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Autore: Anna Santarello

Daniela Birsa ci ha lasciate

Trieste, 12 gennaio 2014

DanielaBirsa1Con grandissima tristezza annunciamo la scomparsa della nostra compagna Daniela Birsa, una donna intelligente, bella e appassionata che sin dagli inizi ha sostenuto e collaborato con il Cisda, dimostrando sempre grande entusiasmo e devozione ed organizzando diverse e importanti iniziative a Trieste con le compagne afghane. La sua perdita è un dolore profondo per tutte noi.

Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane

http://www.sinistraecologialiberta.it/notizie/ciao-daniela-2/

 

Perché gli Stati Uniti vogliono rimanere in Afghanistan

Antiwar.com – January 8, 2014

Antiwar carlos latuffL’ovvio primo motivo è quello di mantenere in Afghanistan contingenti militari più contenuti, ma d’elite per continuare i combattimenti quando necessario per tutelare gli interessi degli Stati Uniti, tra cui il mantenimento di una forte influenza all’interno del paese. Tali interessi saranno messi in pericolo se, come alcuni sospettano, il conflitto armato alla fine deflagrasse tra le varie forze che contendono il potere a Kabul sin dalla metà degli anni 1990, tra cui, ovviamente, i talebani, che sono stati al potere nel 1996-2001 fino all’invasione degli Stati Uniti.

La seconda ragione è che l’Afghanistan è un territorio estremamente importante dal punto di vista geopolitico per gli Stati Uniti, soprattutto perché è la sola base militare del Pentagono in Asia centrale, confinante con l’Iran ad ovest, il Pakistan ad est, la Cina a nord-est e le varie ex repubbliche sovietiche ricche di risorse a nord-ovest, così come la Russia al nord. […]

Gli Stati Uniti dovrebbe ritirare tutte le truppe dall’Afghanistan entro la fine di questo nuovo anno. Ma nonostante i sondaggi sula pubblica opinione dicano il contrario, il presidente Obama sta cercando di lasciare diverse migliaia di soldati delle Forze Speciali, formatori militari, personale della CIA, “contractors” e posti di ascolto e di sorveglianza per più di 10 anni in Afghanistan fino alla fine del 2024.

Why the US Wants To Stay In Afghanistan

The objective over time is to sharply increase US economic, trade and political power in strategic Central and South Asia to strengthen US global hegemony and to impede China’s development into a regional hegemon By Jack A. Smith The U.S. is supposed to withdraw all its troops from Afghanistan by the end of this new year. But despite public opinion polls to the contrary, President Obama is seeking to leave several thousand Special Forces troops, military trainers, CIA personnel, “contractors” and surveillance listening posts for 10 more years in Afghanistan until the end of 2024.

 

The CNN/ORC International survey released Dec. 30 shows that 75% of the American people oppose keeping any US military troops in Afghanistan after the scheduled pullout Dec. 31. Indeed, “a majority of Americans would like to see US troops pull out of Afghanistan before the December 2014 deadline.”

The poll’s most important statistic is that “Just 17% of those questioned say they support the 12-year-long war, down from 52% in December 2008. Opposition to the conflict now stands at 82%, up from 46% five years ago. CNN Polling Director Keating Holland suggested the 17% support was the lowest for any US ongoing war.

A majority of Americans turned against the war against Afghanistan a few years go, but according to a Associated Press-GFK poll released Dec. 18 – these days 57% say that even attacking and invading Afghanistan in 2001 was probably the “wrong thing to do.”

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Innocente, colpevole-utile? Cosa c’è dietro lo scontro Usa-afghano sulla liberazione di 88 detenuti di Bagram.

Afghan Analyst Network – 8/1/2014

bagram prisonIl governo afghano ha annunciato ieri (7 gennaio) che avrebbe proceduto con il rilascio di 88 prigionieri talebani dalla prigione di Bagram nonostante le obiezioni degli Stati Uniti.

Politici americani , tra cui due senatori statunitensi che hanno visitato Kabul all’inizio di gennaio, hanno messo in guardia sul possibile deterioramento delle relazioni bilaterali USA- Afghanistan se il rilascio di prigionieri andasse avanti . La questione ha messo ulteriore pressione sui negoziati per l’accordo strategico bilaterale che Washington avrebbe voluto firmare entro la fine del 2013 e che il presidente Karzai ha fino ad ora ritardato. La polemica sui prigioniero è l’ultimo capitolo della lotta in corso sulla sovranità nel carcere di Bagram e su chi ha l’ultima parola nel paese.

