futuro del Paese. La demagogia punta a coinvolgere gli afghani nell’affaccendata campagna elettorale, come se il domani dipendesse da una scelta che possono compiere nell’urna.
La verità è che nei cinque ultimi anni nessuno ha avvicinato le aspettative del popolo e da questo scaturiscono una delusione e uno scetticismo per la politica. La maggioranza dei cittadini ha perso le speranze in simili consultazioni perché si è espressa per due volte (nel 2004 e 2009, ndr) e nulla è cambiato. Le vite di tutti sono devastate. La Commissione Elettorale Indipendente ha emesso 17 milioni di schede elettorali, ma i dati ufficiali delle precedenti elezioni fermano i voti a 4.5 milioni con 1.5 di schede manipolate. Le aspettative dell’odierna tornata non saranno superiori al milione e mezzo di elettori.

Così pochi?
Non sono io a dirlo, ma diversi analisti.

E cosa ci dice dei candidati?
Gran parte ha rivestito posizioni ufficiali, molti hanno già operato. Alcuni pretendenti alla presidenza e loro deputati (Sayyaf, Abdullah, Khan, Helal, Dostum, Mohaqqeq, Balkhi, Mohammad) erano coinvolti nei crimini della guerra civile che ha insanguinato la nazione negli anni Novanta. Il nome di Sayyaf è menzionato dal rapporto di Human Rights Watch, Blood Stained Hands, come criminale di guerra. Non ci possono essere aspettative da simili soggetti.

Esistono differenze fra i fondamentalisti (Sayyaf, Sherzai) e altri come Rassoul e Ghani?
Uomini tipo Sayyaf o Abdullah sono i peggiori fondamentalisti, altri come i citati Rassoul e Ghani provano a dimostrare d’essere democratici. Però un punto è chiaro: ogni tattica perseguita è dettata dal loro tutor politico: il governo statunitense. Questi signori indossano una maschera.

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LETTERA AL MIO MOLESTATORE

Noorjahan Akbar è corrispondente per l’Afghanistan di Safe World for Women. Ha deciso di raccontarci la sua testimonianza.
Pubblichiamo la lettera di Noorjahan Akbar, corrispondente per l’Afghanistan di Safe World for Women. Ha deciso di raccontare la sua testimonianza a The Post Internazionale.

The Post Internazionale – 17 novembre 2014

Ciao signore,
io non conosco il tuo nome, ma sei passato accanto a me una settimana dopo l’Eid-ul-Fetr nel bazar di Kabul. Potresti ricordarti di me. Ero la giovane donna che indossava una sciarpa bianca e una lunga tunica rossa ricamata con pantaloni scuri. Ero in piedi vicino a una bancarella di ortaggi e stavo contrattando il prezzo della menta fresca quando mi sei passato accanto e con nonchalance mi hai pizzicato il sedere. Io sono arrossita. Il vecchio che vendeva gli ortaggi se n’è accorto, ma non ha detto nulla. Probabilmente vede queste cose ogni giorno. Anche a me è successo più di una volta, ma questa volta mi sono sentita più imbarazzata perché il vecchio l’ha notato.

Ti ho rincorso e ti ho afferrato il polso. Spaventata e presa dal panico ho iniziato a urlare. “Perché l’hai fatto? Come ti permetti? Lo fai anche a casa ai tuoi familiari?”. E tu hai cominciato a urlarmi contro ancora più forte. “Tu pazza donna! Io non ho fatto niente. Non vale la pena di farti nulla”.

Ero ancora imbarazzata per raccontare alla gente quello che mi avevi fatto. Probabilmente ricordi come tutti ci guardavano. Altre donne mi hanno consigliato di mantenere la calma, avvertendomi che questo scandalo sarebbe servito solo a rovinare la mia reputazione, ma io non avevo intenzione di mollare in quel momento. Ho iniziato a urlare. Ben presto è arrivata la polizia e ci ha portato entrambi alla stazione.
Un uomo alto in uniforme mi ha chiesto cosa fosse successo. Gliel’ho raccontato. Tu hai aperto la bocca e l’ufficiale di polizia ti ha urlato: “Tu, stai zitto!”. Poi ti ha picchiato. Tu stavi sul pavimento e lui ti dava calci con le sue scarpe gigantesche. Il sudore gli colava sulle folte sopracciglia. Doveva essere così arrabbiato, come lo ero io.
Non ti ho più rivisto, ma l’amico che stava camminando con te mi ha seguito fino a casa. Mi ha detto: “Qual è il problema?! Non ti ha mica s***o”. Ma ero troppo stanca per affrontare un secondo litigio quel giorno.

