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Autore: Anna Santarello

Afghanistan. Quanti soldati italiani rimarranno dopo il 2014?

Osservatorioiraq – 1.7.2013

Il 1° gennaio 2015, conclusa la missione Isaf, verrà dato il via al nuovo impegno della Nato in Afghanistan attraverso la “Resolute Support Mission”. Quale contributo darà l’Italia?

Sono circa 1.800 i militari italiani che rimarranno in Afghanistan a partire dal 2015: “Il numero preciso verrà stabilito nel corso di incontri tecnici con gli altri stati che partecipano alla missione”, ha spiegato oggi il ministro della Difesa Mauro. Del totale, almeno un terzo sarà costituito da unità di istruttori e addestratori di varia tipologia (componente terrestre e aerea).

È noto che la Nato, come concordato al vertice dei ministri della difesa dell’Alleanza atlantica il 4-5 giugno, concluderà l’attuale missione Isaf (International Security Assistance Force to Afghanistan) il 31 dicembre del 2014, ma rimarrà in Afghanistan ben oltre quella data.

La missione muta denominazione, entità, responsabilità e mandato. Ma non variano i principi regolatori di una presenza a lungo termine da tempo annunciata. Nella realtà si tratta di un cambio sostanziale dell’impegno militare e politico, in particolare per quei paesi che hanno dato la propria disponibilità ad assumersi oneri impegnativi.

Così sarà per gli Stati Uniti, nazione leader nelle operazioni militari e politiche condotte in Afghanistan, che assumerà la responsabilità dei futuri comandi militari delle regioni est e sud del paese; lo stesso sarà per la Germania, che ha confermato il proprio ruolo di comando nella regione nord, così come appare probabile l’impegno della Turchia nella capitale Kabul; e, infine, garantito il ruolo di comando di primo piano dell’Italia nell’area ovest.

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Sugli F35 decide il Parlamento

Sbilanciamoci – 4/07/2013 di Giulio Marcon

F35Con l’avallo del Presidente Napolitano, il Consiglio Supremo di Difesa – esaltato, sembra, dalle gesta dei militari in Egitto – ha detto al Parlamento: sui sistemi d’arma, ed in particolare sugli F35, non provate a mettere bocca. Cacciabombardieri, portaerei, carri armati: è tutta roba nostra, dicono i militari. Il Parlamento se ne stia tranquillo e non prenda decisioni (cioè non ponga “veti”), anche se fa quello che normalmente un Parlamento mette in opera per le sue ordinarie funzioni: approva leggi e vota atti di indirizzo politico (mozioni e risoluzioni) e ispettivo (interrogazioni e risoluzioni).

La settimana scorsa la Camera dei deputati ha votato due mozioni sugli F35. La prima (promossa da deputati Sel, M5S e alcuni del Pd e Scelta Civica) chiedeva lo stop definitivo agli F35 ed è stata bocciata. La seconda, della maggioranza di governo e approvata, ha di fatto rinviato la decisione e ha comunque bloccato nuove acquisizioni di cacciabombardieri, in attesa di una nuova decisione parlamentare.

Il fatto che il Parlamento se ne sia occupato e che sia stata approvata una timidissima mozione che comunque sospende temporaneamente gli acquisti degli F35 ha fatto infuriare i militari. Si tratta di una posizione inaccettabile, soprattutto in una democrazia che non accetta di stare sotto tutela. Non siamo né in Egitto, nè in Turchia. In una democrazia matura i militari non sono al di sopra degli altri poteri e della legge e sicuramente sono soggetti al potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Come tutti.

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Discutibili nomine alla Commissione Diritti Umani in Afghanistan

RFE / RL – 3 luglio 2013 By FRUD Bezhan

AIHRC1Quando il presidente afghano Hamid Karzai ha nominato i nuovi membri del principale osservatorio sui diritti umani del paese, il mese scorso, doveva essere il termine di un lungo periodo di limbo a seguito della perdita di cinque dei suoi membri. Invece, le nomine del Presidente hanno scatenato un putiferio sia in Afghanistan che all’estero.

Il Presidente avrebbe dovuto consultare i leader della società civile e selezionare commissari in base alla loro imparzialità politica ed esperienza nel campo della difesa dei diritti umani. Invece, Karzai ha eluso il pubblico e ha nominato alla Commissione Afghanistan Independent Human Rights (AIHRC) un ex funzionario talebano, un generale in pensione della polizia, e un ex parlamentare legata ad un partito politico fondamentalista.