Una delle principali ragioni per il rilascio è stata la pressione esercitata da influenti leader tribali che da anni facevano la coda nel palazzo presidenziale di Kabul per invocare la liberazione di parenti stretti detenuti nel carcere di Bagram. Il presidente dipende molto dal sostegno politico di questi leader, soprattutto ora con le elezioni presidenziali imminenti . Anche se Karzai stesso non può candidarsi alle elezioni , dal momento che la Costituzione afghana non consente un terzo mandato , ha un forte interesse nell’influenzare la scelta e la linea politica del suo successore .

Per tenere la posizione nel suo scontro con il ‘Golia’ americano, Karzai vorrebbe rafforzare ulteriormente il suo ruolo di leader patriottico in difesa dell’orgoglio e della sovranità afghana. Inoltre, il controllo indiscusso su tutti i prigionieri potrebbe dare una mano al presidente nei negoziati con la leadership dei riluttanti talebani affinché accettino di aprire il colloquio con Kabul.

Innocent, guilty – useful? What’s behind the US-Afghan clash over 88 prisoners from Bagram

The Afghan government announced yesterday (7 January) that it would go ahead with the release of 88 Taleban prisoners from Bagram despite US objections. American politicians, including two senior US senators who visited Kabul in early January, have warned of further damage to US-Afghan bilateral relations if the prisoner release goes forward. The issue has put additional strain on negotiations over the Bilateral Strategic Agreement (BSA) which Washington had wanted signed by the end of 2013 and which President Hamed Karzai has until now delayed. The prisoner controversy is the latest instalment in the ongoing struggle over sovereignty in Bagram prison and over who has the last word in the country as a whole as it heads into elections. The AAN team and guests report, with a particular focus on who these prisoners are and why the Afghan government is so keen on releasing them.

When the US military handed over control of notorious Bagram prison to Afghan authorities in March 2013 (see our earlier analysis here), Afghans and Americans agreed that no prisoner of the now renamed Afghan National Detention Facility (ANDF) whom the US considered a security threat would be released without US consent. The 88 Bagram inmates now being considered for release, however, were designated as particularly dangerous by the US, who held them responsible for killing 35 US soldiers and 70 Afghan security forces personnel, as a high-ranking official in the Afghan ministry of defense told AAN. All of the inmates appear to be Afghans. (There is also a group of non-Afghan prisoners – our analysis on them is here.)

At the time of the handover, the US provided Afghan prison authorities with files on its investigations of each prisoner. Now, the Americans feel tricked by the 6 January announcement of Abdul Shakur Dadras, the head of the Afghan Review Board (ARB) responsible for evaluating the detainees’ files, saying that he did not intend to keep any of the 88 imprisoned because “the documents we have seen so far provide no reason to convict them. Our decision is to release them as soon as possible if there is no incriminating evidence against them”. On 7 January, in a phone interview with Stars and Stripes magazine, Dadras phrased it slightly more carefully, saying that the board had reviewed all of the cases, but that the work was not finished yet. “Those people are not released yet, and we will review their cases again and again,” he said. “If there is any evidence or information found against any of them, they will get prosecuted.”

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Tra speranze e fallimenti, l’Afghanistan che non si vede

Osservatorio Iraq – Articolo di Anna Toro

“Tante sono le storie viste e sentite durante i miei viaggi. Una voce mi è rimasta nella mente e nel cuore: in un incontro a Farah, il capo villaggio nel congedarci ci ha raccomandato: ‘parlate, parlate dell’Afghanistan, perché solo così questo paese continuerà a vivere’”.

Sono le parole della fotografa Carla Dazzi a introduzione della sua mostra conclusa recentemente presso la biblioteca Rispoli di Roma. Volontaria dell’Ong Insieme si può…, da oltre 10 anni si spende a favore della difesa dei diritti delle donne, e di quelle afghane in particolare, “ancora oggi impossibilitate a condurre una vita davvero libera e nel pieno della loro dignità”.

Sono soprattutto loro che ritrae nei suoi scatti pieni di calore umano ed empatia.

