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Autore: Anna Santarello

Violenza sulle donne afghane, la legge e la beffa

Contropiano – 10 marzo 2013 – Da Kabul Enrico Campofreda

2d9d905a6003249affe3ad93d2f18dad 720x300La norma venne  votata nel 2009 e teoricamente appare  perfetta. Nei vari articoli prevede condanne per: gli assalti sessuali (art.17), l’induzione alla prostituzione (art.18), le ustioni prodotte con sostanze chimiche (art. 20), le automutilazioni e la spinta al suicidio (art. 21), le disabilità provocate (art. 22), le percosse (art. 23), per non parlare della negazione di accesso all’educazione (art. 35) che risulta diffusissima.

Di fatto la legge rimane come un bel soprammobile riposto in una sorta di credenza giuridica nazionale. Un mobile polveroso e abbandonato alle consuetudini. Infatti purtroppo le donne continuano a morire, a subire i soprusi delle pratiche tribali e del pasthunwali  anche quando, fuggendo da mariti o da uomini che attentano alla loro vita, trovano riparo nei pochi shelter messi a disposizione delle associazioni che si battono per i diritti al femminile.

Lo denuncia Selay Ghaffar, direttrice dell’Humanitarian Assistance Women and Children of Afghanistan, con la forza di un’appassionata battaglia condotta da anni all’interno del suo Paese e nei rapporti con la comunità internazionale che tali diritti dovrebbe sostenere.
La Ghaffar dichiara “Si tratta di una legge di sola facciata che vede proprio i rappresentanti delle istituzioni, i ministeri di Giustizia e Affari sociali e direttamente il premier ben lontani da qualsivoglia intento di reale applicazione che ovviamente dovrebbe offrire consequenzialita’ a possibili denunce con indagini della magistratura e azioni repressive rivolte ai responsabili dei crimini commessi, misure che sono assolutamente assenti. Pesanti intimidazioni vengono lanciate alle associazioni impegnate nella gestione dei luoghi di rifugio per donne che fuggono dalle violenze domestiche.

Due anni or sono molte di queste case sono state minacciate di chiusura perché accusate di promuovere la prostituzione. Avete capito bene: alcuni potentati degli affari e della guerra provavano a intralciare l’importante impegno di recupero umano e sociale di ragazze e madri abusate con l’accusa più infamante”.

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Donne afghane e l’assenza di giustizia

Laspro numero 22 – Patrizia Fiocchetti

globalist dicembre 2012 150x150Tufeh è poco più di una bambina. Ha tra i 12 e i 14 anni, il sistema anagrafico non ha uffici nei villaggi rurali afgani e si può solo ragionare per approssimazione, guardandola seduta sul duro pavimento di una cella di Farah, una delle province più povere del paese.

Ha lo sguardo fermo, nessuna luce illumina i grandi occhi castani, da tempo Tufeh è uscita dal mondo magico dell’infanzia. “La mia famiglia mi ha dato in sposa ad un uomo molto più vecchio di me. – nella voce non ci sono inflessioni che tradiscano il suo stato d’animo – Era un drogato, cattivo. Mi picchiava, tutti i giorni senza un motivo.
Mi prendeva con la violenza, e io non potevo difendermi. Nessuno voleva difendermi”. Fa una pausa. Solo i pugni stretti all’altezza del grembo, abbandonati sul ch’adori bianco a fiori che le ricopre l’acerbo corpo, mostrano una rabbia sorda e nascosta nel profondo della sua anima.

“Non ne potevo più. E allora una mattina, mentre dormiva senza coscienza sul letto l’ho ucciso”. Poche frasi, quasi uno schizzo che riassume in pochi tratti la sua breve e dura esistenza. Era cosciente Tufeh di quali sarebbero state le conseguenze del suo gesto? Sapeva che sarebbe diventata di fronte alla legge, ma anche per la comunità di appartenenza un’assassina? Forse, oppure no.