La mossa è solo l’ultima di una serie di sviluppi in Afghanistan che hanno minacciato di annullare i progressi in materia di diritti umani. Attivisti afghani e occidentali temono che il dissolversi del controllo internazionale e il loro previsto ritiro dall’Afghanistan, i diritti verranno minacciati da potenti circoli conservatori e religiosi del paese.
Le nomine fatte da Karzai sono state un argomento di primo piano all’incontro dei funzionari afghani con i donatori internazionali del 3 luglio per valutare l’impegno di Kabul verso gli obiettivi concordati sulla difesa dei diritti umani, lotta alla corruzione e promozione del buon governo, nell’ambito dell’accordo quadro di Tokyo (Tokyo Mutual Accountability Framework). Almeno 16 miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo dipendono dalla capacità di Kabul di soddisfare questi standard.

Ci si aspetta che i donatori stranieri concludano che Kabul non ha rispettato gran parte dei suoi impegni.
L’accordo obbligava Kabul a sostenere l’efficacia e l’indipendenza della AIHRC, un organismo finanziato a livello internazionale che è stato fondamentale per gli sforzi dell’Occidente per promuovere i diritti umani e di indagare sulle violazioni in Afghanistan.

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ONU: l’Afghanistan è il primo produttore mondiale di oppio

VOA – June 30, 2013

NEWS 82184 copySecondo l’agenzia delle Nazioni Unite, solo il dieci per cento dei consumatori di droga afgana ha ricevuto alcuna forma di trattamento della droga nel 2012, l’anno considerato nel World Drug Report
di Sharon Behn

Afghanistan, ancora una volta è stato il più grande produttore mondiale di oppio nel 2012, sfornando il 74 per cento del mondo di oppio illegale. Secondo le Nazioni Unite, il consumo di droga ha finanziato l’insurrezione armata e minaccia di minare ulteriormente la fragile economia e la sicurezza del paese.

Non solo l’Afghanistan è ancora una volta il più grande produttore di oppio illegale al mondo. Jean-Luc Lemahieu, il rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine dice che ha anche più di un milione di consumatori di droga: “L’Afghanistan è diventato un paese di consumo e con uno dei più alti livelli di dipendenza a livello globale”.

Lemahieu afferma che la facile disponibilità di oppiacei, la corruzione e una popolazione ormai alla terza decade di guerra ha portato ad una maggiore distribuzione e uso di droghe illegali per cercare di sfuggire alle difficoltà della vita quotidiana.

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite, solo il dieci per cento dei consumatori di droga afgana ha ricevuto alcuna forma di trattamento dalla droga nel 2012, l’anno analizzato nel repot World Drug.

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Doha, i colloqui Usa-Taliban disertati da Karzai

di Enrico Campofreda, 20 giugno 2013 –  Contropiano

dfb96c7294f8c08902021fb8b7546af1 L copyLa sdegnosa alzata di spalle di mister Karzai al cospetto del padrino americano e l’annuncio del suo forfeit al battesimo ufficiale dei colloqui coi talebani a Doha è solo l’ultimo atto d’una querelle identitaria operata dal presidente afghano.
Un presidente-fantoccio creato da Bush jr e consolidato da Obama quale modello d’un Afghanistan democratico che giustificava l’occupazione delle truppe Nato a guida statunitense.

Truppe detestate dalla popolazione, anche la meno politicizzata, per la morte che seminano da oltre un decennio. Morte diretta, tramite bombardamenti che cacciano talebani ma colpiscono un gran numero di civili, e quella indiretta che offre impunità ai killer delle province: i Signori della guerra finiti nel governo Karzai. I talebani sono da tempo interlocutori oltre che nemici dell’Occidente, dal dicembre 2010 lo sono per il Dipartimento di Stato statunitense e per Karzai che ora fa i capricci.

Da Holbrooke che voleva i contatti, a Petraeus che li glissava, a Romney totalmente contrario, al pragmatico Bergman che afferma di non aspettarsi nulla a breve termine, tutta la politica americana sa che nella palude afghana non ci si può risollevare né col successo né con l’onore. Per andarsene con gran parte dei soldati e mercenari di terra e restare con reparti scelti, più i manovratori di droni bisogna accordarsi coi Taliban.

Lo sa anche Karzai a cui viene chiesto di stare al gioco, inglobando i turbanti nel governo (se loro vorranno) e comunque steccando con loro i proventi degli appalti che aziende globalizzate, per ora soprattutto cinesi, iraniane, pakistane e ovviamente statunitensi, ricevono grazie ai buoni servigi del Capo di Stato e al voto della Loya Jirga.

