Viaggio a Kabul: L’Afghanistan che non tace
Patrizia Fiocchetti – CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) ROMA – DI RITORNO DA KABUL
Il Manifesto – 10 novembre 2012
Gli occidentali si ritirano ma non se ne andranno davvero. I warlord sono sempre più potenti, i Taleban si preparano a tornare: a Kabul la corsa alla spartizione del potere è cominciata.
Il pulmino percorre veloce le strade polverose di Kabul, affollate e trafficate, deliranti come le ricordavo. Kabul così uguale e così diversa da come l’avevo lasciata due anni e mezzo fa quando vi ero venuta per la prima volta. E’ il 9 settembre, ricorrenza dell’uccisione di Ahmad Shah Massud, leader del partito tagiko Jamiat-i-Islami e la capitale è tappezzata di suoi poster che lo ritraggono in varie pose con accanto sue frasi celebri in persiano.
«È sempre peggio» mi dice Maryam, membro di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, che opera in clandestinità), che mi siede accanto sul tragitto dall’aeroporto: «I signori della guerra sono divenuti più arroganti e ostentano il proprio potere in ogni modo. Per i panjshiri del Jamiat-i-islami è un punto di prestigio mostrare Massud, celebrarlo in maniera esagerata: significa esserci anche se lui non c’è più. Gli americani se ne andranno, pur non andandosene mai veramente. Ma il segnale per i jihadisti che occupano i seggi in Parlamento e al governo è chiarissimo: la corsa alla spartizione del potere del futuro Afghanistan è cominciata».
I giovani e il futuro del paese
Al Setareh 2 («Stella 2») un gruppo di ragazzi ci attende con evidente curiosità. Ubicato in una zona popolare della capitale, Setareh 2 è uno dei quattro orfanotrofi gestiti da Afceco (Afghan child education and care organization, organizzazione non governativa per l’istruzione) e accoglie giovani dai 14 ai 19 anni di età. Lo dirige Yussef Amin, giovane uomo di 27 anni originario della provincia di Kunar, al confine con il Pakistan. Occhi verdi e sorriso franco, è qui ormai da due anni. «Abbiamo ragazzi provenienti da un po’ tutte le province del paese, Farah, Nimrooz, Daghar e Nuristan. Ma sono in aumento i giovani dal sud del paese, da Helmand e Kandahar, zone di scontri a fuoco tra americani e taleban». Come riesce a gestire 80 ragazzi in un’età complessa come l’adolescenza, gli chiedo. Ride: «Senza dubbio era più facile quando ero direttore di Setareh 1 (dove sono accolti bambini più piccoli, ndr). Per risolvere le problematiche ci serviamo sia di colloqui individuali, sia di riunioni generali ogni 15 giorni. I ragazzi si affrontano e confrontano in maniera aperta, critiche costruttive volte a superare la conflittualità ma anche alla crescita come individui e collettività. Ciò che è assolutamente proibito è offendere l’altro sulla base dell’appartenenza etnica o del credo religioso.
Negli orfanotrofi di Afceco questo non è tollerato».
Nelle scuole pubbliche la realtà è ben diversa. Già dalla prima elementare i bambini imparano a offendersi con improperi pesantissimi, facendo leva sull’appartenenza etnica o religiosa, mettendo in campo l’importanza del padre o della famiglia di appartenenza. «In questi trent’anni non è stata distrutta solo la parte concreta e visibile dell’Afghanistan, le sue infrastrutture, strade, tessuto economico. E’ stato anche annientato il futuro ai giovani, la visione che potranno avere della loro vita: procedono in un abisso di diffidenza verso l’altro, perfino il proprio vicino o compagno di studi. Questo veleno a lento rilascio sta minando le strutture stesse della società afghana, sia nelle relazioni interpersonali sia nella vita pubblica e politica», dice Maryam amaramente.