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Afghanistan. Il sogno della laurea, tra le spire di un sistema corrotto

di Anna Toro – 05 Marzo 2014 – Osservatorioiraq

455px Kabul Medical University in 2006Anche quest’anno in Afghanistan è scoppiata puntuale la polemica sugli esami di ammissione all’università, i “kankor” (parola che significa “ingresso”), diventati ormai uno dei tanti simboli della corruzione imperante che regna nel paese.

Sono sempre di più i giovani afghani che, dopo il diploma di scuola superiore, vogliono accedere all’università. La maggior parte di loro, però, si trova la porta sbarrata proprio all’ingresso, a causa del kankor, il famigerato test di ammissione che, oltre ad avere un meccanismo perverso e discutibile, ogni anno porta con sé accuse di malagestione, frodi, imbrogli e corruzione.

I casi ormai non si contano più: l’ultimo arriva da Herat, dove i test che dovevano tenersi a metà febbraio sono stati annullati all’ultimo minuto, perché i fogli con le domande sono trapelati prima del tempo. Così, i quasi 17.000 studenti provenienti da tutto il paese – più della metà erano ragazze – che avrebbero dovuto sedersi sui banchi e affrontare la prova, sono rimasti a bocca asciutta.

L’imbroglio è stato scoperto dalla delegazione di controllo istituita dal Mohe, il Ministero dell’Istruzione Superiore, che ha confermato ai media afghani l’arresto del principale imputato, un docente, e di 42 studenti, complici nella fuga di notizie (oltre che la promessa della ripetizione del kankor).

Ancora, solo sei settimane prima migliaia di esami d’ingresso tenutisi nella provincia di Logar sono stati dichiarati nulli da un’altra commissione ministeriale, che ha accusato alcuni membri del consiglio provinciale di aver distribuito telefoni cellulari ad alcuni studenti in modo che potessero chiamare e chiedere aiuto durante l’esame. “Il sistema dei test d’ingresso è stato colpito dalla politica e dev’essere cambiato” aveva denunciato Taj Mohammad Akbar, docente di Economia all’Università di Kabul, al giornale Afghan Zariza.

Ancora più clamoroso l’episodio, sempre a Logar, sempre del dicembre 2013 in cui la delegazione avrebbe letteralmente gettato in un canale tutti i fogli degli esami appena effettuati nella sede di Pul-e Alam.

Lotfullah Safi, capo della delegazione e docente presso la facoltà di Scienze Ambientali dell’Università di Kabul, in seguito ha giustificato questo gesto con la rabbia dei delegati contro i “funzionari locali e gli uomini di potere” che avrebbero interferito nel kankor e minacciato la delegazione di controllo.

Cosa, questa, tutt’altro che rara, come riporta anche la lunga e interessante analisi sul tema presente sull’Afghanistan Analysts Network (AAN), che spiega tra le altre cose come, in realtà, la creazione della commissione ministeriale di controllo sia piuttosto recente (novembre 2013), proprio sulla scia delle forti proteste studentesche seguite ai kankor dello scorso anno.

Nel marzo del 2013, infatti, migliaia di studenti afghani sono scesi in piazza a protestare contro le frodi ai test e la debolezza da parte del governo nel perseguire i responsabili di imbrogli, tangenti e intimidazioni.

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Un’agenda in sette punti per i diritti umani in Afghanistan

di Riccardo Noury, 12 marzo 2014 – Corriere della Sera

afghanistan donneuCONFLITTI In vista delle elezioni del 5 aprile, Amnesty International ha inviato a tutti i candidati alla presidenza dell’Afghanistan un’agenda per i diritti umani in cui chiede che questi non vengano messi in un angolo bensì siano al centro dei programmi e della loro attuazione.