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Afghanistan. Assalti talebani per accordi sempre più stretti.

di Enrico Campofreda, 14 giugno 2013 – Contropiano

664e7f89932dae261d19fd63c5fdf1f7 LLa guerriglia talebana non lascia agli occupanti Nato un attimo di respiro. Ma il ritiro delle truppe nel 2014 sarà l’ennesimo bluff con cui si mascherano accordi coi potentati locali in cambio di una presenza strategica duratura.

Sia che assaltino militari Isaf con un ordigno scagliato da un ragazzino, che li colpiscano vestiti da soldati afghani nelle cui file s’infiltrano, o attacchino Kabul in grande stile – all’aeroporto e nella “città proibita” delle ambasciate – com’è accaduto nella due giorni di fuoco a opera di comandi probabilmente diversi, l’ennesima campagna di tarda primavera della guerriglia talebana non lascia agli occupanti Nato un attimo di respiro.

Purtroppo la popolazione è spesso vittima ignara di quel che accade sulla propria pelle. E se governi occidentali dalle decisioni ingessate, come l’attuale di Palazzo Chigi, si trastullano con l’ipotesi di un disimpegno dei contingenti nel 2014, il vero, grande, sbandierato ritiro a stellestrisce sarà l’ennesimo bluff con cui si mascherano accordi coi potentati locali in cambio di una presenza strategica duratura. E’ quanto si prevede per il futuro e l’accelerazione militare taliban serve da propaganda per alzare ulteriormente la posta sulla propria integrazione nell’Afghanistan di domani.

Trattative
Non è un segreto come da oltre due anni il Dipartimento di Stato tramite agenti della Cia, discuta con varie componenti talebane – mullah Omar, Rete di Haqqani – sul futuro del Paese. I colloqui furono avviati non ad Abbottabad o nelle aree tribali di amministrazione federale del confine afghano-pakistano, ma in un residence bavarese. Un pezzo grosso della diplomazia statunitense come Holbrooke fece appena in tempo a sapere l’andamento degli iniziali incontri prima della fatale rottura dell’aorta che gli tranciò la vita.

Dalla fine del 2010 ne sono accadute di cose ma il progetto prosegue. Prevede la spartizione delle 34 province afghane fra vari Signori della guerra – e degli affari illegali e legali – con gli stessi talebani coinvolti nel business. Un esempio è la famiglia degli Haqqani che controlla il racket delle estorsioni e protezioni di aziende impegnate sul territorio, cresciute nonostante la guerra.
Oltre al presidente Karzai, che in questi tre anni ha tenuto la porta aperta ai taliban (in verità più agli uomini del mullah Omar che all’imprevedibile Jalaluddin Haqqani e ai dissidenti della Shura di Quetta), il maggior tramite fra le parti è il fondamentalista Hekmatyar, vecchissima conoscenza della guerra civile afghana sempre sulla breccia.

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La morte del futuro. La piaga della droga devasta l’Afghanistan, e tocca anche i bambini

IL SOLE 24 ORE – 16.6.2013 – Articolo di Cristiana Cella

reportage afghanistan 258Lo scheletro del palazzo reale distrutto di Darul Aman, di notte, si trasforma in un girone dell’inferno. È qui che si raduna gran parte dei tossicodipendenti di Kabul, ormai più di 60.000. Ruderi e quartieri degradati, per ospitarli, non mancano in città.
Di giorno, occupano le strisce di prato che dividono le poche strade asfaltate o si rifugiano sotto i ponti. Oggi, in Afghanistan, i tossicodipendenti sono più di un milione, c’è chi parla di un milione e mezzo, un terzo, sono donne e bambini.

Un dato in aumento costante, che porterà l’Afghanistan ad avere il più alto consumo mondiale di droga pro capite. E l’Aids, lo ‘tsunami silenzioso’, miete sempre più vittime. Un mondo perduto che ha scarsissime possibilità di riscatto.

In un paese economicamente e socialmente devastato, nell’insicurezza e nella disoccupazione crescente, la droga ha gioco facile. I prezzi sono popolari, meno di 5 euro al grammo. Sempre troppi per chi non ha reddito o guadagna mezzo dollaro al giorno. Significa trascinare la famiglia nella miseria. La tossicodipendenza degli uomini devasta ulteriormente la vita, già drammatica, delle donne, esasperando la violenza domestica.

“Ho sposato mio cugino a 12 anni – racconta Maleya, di Kabul, ospite della ‘casa protetta’ della Ong Hawca -. Ho visto subito che qualcosa non andava, non lavorava, si iniettava droga, era arrabbiato, violento. Quando ho cominciato a lavorare di nascosto, per far sopravvivere le mie figlie, mi portava via i soldi a suon di botte. Adesso, per pagarsi le dosi, vuole farmi prostituire. È a questo punto che sono scappata.”