“L’Afghanistan non è solo guerra, e gli afghani non sono solo guerrieri o fondamentalisti” spiega la fotografa. “Esiste anche un altro Afghanistan di cui si parla poco, un paese di donne e uomini che, pur vivendo dentro i conflitti, cercano soluzioni alternative a quelle basate sui rapporti di forza e l’uso della violenza”.

In tutti questi anni i viaggi di Carla Dazzi in quell’area geografica sono stati numerosi: “Purtroppo – racconta – quella speranza che vedevo nel 2002 durante le prime mie visite nei campi profughi afghani, oggi non la vedo più”.

Una constatazione amara, con parole dure che rimarcano l’esortazione iniziale: “Se non si può eliminare l’ingiustizia – afferma la fotografa – almeno che se ne parli”. 

Ecco perché l’inaugurazione della sua mostra ha fatto da sfondo all’incontro con i cittadini romani della giovane attivista e politica afghana Malalai Joya, insieme alla presentazione del libro di Enrico Campofreda e Patrizia Fiocchetti, “Afghanistan fuori dall’Afghanistan”.

Un triplice evento ancora più significativo se si pensa all’incontro quasi contemporaneo alla Camera dei Deputati sui “successi” ottenuti dalle donne afghane dal 2001 ad oggi, e proprio a pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

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La donna più famosa d’Afghanistan contro i signori della guerra. E contro la Nato

Corriere della Sera – Milano, di Germana Lavagna – 27/12/2013

MalalaiContropianoMalalai Joya ha 35 anni, uno sguardo fermo ed un sorriso incerto. È diventata un simbolo della lotta per i diritti delle donne e, in Afghanistan, dove vive, incita la sua gente all’autodeterminazione e all’affrancamento dal potere corrotto e dall’occupazione militare straniera.

“Il mio popolo ha due nemici: i signori della guerra e le truppe della Nato” – sostiene senza perifrasi alla conferenza organizzata a Milano dal Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane.

Malalai salì agli onori delle cronache nel 2003, quando come delegata della Loya Jirga, l’assemblea del popolo, pronunciò un discorso con il quale osò apertamente sfidare i signori della guerra. La sua voce e il suo coraggio fecero il giro del mondo e da allora Malalai vive sotto scorta, viaggiando per le province dell’Afghanistan e parlando alle conferenze di mezzo mondo.

Eletta parlamentare nel 2006 come rappresentante della provincia di Farah, dalla quale proviene, Malalai ha continuato a puntare il dito contro la corruzione di un sistema politico nelle mani dei signori della guerra, che si sono arricchiti, prima nella lotta contro l’URSS, e ora con il traffico di armi e droga.

“Il nostro è un governo fantoccio, popolato da marionette nella mani degli americani” – le parole di Malalai sono colme di una pacata commistione di angoscia e rabbia – “Alle prossime elezioni presidenziali (che si terranno il prossimo aprile, ndr), il successore di Karzai, sarà un altro Karzai, ossia una persona gradita alla Casa Bianca”.

“E così in dodici anni di occupazione militare, prima con Bush e poi con Obama, la condizione del popolo afghano è peggiorata. L’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre la produzione di oppio è aumentata esponenzialmente.”

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Missione compiuta? L’Afghanistan è un fallimento disastroso e i nostri leader devono pagare

di Seumas Milne – 18 Dicembre 2013 – The Guardian

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Le truppe inglesi non hanno raggiunto un solo obiettivo tra quelli previsti dalla loro missione in Afghanistan. Come in Iraq ed in Libia, è un vero disastro.

Di tutte le menzogne senza senso pronunciate dai politici, le parole di David Cameron in merito all’imminente ritiro delle truppe inglesi dall’Afghanistan e alla loro ‘missione compiuta’ meritano una riflessione a parte.

Sembrava quasi che, evocando il tristemente noto discorso di George Bush nel maggio 2003 in cui annunciava la vittoria americana in Iraq, il primo ministro britannico volesse a tutti i costi rendersi ridicolo.

In realtà le truppe inglesi, americane e Nato sono in Afghanistan da così tanto tempo – due volte la Seconda Guerra Mondiale – che forse i rispettivi leader hanno dimenticato il vero obiettivo della loro missione. Lo scopo iniziale della guerra in Afghanistan era quello di combattere Al-Quaeda, sconfiggere i talebani e catturarne o ucciderne i leader, Osama bin Laden e il Mullah Omar.