Ma non è questo il punto, almeno non per una donna afgana.  “Dovremmo sempre ricordare che quando una donna in Afghanistan è oggetto di un crimine, perché la violenza contro le donne è innanzitutto un crimine, molto difficilmente avrà giustizia” – Selay Ghaffar fondatrice e presidente di Hawca, l’associazione che gestisce rifugi per donne maltrattate a Kabul e in altre province del paese, sembra posseduta da un fuoco sacro. “I criminali, stupratori, assassini e violenti girano liberi, protetti da persone potenti o comunque non perseguiti poiché qualsiasi crimine contro una donna può essere in qualche modo giustificato. Dopo 11 anni di occupazione straniera, i rapporti che vengono redatti dalla maggiori agenzie internazionali, descrivono condizioni aberranti per la sicurezza della donna e peggiorate per quanto al rispetto dei loro più elementari diritti. Come quello alla vita”.

Per noi donne occidentali è un’affermazione pesante, praticamente inconcepibile. Ma che risponde alla realtà.  Quando nel campo profughi degli Helmandi, situato poco lontano dal caotico centro di Kabul, incontriamo le famiglie fuggite dai bombardamenti a stelle e strisce e dai combattimenti tra truppe anglo-americane e talebani che ormai da un decennio affliggono le province meridionali dell’Afghanistan come Helmand, appunto e la tristemente famosa Kahdahar, tocchiamo con mano la dura legge che governa l’esistenza di molte donne di questo paese. Invisibili nei loro ch’adori, chiuse in fatiscenti costruzioni di fango e lamiera, nascoste allo sguardo maschile ma anche impedite al confronto con noi, donne europee, i membri femminili di questi nuclei famigliari contano nella misura in cui l’uomo della famiglia, padre, fratello o marito determina.

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Afghanistan: dove regna il caos e il bottino è il privilegio

OsservatorioIraq, 8 marzo 2013

La corruzione e le divisioni etniche e tribali impediscono all’Afghanistan di costruirsi un futuro democratico e di pace. Lo studioso Zaman Stanizai spiega perché, ormai, nessuna delle parti può essere lasciata fuori dal processo politico in corso.

di Zaman Stanizai* – traduzione a cura di Anna Toro

Nel governare la società afghana, le tattiche “nuove e implementate” del “divide et impera” sono operative sia a livello verticale che orizzontale, e la corruzione sistemica ne risulta incentivata.
Non è un segreto che numerosi alti funzionari governativi afghani, dalle alte sfere fino ai capi dei dipartimenti, figurino sul libro paga della CIA, ricevendo “stipendi” supplementari e “spese di ospitalità” per un ammontare che supera i 5.000 dollari.
In quanto destinatari di tali fondi, questi funzionari possono anche raccomandare soci, amici e famigliari. Gli obiettivi non dichiarati di tutto questo sono: acquistare la loro fedeltà (corrompendoli), renderli dipendenti dalla presenza americana e indebolire la loro base popolare.
In questo modo, infatti, diventano socialmente isolati e oggetto di pubblico risentimento e odio.
Una volta identificati dalla società come “venduti” ai padroni stranieri, non possono riconquistare la fiducia del popolo – una caratteristica che viene rafforzata dal loro stile di vita sontuoso, in mezzo alla miseria prevalente nel paese.
Questa mancanza di affidabilità e responsabilità si riversa nei ranghi inferiori dei funzionari del governo, che creano continui ingorghi burocratici in modo da poter chiedere tangenti e potersi arricchire anche loro.

Ma come abbiamo visto, la corruzione sistemica pervade anche gli strati orizzontali della società afghana.
La disparità economica sempre più evidente tra i destinatari dei dollari dei donatori alle dipendenze delle agenzie straniere e i dipendenti pubblici salariati, diffonde l’epidemia della criminalità sistemica fino alle zone rurali, dove la polizia collabora con bande criminali nei rapimenti dei “nuovi ricchi” a scopo di estorsione, dando convenientemente la colpa ai talebani.
Non ci può essere pace fino a quando non ci sarà una vera democrazia.
La prevalenza di questo modus operandi è tipica dei dipendenti pubblici e dei politici di tutti i colori che, in collaborazione con i loro padroni stranieri e le Ong, riciclano il denaro scremato dai progetti umanitari stranieri.