Il dramma dei tossicodipendenti a Kabul

Ma anche le donne, sempre di più, fanno uso di oppio ed eroina. “Fumano tra le mura domestiche, – dice Storay Darinoor, coordinatrice del Centro di recupero per donne Sanga Amaj, che ha curato finora, più di mille donne – per sopportare le difficoltà della vita e le malattie che non possono curare, ma sono anche costrette a farlo dai mariti.

È difficile, per loro, venire al Centro, è una vergogna grave, sono stigmatizzate più degli uomini”. Così, spesso, le dottoresse vanno a curarle, nei villaggi, intervenendo su tutta la comunità, bambini compresi. I figli respirano il fumo dei genitori, negli ambienti ristretti in cui vivono, sono mandati in cerca di dosi, oppure la assumono direttamente.

Alcuni hanno sintomi di dipendenza già prima dei due anni. “Un tempo- dice Tariq Suliman, direttore del Nejat Center, centro di recupero per uomini, aperto nel 2009 nel quartiere ad alta tossicodipendenza di Kart-e-Char, – c’era un moderato uso tradizionale di oppio e l’eroina era sconosciuta. Oggi si produce direttamente qui, nelle fabbriche lungo il confine iraniano e pakistano, e si trova facilmente. Dal 2003, più di 50.000 profughi, rientrati tossicodipendenti da Iran e Pakistan, hanno diffuso nuovi metodi, siringhe e crack. Il degrado delle condizioni di vita ha fatto il resto”.

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In Afghanistan c’è la guerra e in guerra si muore

GIULIANA SGRENA, 9 giugno 2013 – Globalist.it

timthumbUna replica ad Adriano Sofri che invita a non dividerci dopo la morte del soldato. [Giuliana Sgrena]

Non ci si può dividere di fronte a chi muore in Afghanistan scrive oggi su la Repubblica Adriano Sofri ricordando Giuseppe La Rosa, l’ultima vittima italiana della guerra afghana. Sono pacifista e convinta sostenitrice della non violenza, dunque non potrei mai banalizzare la morte, chiunque sia la vittima.

Ma dobbiamo sapere che in guerra si muore e gli italiani che vanno in Afghanistan partecipano a una guerra, alcuni forse persino inconsapevolmente, vista la retorica sulla “missione di pace”. Una missione di pace non si fa con i cacciabombardieri.

“Così si muore nella terra dell’odio” recita il titolo dell’articolo di Sofri, ma chi ha alimentato l’odio in Afghanistan? L’odio aveva già profonde radici, quelle che avevano portato ai massacri tra le varie componenti dei mujahidin afghani che insieme, finanziati dall’occidente, avevano costretto i sovietici a ritirarsi. Un odio feroce che ha avuto come conseguenza la distruzione di Kabul.

Per porvi rimedio gli americani avevano sponsorizzato i taleban di mullah Omar diventato poi un nemico da abbattere per liberare il paese e, si disse pretestuosamente, “liberare le donne dal burqa”.

Sono passati quasi dodici anni dall’inizio dell’intervento occidentale la violenza contro le donne non è diminuita e l’odio non è placato, anzi. Ma su un punto tutti sono d’accordo: l’occupazione deve finire.

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Vite Preziose dell’Afghanistan: le donne salvate da l’Unità.

Di Cristiana Cella – 11 giugno 2013 – L’Unità

3003797428Samira ha 24 anni, da due lavora per Hawca, dopo l’Università e il praticantato. Sadaf ne ha solo 21. Belle, minute e straordinariamente determinate, sono loro le avvocate che difendono le donne del progetto Vite Preziose, sostenuto grazie anche al contributo delle lettrici e dei lettori de l’Unità.

Le incontro negli uffici dello shelter, la casa protetta. «Sono molto felice di poter aiutare le donne del mio Paese ma è un lavoro difficile e rischioso. Dobbiamo resistere a molte pressioni», dice Samira.

Uscire ogni mattina per andare a lavorare è una scommessa, anche contro la morte. Le sfide che devono affrontare sono quotidiane come le minacce, in ogni momento del loro lavoro, che coinvolgono spesso anche le loro famiglie.

Arrivano soprattutto dai mariti delle assistite e dai loro parenti. Pretendono che Hawca (la onlus a a cui fa capo Vite Preziose per il sostegno delle donne afghane) abbandoni la causa e restituisca il mal tolto, ossia la moglie, che hanno massacrato.