Questo obiettivo si è presto trasformato in una campagna militare in difesa della democrazia e dei diritti delle donne, volta a difendere le nostre città da possibili attacchi terroristici, debellare la produzione di oppio in Afghanistan e garantire sicurezza e stabilità politica in tutto il paese, da Helmand a Kandahar.

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Malalai Joia: “Le donne stavano meglio prima della guerra di ‘liberazione’”

di Silvia Giannelli – 20 dicembre 2013 – ilfattoquotidiano

attivista afghanistan 640Malalai ha 35 anni e dieci anni fa era la donna più giovane a sedere nel parlamento afgano. Oggi vive nella semiclandestinità, cambiando continuamente residenza perché costantemente minacciata di morte. Dal parlamento fu espulsa nel 2007, per aver dichiarato in un’intervista che “a differenza degli animali che si trovano in una stalla, quelli che sedevano in parlamento non avevano alcuna utilità“. Si riferiva ai signori della guerra, i criminali che durante i conflitti che hanno segnato l’ultimo trentennio in Afghanistan si sono arricchiti e macchiati di crimini atroci.

Come parte delle iniziative per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre), Telefono Rosa ha invitato Malalai a raccontare la sua storia in diverse città italiane. L’attivista afgana ha così incontrato cittadini e studenti per parlare di come la guerra ha, di fatto, peggiorato la condizione delle donne nel suo Paese.

“Sono qui per raccontare le conseguenze di dodici anni di cosiddetta ‘guerra al terrorismo’ da parte degli Stati Uniti e della Nato e della disastrosa situazione delle donne nel nostro Paese – ha dichiarato Malalai – Sono qui per aprire gli occhi e la mente dei cittadini italiani, per incoraggiarli a supportare soprattutto chi, mettendo a rischio la propria vita, si impegna per promuovere l’educazione in Afghanistan”.

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Malalai, in nome dell’Afghanistan

di Monica Bozzellini, 17 dicembre 2013 – giula.globalist

NEWS 117857.jpgAnita Sonego, presidente Cpo Comune di Milano, l’afghana Malalai Joya e una delle responsabili del Cisda

Malalai Joya ha 34 anni, 16 dei quali vissuti con la propria famiglia in campi profughi tra i confini dell’Afghanistan, dove è nata, e il Pakistan. Eletta nel 2003 alla Loya Jirga, l’Assemblea del Popolo convocata per ratificare la Costituzione dell’Afghanistan, viene sospesa nel 2007 per le dure posizioni contro alcuni Signori della Guerra che oggi ricoprono incarichi parlamentari e vive da allora sotto scorta, passando di casa in casa, oggi con un marito e un figlio.

Il suo impegno è la liberazione del popolo afghano: durante il regime dei talebani, attraverso l’educazione clandestina delle donne; da 12 anni con la denuncia di quella che, insieme al fondamentalismo, ritiene essere la radice dei mali attuali del Paese, ossia l’occupazione delle forze alleate impegnate a “sostenere un governo composto da Signori della guerra” e ora a “dialogare con i talebani, rafforzandoli”.

A Milano, ospite del CISDA Onlus (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) lo scorso 11 dicembre, Malalai ha incontrato all’Urban Center di Milano cittadini e autorità ed è stata subito evidente la sua vera priorità, una denuncia che non guarda in faccia nessuno: “Rappresento una nazione che dopo 12 anni di guerra è ancora in mano a un governo fascista ed è vittima dell’occupazione delle forze della Nato.

Oltre a condannare la brutalità di questa guerra, vorrei parlarvi delle conseguenze dal punto di vista dei diritti umani: della violenza patita, del saccheggio e della trasformazione subiti dal nostro Stato, diventato mafioso. Parlo in nome del popolo afgano per cui l’unica soluzione possibile è un ritiro totale della forza internazionale. La nostra gente può effettivamente progredire se Usa e Nato smettono di rafforzare i signori della guerra e i talebani.

Oggi ci sono molte manifestazioni spontanee in questo senso, con decine di migliaia di persone a sostegno, ma non ne avrete notizia dai vostri canali di informazione ufficiali”.