Le recenti rivelazioni dei media su transazioni bancarie da parte di alcuni funzionari del governo afghano attestano il fatto che i 16 miliardi dollari promessi alla conferenza di Tokyo dei paesi donatori, svoltasi nel mese di luglio, rischiano di fare la fine dei 17 miliardi dollari già nascosti in Svizzera e nelle banche di Dubai.
(…) La meritocrazia si arrende a un nepotismo sistematico in cui la maggior parte delle nomine pubbliche si basano sulle “quote tribali” e sulle raccomandazioni di chi sta più in alto. Questo sistema viziato di esclusione deliberata è stato venduto dall’Alleanza del Nord come democrazia e come “costruzione della nazione”, e l’esca è stata inghiottita tutta intera, con tanto di lenza, amo e piombo.
L’Alleanza del Nord non vede la democrazia come la regola della maggioranza, con la garanzia implicita dei diritti delle minoranze, ma come il monopolio del governo delle minoranze, con l’esclusione della denigrata maggioranza.

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Il difficile 8 marzo delle donne afghane.

Famiglia Cristiana – 7 marzo 2013 di Romina Gobbo

La denuncia di Saman Basir, leader del partito democratico Hambastagi: «La situazione femminile è peggiorata»

Le donne afghane non si fermano davanti a nulla, neppure davanti alle minacce e all’ostruzionismo del governo. Il ramo femminile del partito democratico Hambastagi, che ha organizzato a Kabul un grande evento per l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, si aspetta almeno 1.200 persone. Arriveranno da tutto il Paese, con una grande maggioranza di donne, e si ritroveranno, a partire dalle 14, all’interno di un edificio, di cui per motivi di sicurezza ancora non si sa l’ubicazione. Si alterneranno momenti musicali, poesie, spettacoli teatrali e interventi contro l’occupazione americana e contro i governanti locali.

Parteciperà anche una delegazione del Cisda, il Coordinamento italiano per il sostegno alle donne afghane, e dell’associazione di volontariato bellunese “Insieme si può”, che si occupa di sensibilizzare sul problema dei diritti violati.

«La sicurezza è molto peggiorata», spiega Carla Dazzi, fotografa, volontaria di “Insieme si può”, a Kabul per esporre una sua personale fotografica. «Neppure a noi hanno comunicato il luogo dell’evento dell’8 marzo; ci verranno a prendere e ci accompagneranno sul posto. Nei prossimi giorni, poi, cercheremo di mantenere un profilo basso decidendo come muoverci di giorno in giorno».

«I mass media occidentali», afferma Saman Basir, leader del ramo femminile di Hambastagi, «rappresentano la situazione delle donne in Afghanistan come nettamente migliorata grazie all’intervento di Usa e Nato, perché la questione femminile, unita a quella dell’esportazione della democrazia, sono servite in questi 11 anni a giustificare l’occupazione. Invece, le donne afghane sono diventate le principali vittime dei signori della guerra. Permane il delitto d’onore, così spesso succede che ragazze rapite e stuprate siano poi uccise dalla famiglia, perché la violenza subita ne infangherebbe il buon nome. Quando non siano le stesse ragazze violate a mettere fine alla propria vita in silenzio, incapaci di sopportare la vergogna (nel 2011 sono stati registrati 2.300 casi di auto-immolazione e suicidio).

Un’altra dolorosa realtà del nostro Paese sono le minorenni date in mogli per risolvere controversie o per pagare debiti familiari. Le donne afghane si sentono impotenti e senza speranza, perché non possono contare né sulla polizia, né sulla magistratura. Le leggi attuali rispecchiano la mentalità misogina delle istituzioni tanto quanto quelle dell’epoca talebana. Spesso accade che le donne che trovano il coraggio di denunciare una violenza vengano esse stesse incolpate. Le carceri sono piene di detenute la cui “colpa” è essere scappate di casa, per sottrarsi da Dal 2009 esiste una legge che criminalizza i matrimoni forzati, lo stupro e altri atti di violenza contro le donne, ma viene applicata sporadicamente».