A volte si tratta di veri e propri commander, uomini che hanno potere e armi. «Capita spesso – continua- di scappare dal tribunale e girare per ore, in macchina, per seminarli». I tribunali stessi sono luoghi ad alto rischio. Non esiste nessun posto sicuro, nemmeno una stanza, in cui l’avvocata e la sua cliente possano aspettare il loro turno.

C’è molta confusione, un via vai di gente, tra i quali si possono confondere gli aggressori. Una volta, per sfuggirli, racconta Sadaf, si sono nascoste nella cucina del tribunale. Per chi difende i diritti delle donne in Afghanistan non c’è protezione. «Il problema della nostra sicurezza- dice Selay Ghaffar, direttrice di Hawca- come attivisti dei diritti umani, è molto grosso. Ne discutiamo spesso con le altre organizzazioni afghane e internazionali, abbiamo chiesto almeno una protezione temporanea, nei momenti critici, ma Governo e Istituzioni non vogliono prendersi nessuna responsabilità».
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Guardie del corpo non se le possono permettere, è già difficile pagare quelle che difendono lo shelter. Della polizia non possono fidarsi. Il più delle volte, i poliziotti sono legati ai signori della guerra, anche ai talebani, sono coinvolti in rapimenti e stupri. Le donne che si rivolgono a loro, denunciando violenze, sono spesso vittime di ulteriori abusi, vengono riportate dai loro aguzzini o finiscono in carcere, pratica in allarmante aumento negli ultimi 18 mesi.

IL PROGETTO DI HAWCA
Hawca sta portando avanti un progetto di training per la polizia sui diritti delle donne. Ma ci vorrà tempo per avere dei risultati. Difficile quindi che possano proteggere le avvocate. Un mestiere e un ruolo poco o per nulla rispettato nel paese, soprattutto se praticato da donne. Difficile anche farsi ascoltare in tribunale. Non resta che proteggersi da sole, inventando strategie per ridurre i rischi, come abbassare la tensione negli scontri con le famiglie delle vittime.

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I RAGAZZI CHE VIVONO NELLA GUERRA, SCHIAVI DELLA VIOLENZA CHE DOMINA IL PAESE

di Cristiana Cella – 9 giugno – L’Unità

I bambini afghani vivono in gran parte per strada. Non per giocare ma per guadagnarsi da vivere. Ognuno a suo modo. A Kabul sono ovunque. Vanno a caccia di qualcosa da vendere, per procurarsi qualche afghano. Con grossi sacchi di plastica, raccolgono quello che trovano nelle discariche a cielo aperto, con le gambe immerse nel fango del fiume Kabul, che attraversa la città, radunano gli infiniti sacchetti di plastica che fermano lo scorrere dell’acqua, circondano le macchine, approfittando dei quotidiani ingorghi del traffico, agitando un fornelletto dove bruciano un’erba contro il malocchio.

Chiedono monete, con lo sguardo duro, adulto. Fuori città pascolano le bestie, vanno in cerca di metalli da rivendere. Soprattutto vicino alle basi americane, lì non manca. E saltano sulle mine e sugli ordigni inesplosi. Ne ho visti molti negli ospedali, la più piccola aveva due anni. Altri sono venduti per il commercio sessuale dei vari comandanti locali. Sono assoldati da talebani e altri gruppi armati per combattere.  Vivono nella guerra, come tutta la popolazione.

Oggi, uno di questi ragazzini ha avvicinato un Lince e ci ha buttato dentro una granata, uccidendo un ragazzo italiano. Una notizia shoccante, orribile. Bambini che diventano armi da guerra. Oltre la condanna di qualsiasi violenza, cercare di capire cosa sta intorno a questi episodi, senza semplificare, significa ascoltare, soprattutto le persone che vivono in questo paese devastato, oppresse da una violenza onnipresente. La quotidianità degli afghani, alla vigilia del ritiro delle truppe, è la totale insicurezza.

I fronti di conflitto sono molti e complessi. Nelle province, dominate dai signori della guerra, non c’è legge, oltre a quella della forza. Persone che siedono nel Parlamento di un Governo, sostenuto dalle truppe occidentali, abusano in ogni modo della loro popolazione, con la forza delle armi, delle prigioni private, della totale impunità.  Si arricchiscono con la corruzione, con gli aiuti stranieri e il traffico di droga. Un dominio totale e feudale che schiaccia la popolazione. Difficile reagire. Le manifestazioni di dissenso sono sempre represse con estrema durezza. La paura fa parte della vita quotidiana. Bisogna arrangiarsi, convivere con la violenza. Milizie e contractors, al soldo di chiunque li possa pagare, pullulano, allarmando anche l’Onu. Dove comandano i talebani, la gente vive stretta tra due fuochi.

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