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AFGHANISTAN ULTIMA SFIDA

L’Unità – di Cristiana Cella (attivista CISDA) – 15/12/2013

Karzai respinge la proposta di legge sul ritorno della lapidazione e la comunità internazionale tira un sospiro di sollievo. Il ministro della Giustizia afferma che c’è stato un equivoco. Il caso sembra archiviato come una falsa mossa. Ma le attiviste dei diritti delle donne non si fidano di affermazioni ambigue, sotto la spinta dell’opinione pubblica mondiale.

La proposta di legge, divulgata dal ‘Guardian’, e poi rientrata, è un segnale allarmante dell’audacia dei  giudici fondamentalisti, che lavorano sulla riforma del sistema legale, evidentemente consapevoli dell’accordo del Parlamento.
‘Non si tratta- afferma Selay Ghaffar, in visita in Italia in questi giorni, – di una mossa isolata ma di un pericoloso processo, già ampiamente in corso.’ Selay ha denunciato con forza, in ogni suo incontro istituzionale o dibattito pubblico, la drammatica deriva dei diritti delle donne in Afghanistan.

‘Le leggi che le proteggono, sancite dalla Costituzione, vengono erose, passo dopo passo dal parlamento di Karzai. Come, ad esempio, la norma che stabiliva a 16 anni l’età minima per il matrimonio, recentemente cancellata. Il matrimonio forzato precoce, che raggiunge in Afghanistan il 52%, continuerà a devastare la vita e la salute delle bambine, senza alcuna sanzione.’ Lo stesso accade per la legge Evaw, (per l’eliminazione della violenza contro le donne) sottoscritta da Karzai nel 2009, e già poco applicata. Il Parlamento ha messo in discussione gran parte dei suoi articoli come antislamici e rischia di essere, a poco a poco, eliminata. Così, il ricorso alla legge si fa sempre più difficile e i casi di violenza potrebbero non essere più perseguibili.

L’impunità, sempre più diffusa, toglie qualsiasi freno alla barbarie. Come nel luglio scorso, quando i torturatori della piccola Sahar Gul, legati al potere politico, sono stati liberati, senza nemmeno avvertire le parti in causa.
Violenza domestica, stupro, traffico e prostituzione forzata, droga, insicurezza nelle strade, minacce per chi cerca di contrastarla, sono casi con cui ogni giorno, specialmente nelle province, si confrontano le operatrici di Hawca. A questo si aggiunge l’abbassamento progressivo delle quote di presenza femminile, nel Parlamento e nella pubblica amministrazione, dove è, ormai, al 9% e potrebbe scendere ancora. ‘Si tratta – spiega Selay- di una violenza di sistema, un progetto che sottrae e rende inefficaci le poche conquiste ottenute. Significa che le donne, passo dopo passo, devono essere rispedite dentro le case, private dei loro diritti.’

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Malalai Joya: “In Afghanistan governano i signori della guerra”

Redattore Sociale – Lorenzo Bagnoli – 13 dicembre 2013

malalai joya bonn 400MILANO – “Il mio Paese è solo una maschera di democrazia. Il 25 per cento del Parlamento è sì composto da donne, ma fanno tutte parte di partiti fondamentalisti o sono conniventi con i signori della guerra”.

Malalai Joya, ex parlamentare afghana, punta il dito contro il governo fantoccio che sta al potere a Kabul. Classe 1978, Joya dal 2003 viaggia in tutto il mondo per dare voce alle donne che ogni giorno vengono uccise in Afghanistan.

E per denunciare quelle che si allineano al potere.   Una condizione che la obbliga a vivere sotto scorta e a cambiare luogo di residenza di continuo. Ma Joya non vuole lasciare Kabul: “Già delle campagne della stampa di regime mi hanno descritto come un’attivista che abita all’estero e non conosce l’Afghanistan. Non è vero”. Non ha paura di mostrare i volti delle vittime, sia dei bombardamenti Nato che dei talebani.

Lo fa in una galleria fotografica che dà corpo alle sue parole. Malalai Joya è a Milano per denunciare quanto sta accadendo nel suo Paese. Ad invitarla è stato il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane (Cisda), gruppo pacifista e contro la discriminazione di genere nato per dare voce alle associazioni femministe in Afghanistan.
IL Cisda si è sempre schierato contro la guerra in Afghanistan e Malalai Joya ha dato il volto alle migliaia di donne che si sono opposte all’intervento militare.

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