Ci sono progressi per quanto attiene all’istruzione?
«Dall’invasione del 2011, sanità e istruzione in Afghanistan sono notevolmente peggiorate. Le donne che vivono nelle zone rurali solo raramente possono usufruire delle strutture sanitarie, ma anche quelle che potrebbero accedervi, non hanno poi il denaro necessario a pagarsi le cure. Solo il 5% delle ragazze riesce ad arrivare alla quinta elementare, dopo, c’è il matrimonio. Quelle che vogliono studiare o lavorare incontrano molti ostacoli e sono obbligate a uscire di casa con il capo coperto. Insegnanti e presidi sono stati minacciati e uccisi e molti edifici scolastici sono stati incendiati. Punizioni come la lapidazione, la fustigazione, l’amputazione di parti del corpo e l’impiccagione pubblica sono applicate normalmente, nel rispetto della legge islamica».

Qual è l’obiettivo di Hambastagi?
«Chiediamo il ritiro immediato di tutte le truppe straniere. Né gli Stati Uniti, né la Nato, né gruppi fondamentalisti reazionari come Northern Alliance e i talebani, né tantomeno Gulbuddin Hekmatyar (il leader del partito Hezb-e-Islami, che in una recente intervista ha ribadito il proprio odio nei confronti della democrazia, ndr) possono portare pace, libertà, giustizia, democrazia e diritti per le donne. Solo la popolazione afghana può liberare l’Afghanistan, se si unisce sotto la bandiera di un partito progressista e indipendente, e noi lavoriamo per questo.
Vogliamo che tutti gli elementi progressisti e democratici del mondo facciano pressione sui propri governi affinché l’Afghanistan sia lasciato libero. Questi governi stanno sprecando i soldi dei loro contribuenti e il sangue di una gioventù innocente per una guerra che non porta beneficio a nessuno. Se le truppe straniere se ne andranno, il nostro popolo non dovrà più fronteggiate gli arsenali più sofisticati al mondo, ma solo un pugno di criminali e traditori afghani. Ciò renderà più facile la nostra lotta per la libertà».

Ma l’America ha annunciato il ritiro delle sue truppe nel 2014.
«Gli Usa hanno instaurato un regime fantoccio e vi hanno inserito i vecchi criminali di guerra, li hanno finanziato per i propri interessi, dando loro e togliendo il potere a seconda della convenienza, senza considerare le conseguenze disastrose di questi uomini sulla popolazione, ormai ridotta in miseria. Gli Usa stanno mentendo; non se ne andranno mai dal nostro Paese; la storia ha dimostrato che dove hanno messo piede, non hanno mai mollato…».

La presenza di donne provenienti da tutto il Paese alla vostra manifestazione ne dimostra la voglia di riscatto.
«Le donne afghane non sono passive come spesso i media le rappresentano. Solo che non c’è la volontà di politica di aiutarle a emanciparsi. Perciò, devono cavarsela da sole».
Lo stesso giorno l’Ambasciata italiana ha organizzato, alle 17, nei propri locali, una tavola rotonda sulla situazione delle donne afghane. Sempre nella residenza dell’ambasciatore, verrà esposta la mostra di Carla Dazzi, “Afghanistan… per dove…”, che da 13 anni si spende a favore delle donne afghane. Le sue opere fotografiche ripercorrono i numerosi viaggi umanitari nel Paese degli aquiloni. «La mia mostra», dice, «vuole rendere omaggio alla società civile afghana, che continua a non avere voce nel nostro mondo».
Infine, il 9 marzo, negli uffici della Cooperazione italiana, ci sarà la presentazione delle attività delle varie Ong, locali e internazionali, che si occupano della condizione delle donne afghane.

In Afghanistan i droni uccidono sempre più civili

AGORAVox Italia – 7 marzo 2013 – di Antonio Mazzeo

arton45972 71f3dNel 2012 le forze armate Usa e la Cia hanno accresciuto notevolmente il numero di attacchi in Afghanistan mediante l’utilizzo di aerei senza pilota, uccidendo molti più civili dell’anno prima. Secondo quanto rilevato dalla Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), lo scorso annohsono stati lanciati con i droni 506 bombardamenti, il 72% in più di quanto verificatosi nel 2011 quando gli attacchi furono 294.
L’escalation è stata confermata dal Comando centrale dell’U.S. Air Force che ha specificato come nel 2012 i droni sono stati utilizzati nel 12% degli attacchi aerei, mentre l’anno precedente ciò era avvenuto solo nel 5% dei casi.