L’agenda di Amnesty International presenta raccomandazioni pratiche su come migliorare la situazione dei diritti umani in sette aree cruciali: adempiere agli obblighi internazionali sui diritti umani; garantire che i presunti autori di crimini di guerra, appartenenti alle forze afgane e a quelle internazionali, siano chiamati a risponderne; proteggere i diritti delle donne e delle bambine; prevenire glisfollamenti interni e reagire a quelli in atto; porre fine all’impunità per le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra del passato; garantire la libertà d’espressione; abolire la pena di morte.

Se non c’è dubbio che nell’ultimo decennio siano stati fatti passi avanti in materia di diritti umani, è altrettanto evidente che per milioni afgani, e soprattutto di afgane, le prospettive sono ancora cupe. Le violazioni collegate al conflitto e un agghiacciante livello di violenza contro le donne e le bambine sono solo due delle questioni che, secondo Amnesty International, dovranno essere affrontate dalla prossima presidenza.

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Presidenziali afghane: accordi palesi, finanziatori occulti

Enrico Campofreda – 14 MARZO 2014 – blog

Election ELECTIONSITE 0Chi paga cosa, è l’insinuante domanda che alcuni attivisti afghani pongono attorno alla campagna delle presidenziali afghane. La Commissione Elettorale Indipendente sta compiendo controlli su inosservanze di quel regolamento che ciascun candidato deve accettare. Sono sotto la lente peccatucci veniali ma, ad esempio, non c’è stata verifica sui finanziamenti. Questi non possono ammontare a più di 10 milioni di afghani (174.000 dollari) nei due mesi di propaganda.

Qualche sospetto, per ora non provato, fa dire agli oppositori democratici che più d’un candidato può spendere quella cifra in una sola settimana. Fra i dati diffusi dalla nota tivù locale Tolo tv Qayum Karzai, fratello ora ritirato del presidente uscente, aveva ricevuto oltre un milione di afghani spendendone 6.300.000.

Eppure un po’ tutti i nomi noti sono sostenuti da elargitori rimasti occulti: Abdullah (4 milioni e mezzo), Ghani (2.300.000), Rassoul (3.100.000), Sayyaf (4.200.000) e c’è chi come Sherzai non ha dichiarato sostegni economici ma ha impegnato 4.225.000 afghani. Visto quel che l’intransigente signore della guerra fece nel 2012, procurando fondi per la campagna elettorale di Obama, un cattivo pensiero porterebbe a insinuare che il presidente Usa gli stia ricambiando il favore…

L’auspicio della gente comune è che il Paese volti pagina attorno ai sentiti temi di pace e sicurezza, rilancio economico e lotta alla corruzione, questioni legate fra loro che rientrano nel programma di ogni candidato. Tutti, a parole, si mostrano d’accordo, anzi si fanno promotori d’una reale mutazione di passo, come del resto accade in ogni campagna elettorale sparsa per il mondo. Ovviamente la specificità afghana è data dai giochi futuri prospettati da “amici” vicini e lontani.

Quali i pakistani fomentatori di jihad, acquiscenti come sono verso i talebani interni, e le grandi potenze che direttamente o attraverso multiaziende si propongono di rilanciare l’economia traendone benefici diretti in una ridda di accordi-contrasti che ingombrano la libera scelta nazionale interna. Dopo due invasioni, quella in corso che si prolungherà dopo la firma dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza sino al 2024, il tema dell’autodeterminazione è generalmente sentito anche fra i concorrenti alla poltrona Karzai che non potranno evitare rapporti diplomatici col mondo. Finora, ma siamo in campagna elettorale, tutti hanno battuto sul tasto dell’orgoglio nazionale che deve travalicare le divisioni etniche e tribali. Fra intese, pur verbali e non scritte, Rassoul è il politico che più d’altri sembra beneficiare del richiamo alle radici.

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Consapevolezza, organizzazione, lotta: nessun altra via per l’emancipazione delle donne!

Venerdì, 7 marzo 2014 – Documento del Solidarity Party of Afghanistan

682 hambastagi statement 08 march 2014 engL’8 marzo, Giorno Internazionale della donna, segna la lotta e la solidarietà delle donne in tutto il mondo per asserire i loro diritti calpestati e le catene imposte dal dominio maschile, dai regimi tiranni e dal sistema capitalistico. L’8 marzo è il giorno che proclama il rovesciamento delle istituzioni disumane e la rivolta contro le ineguaglianze che riducono ed esaltano la posizione delle donne come macchine per la riproduzione di figli e di strumenti per saziare la passione carnale degli uomini, e permettono che i più orrendi crimini siano perpetrati contro le donne.

L’8 marzo rende omaggio e rinnova l’intesa con il sangue versato da quelle come Nahid, Wajiha, Meena, Rosa Luxemburg, Leyla Qasim, Shirin Alam Holi, Zoya, Marzieh Oskoi, Tania e numerose altre donne in tutto il mondo. Queste campionesse dell’emancipazione delle donne provarono con la loro resistenza, lotta leggendaria e lo spargimento del loro sangue che le donne possono lottare fianco a fianco con gli uomini per una società senza oppressione, ingiustizia e che non c’è altra via per l’emancipazione dalla schiavitù e miseria.

Il nostro paese è privo di indipendenza e libertà, ed è schiacciato dai raid barbari degli occupanti e dai loro vili servi; perciò i diritti delle donne e i diritti umani in generale non hanno posto nella nostra società. In un paese che è stato reso privo d’indipendenza, parlare di democrazia e giustizia è demagogico.

Conseguentemente non possiamo congratularci con le nostre  donne private d’espressione in questo giorno, perché sarebbe una vuota formalità – ciò che individui ed entità della  nostra burocrazia ossessionata dal dollaro stanno facendo. Quando la totale maggioranza delle nostre donne passano la loro vita in una miseria spregevole, e in ogni momento i crimini più orrendi sono commessi contro di loro e le più avvilenti offese sono rovesciate addosso a loro, questo giorno può solo essere commemorato rinnovando il nostro voto ad intensificare la lotta per assicurare i diritti delle donne e smascherando e cacciando ogni forma di misoginia e i suoi perpetratori.

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Afghanistan: signori della guerra in lutto – muore Fahim

Dal blog di Enrico Campofreda – 9 marzo 2014

FahimSe l’è portato via il diabete, non la resistenza antisovietica degli anni Ottanta o la guerra civile dei Novanta. Lì erano gli altri a soccombere.  Mohammad Fahim, tajiko e vicepresidente afghano, muore a 57 anni  lasciando un vuoto nell’eredità dei nuclei politici dell’Alleanza del Nord ereditati dalla sua guida politico-militare: Ahmed Massoud.

 
Il tuttora venerato ‘leone del Panshir’ finì i suoi giorni nel settembre 2001 in un attentato mascherato da intervista nel quale esplose assieme alla telecamera dei cronisti-kamikaze.

Anche Fahim aveva subìto tentativi di assassinio a Jalalabad, poi a Kunduz (nei contrasti con l’uzbeko Dostum) da amici e nemici di potere e prepotenze, ma ne era uscito indenne. Diversamente dall’altra figura preminente dell’etnìa pashtun delle province settentrionali del Paese, quel Burhanuddin Rabbani stroncato anch’egli da un’esplosione mirata, avvenuta a un decennio esatto dall’uccisione del suo braccio armato Massoud.

 
Strana vicenda quella della leadership dell’Alleanza del Nord, durante l’epoca dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan foraggiata dagli Stati Uniti, come lo furono i talebani. Sicuramente i loro leader erano politici capaci e ottimi combattenti, alle due doti Massoud aggiungeva carisma rivolto ai suoi uomini e agli stessi avversari interni e internazionali.

Le congeniali affabilità e diplomazia, il sorriso furbesco e ammaliatore,  diventavano armi efficaci come la capacità guerrigliera nelle impervie e inespugnate aree in cui operava.

Diverso dall’austerità tradizionalista di Rabbani e dal ghigno feroce di Fahim. Quest’ultimo seguì più la via di altri famigerati Signori della guerra (ma gli stessi Massoud e Rabbani lo erano) puntando al controllo del territorio e imponendo con la forza la sua volontà a concittadini-sudditi che sono aiutati, se ne accettano volere e imposizioni, oppure stroncati dalle bande paramilitari. Queste non sono mai venute meno anche con l’avvìo della seconda occupazione, quella Nato definita Enduring Freedom.