Nell’ultimo rapporto annuale sui morti civili nel conflitto afghano, le Nazioni Unite hanno accertato perlomeno cinque incidenti in cui è stata coinvolta la popolazione civile con il tragico bilancio di 16 morti e 3 feriti. In buona parte dei casi, la popolazione civile è stata colpita dai droni “per errore” durante gli attacchi lanciati contro le milizie insorgenti.

Il rapporto delle Nazioni Unite segnala in particolare tre gravi “incidenti”. Il primo è accaduto a fine luglio scorso nella provincia orientale di Nuristan, quando un insegnante afghano a bordo di un SUV, fu colpito a morte da un drone subito dopo essere stato fermato ad posto di blocco dai Talebani. Nell’attacco rimasero uccisi anche tre miliziani mentre furono feriti gli altri due passeggeri del SUV, uno dei quali minorenne.

Il 22 ottobre 2012, nella provincia di Logar, morirono invece quattro ragazzi per le esplosioni delle bombe di un Predator Usa teleguidato verso un’area a un paio di miglia di distanza dove era in corso uno scontro a fuoco tra i reparti governativi afghani e i Talebani. Infine, il 23 settembre, nella provincia di Kunar, l’attacco “selettivo” di un drone contro due comandanti talebani ha causato pure la morte del sedicenne Bacha Zarina. Provata dalle autorità locali l’assoluta estraneità del giovane all’organizzazione insorgente, il Comando militare Usa ha deciso di “indennizzare” il padre della vittima con 2.000 dollari.

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L’eredità dell’Afghanistan la dipendenza da oppio dei bambini

RAWANews – 1 marzo 2013 – The Japan Times, March 1, 2013

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC), in nessun altro paese al mondo si produce tanta l’eroina oppio e hashish come in Afghanistan, un triste primato per un paese già devastato dalla guerra.
Di Cesar Chelala

Un rapporto appena pubblicato dalla Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, afferma che ci sono stati 2.754 morti e 4.805 feriti civili in quel paese nel 2012. Sotto silenzio è un grave effetto collaterale del conflitto: l’elevato numero di bambini dipendenti da oppio in Afghanistan. Il numero è aumentato sistematicamente negli ultimi anni.

La situazione non è limitata all’ Afghanistan. Anche in Pakistan c’è questo problema. Solo a Karachi, ci sono decine di migliaia di bambini tossicodipendenti, la maggior parte non riceve alcuna assistenza o supporto. Sarebbero necessarie nuove e più efficaci politiche per affrontare questa situazione.
Uno studio condotto in Afghanistan ha dimostrato che nel 25 per cento delle case dove abitano tossicodipendenti adulti i bambini testati avevano significativi segni di esposizione al farmaco, alcuni di appena 14 mesi. I bambini avevano comportamenti tipici dei tossicodipendenti da oppio-eroina: andando in astinenza quando non gli veniva più dato il farmaco.
Nei campioni d’aria interna non si trovano solo oppoioidi, ma la concentrazione era estremamente elevata.

Come avviene con il fumo passivo di sigaretta, l’aria e le superfici interne contaminate sono un grave rischio per la salute dei bambini.

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In Afghanistan Usa e Nato come l’Urss

The Globalist – 2 marzo 2013

Follia vendicativa Usa dopo l’11 settembre. Caccia ai terroristi. L’area tra Afghanistan e Pakistan sconvolta. Ritirata per mascherare la sconfitta.
di Ennio Remondino

La guerra che c’è ma non si vede.
Proprio questo febbraio, il “Committee on the Rights of the Child” dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu ha diffuso un rapporto sulle centinaia di bambini uccisi in Afghanistan negli ultimi 5 anni per la mancanza di misure precauzionali e di un uso indiscriminato della forza. Vittime, in genere, di «attacchi e raid aerei delle Forze Armate americane».
Le informazioni del documento, non ancora di dominio pubblico, già sono state definite «infondate e false» dal Quartier Generale delle Forze Statunitensi in Afghanistan. I militari sostengono che, lo scorso anno, le vittime civili sarebbero state ridotte del 49% rispetto all’anno precedente. Sconto del 40% anche per i bambini, mentre l’84% dei civili uccisi sarebbe addebitabile agli insorti. Insomma, i “Buoni” ammazzerebbero soltanto il 16 per cento di civili inermi. Per fortuna che, essendo tra i buoni, di bambini ne abbiamo ammazzati un po’ di meno.

Al peggio non c’è mai fine.
Da nostre fonti sappiamo che il documento Onu pone l’accento anche sul crescente problema dell’arresto e la detenzione di bambini. Ma su questo tema delicatissimo poco è trapelato. Il rapporto Onu è, di fatto, contestuale alle perplessità espresse dal Congresso Usa sull’utilizzo dei droni da parte dell’intelligence e segue di poche settimane la visita del Presidente afghano Karzai negli Stati Uniti per discutere status e numero dei militari Usa che resteranno nel Paese dopo il ritiro della Forza Internazionale Isaf-Nato a guida Usa.
Ora centomila militari non afghani, di cui 66.000 statunitensi. Ritiro messo in calendario per il 2014, ma che il Presidente statunitense vorrebbe accelerare, senza escludere il ritiro completo della componente americana, contando sulle promesse militari che basterà la presenza di un contingente di 3, 6 o 9 mila soldati. Cifre ballerine che, al cronista che l’Afghanistan lo ha vissuto, appaiono soltanto fantapolitica. Palle.

Tra promesse e realtà.
Fra i vecchi accordi mai mantenuti, ricordiamo quelli del marzo 2012, col trasferimento agli afghani del Controllo della prigione di Bagram, l’aeroporto-base militare di Kabul. Un mese dopo, passaggio ai locali del Comando di raid notturni e operazioni speciali. Poi, per dare un segnale ai pacifisti in casa americana, il “Partenariato Strategico” fra i due Paesi che parla di sviluppo economico e sociale, consolidamento delle Istituzioni e sicurezza in ambito regionale. Belle parole e pochi fatti. In questo quadro, giunge forte e chiara la voce dei Talebani che, con una campagna militare di rinnovata energia, colpiscono la capitale due volte nell’arco di una settimana, il 15 e il 21 gennaio. Il primo, un assalto con autobomba a una sede del “National Directorate of Security”. Il secondo, una vera battaglia contro il Quartier Generale della Polizia. E nel dicembre 2012, arrivano addirittura a colpire il Capo dei Servizi Segreti, Asadullah Khalid.

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Afghanistan: uccisi altri due bambini “per errore”

Contropiano.org – 3 marzo 2013

L’esercito australiano apre il fuoco e uccide due bambini afghani scambiandoli per talebani. Mentre in realtà erano a guardia del bestiame. Così il comandante dell’esercito australiano si dice oggi ”profondamente rammaricato” per la morte dei piccoli, caduti a sud del paese giovedì scorso. Impossibile, peraltro, spiegare come sia stato mai possibile scambiare due bambini-pastori per combattenti in armi. Il sospetto è che la tecnologia militare faccia pessimi scherzi,  facilitando reazioni abnormi a situazioni “normali”.

Ma intanto a Kabul sono tante le manifestazioni di protesta contro la presenza delle forze Nato nel paese. Manifestazioni alle quali partecipano anche i bambini. ”Ci dispiace profondamente – dice il generale David Hurley – che la Nato in Afghanistan sia responsabile, non intenzionalmente, della morte di due bambini afghani durante un’operazione”. Ma ora ”è troppo presto per sapere esattamente come si è verificato l’incidente o che sia responsabile”.

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Il silenzio su Anisa

The Post Internazionale – 28.2.2013

il silenzio su anisa orig mainUna giovane attivista afgana è stata uccisa dai talebani per la sua opera in favore dei vaccini. Ma il mondo non sembra essere interessato.

Come disse il poeta Urdu Habib Jalib nel suo ‘Mein ne uss se ye kaha’: “Jin ko tha zabaa pe naaz chup hai voh zaba daraaz” (Coloro che sono eloquenti nell’orgolio, i poeti, oggi non parlano”).

Nessun verso è più adatto oggi!