Fahim aveva trovato nel secondo mandato di Hamid Karzai un formidabile trampolino di lancio per la grande politica diventando, in coppia con un altro veterano della guerra civile per bande, l’hazara Karim Khalili, il vicepresidente della Repubblica Islamica. Entrambi erano stati vicini a Karzai dal precedente mandato, Fahim come ministro della Difesa.

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Presidenziali afghane: la saga dei Karzai

Dal blog di Enrico Campofreda – 27.2.2014

qayumkarzaiIl fratello del presidente lancia promesse solenni: dice di voler fare dell’Afghanistan il centro economico del Grande Medio Oriente tramite accordi coi paesi vicini. Non solo Turkmenistan e Uzbekistan che però, in base alle riserve del sottosuolo e alla rete delle alleanze che ne deriva, assumono un’aria sostenuta.

 
Ma addirittura verso gli angeli e demoni che lo cingono in un soffocante abbraccio: Iran e Pakistan. Due comunità vivaci e potenti con esplicite mire d’egemonìa regionale che guardano l’establishment di Kabul dall’alto in basso e finora hanno sempre cercato di condizionare con Intelligence, politici locali e denari l’emancipazione dell’attigua nazione. Basterebbe questo per bollare quale velleitario il programma di Qayum Karzai, più vecchio d’un anno del più famoso Hamid.

 
Eppure lui è deciso di giocarsi la partita delle consultazioni d’aprile al pari di pretendenti maggiormente accreditati. Potrà contare sull’appoggio del fratello, che da politico esperto punta anche su altri due nomi (Wardak, Rassoul), ma trova in Qayum il più sicuro esecutore degli interessi di famiglia. Che notoriamente non sono pochi. In fondo l’azzardo di lanciare nella mischia questo congiunto, che s’era prevalentemente occupato di business della ristorazione gestendo locali a Baltimora, è legato all’intento e al bisogno di Hamid di non uscire dai contatti, e dai contratti, mondiali che contano.
 
Il programma di Qayum, come altri e più di altri, evidenzia l’importanza del tema della sicurezza, su cui l’elegante fratellino s’è guadagnato le critiche degli amici d’Oltreoceano. Per l’assenso sul Bilateral Security Agreement prima promesso a Obama, quindi lasciato in stand-by per la mancanza della sua firma. La mossa gli è servita per aprire un fronte interno a proprio favore: Hamid ha coinvolto sull’argomento la Loya Jirga e ne ha incassato l’approvazione quasi assoluta.

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Afghanistan. L’accesso all’assistenza medica è una lotta continua

MSF – Medici Senza Frontiere – 26.02.2014

Nuovo rapporto MSF – Medici Senza Frontiere: cure mediche non accessibili per molti, nonostante oltre 10 anni di aiuti internazionali.

Dopo più di dieci anni di investimenti e aiuti internazionali, l’accesso alle cure mediche di base e di emergenza in Afghanistan resta seriamente limitato e assolutamente inadatto a soddisfare i crescenti bisogni causati da un conflitto ancora in corso. Lo rivela il nuovo rapporto presentato a livello internazionale da MSF.

L’assistenza sanitaria è spesso ostentata come una conquista ottenuta grazie agli sforzi internazionali di costruzione dello stato afghano, ma la situazione è ben lontana dall’essere una storia di successo. Sebbene dal 2002 siano stati fatti dei progressi nel fornire assistenza sanitaria, il rapporto “Tra retorica e realtà: la continua lotta per l’accesso all’assistenza medica in Afghanistan” rivela i rischi gravi e spesso mortali che le persone sono costrette ad affrontare per cercare cure mediche, sia di base che di emergenza.

La ricerca – condotta nel 2013 per 6 mesi e con più di 800 pazienti, negli ospedali in cui MSF lavora nelle province di Helmand, Kabul, Khost e Kunduz – mostra chiaramente che la retorica positiva sui miglioramenti nell’assistenza sanitaria rischia di offuscare le sofferenze degli afghani che restano privi di un’adeguata assistenza medica.

“Un paziente su cinque tra quelli intervistati ha perso un membro della famiglia o un amico, negli ultimi due anni, a causa del mancato accesso alle cure mediche”, dichiara Christopher Stokes, direttore generale di MSF. “Tra quelli che hanno raggiunto i nostri ospedali, il 40% ci ha detto di aver affrontato combattimenti, terreni minati, posti di blocco o molestie lungo il cammino.”

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