Un’altra Malala è stata attaccata – e purtroppo uccisa – ma nessuno ne parla. Il suo nome è Anisa. Era in seconda superiore, un’attivista per i diritti delle donne e l’istruzione, volontaria in una clinica per la somministrazione del vaccino antipolio gestita dal Ministero della Sanità pubblica. Facciamo ora il punto della situazione per cercare di capire i motivi della sua uccisione per mano dei talebani: oltre alla lotta a favore dell’educazione e il suo attivismo, Anisa aveva chiaramente riconosciuto la necessità dei vaccini antipolio nella sua regione; i talebani d’altra parte credono che il vaccino “renda i bambini sterili, sia veicolo del virus dell’Aids, che gli addetti alle vaccinazioni siano agenti della Cia”.

Si ritiene che Anisa avesse 16 anni. Si era salvata da un attentato alla sua vita il giorno prima, ma quei vigliacchi l’hanno aggredita di nuovo, sparandole diverse volte allo stomaco. La giovane studentessa non è sopravvissuta, e questa volta, purtroppo, i nemici dell’umanità, della pace, dell’amore, della giustizia hanno vinto. Solo esseri umani dalle anime marce di muffa possono sentirsi di aver ottenuto qualcosa di grande nell’aver ucciso questa bambina.

Cari lettori, quando dimostriamo tale parzialità verso le nostre vittime, avalliamo teorie della cospirazione come quelle attualmente diffuse sul caso di Malala: che fosse un agente della Cia, che sia gli Stati Uniti che il Pakistan siano stati coinvolti nel suo attacco o che l’attentato di cui è stata vittima coinvolgesse qualcosa di più grande dei talebani.

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Afghanistan, countdown verso il 2014 tra accuse di torture e bilanci nefasti

di Antonella Vicini, feb. 2013, da Reset-Doc

Afghanistan 2014Saranno certamente le prossime elezioni presidenziali in Afghanistan, a pochi mesi dal ritiro delle truppe combattenti americane (la presenza nel Paese degli Stati Uniti andrà avanti ben oltre l’aprile 2014), a segnare il bilancio di tredici anni di missione Isaf e a far intravvedere quella “fine responsabile” di cui ha da poco parlato Barack Obama. Ma, nell’attesa, il countdown sembra già iniziato sia a Kabul, sia a Washington, ma mentre nel primo caso la Commissione Elettorale Indipendente Afghana è al lavoro, con netto anticipo, per arrivare al suo traguardo sperando di risolvere i soliti problemi che hanno fatto guadagnare alle precedenti tornate accuse di irregolarità, negli Stati Uniti sono i numeri delle ultime settimane a pesare non poco sulle previsioni di analisti e osservatori.

Con una media giornaliera di circa 50 attacchi da parte dei cosiddetti insurgent, sono 2158 i militari americani morti recentemente. Il Pentagono ha diffuso i nomi nei giorni scorsi. Tutto questo a fronte di una missione costata agli Stati Uniti 83 miliardi di dollari, dal 2001 ad oggi.

Ma c’è anche un’altra cifra che pesa sulla situazione afghana: 139 è il numero delle pagine del rapporto della Nazioni Unite sul trattamento dei prigioniero nel Paese. E anche in quest’ultimo caso le notizie non sono buone. Treatment of Conflict-Related Detainees in Afghan Custody: One Year On è il titolo del nuovo documento di Unama sulle condizioni dei detenuti nelle prigioni afghane. Nuovo perché segue quello dell’ottobre 2011 (Treatment of Conflict-Related Detainees in Afghan Custody) che ha rivelato per la prima volta i trattamenti delittuosi ai danni dei prigionieri afghani.

Un anno dopo aver incontrato e intervistato 379 detenuti in attesa di giudizio, rinchiusi in quarantasette istituti di 22 province, e dopo aver denunciato le torture e maltrattamenti, il panorama che si è presentato agli inviati di Unama non è migliorato.

Anzi, questa volta i numeri sono anche superiori: oltre la metà degli intervistati dichiarano infatti di aver subito torture e maltrattamenti. Si tratta di 326 afghani, sui 635 ascoltati, vittima di pratiche illegali in trentaquattro istituti penali.

In realtà, ben prima, nel 2005 grazie al New York Times si erano accesi i riflettori su quel che avviene dentro le mura delle strutture carcerarie, ma in quel caso sotto accusa erano gli americani che sul modello Abu Ghraib e Guantanamo avevano allestito a Bagram una prigione per i detenuti accusati di terrorismo. Ma quella è un’altra storia.

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