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Autore: Anna Santarello

La cooperazione non vende fumo. Semmai petrolio.

Monica Di Sisto, 2 ottobre 2012, comune-info.net

Di seguito, un’analisi dopo la conclusione del Forum voluto dal ministro Andrea Riccardi. Altri articoli sul Forum (a cominciare dal pezzo che per primo ha denunciato gli sponsor imbarazzanti come Eni), sul testo di legge discusso in parlamento e sul futuro della cooperazione, sono nel Dossier Cooperazione internazionale.
33 300x1501Si spengono i riflettori sul Forum della cooperazione. L’evento si è concluso oggi a Milano con la promessa del ministro-mentore Riccardi che la festa non è finita ma continuerà su «un tavolo virtuale, come una consulta permanente». E noi di Comune-info, puntuali come un mal di denti, ci consideriamo già seduti comodi online per continuare a discutere di cooperazione come politica pubblica e internazionalizzazione delle imprese.
Sì, perché quando molti anni fa cominciavo a studiare di politica estera apprendevo dai manuali che tra le tante attività dei sistemi-Paese figuravano sia la cooperazione allo sviluppo, sia la proiezione estera dei sistemi di produzione e di consumo nazionali. Entrambi, ma distinti. Entrambi motori della globalizzazione, ma, auspicabilmente, il primo a spingere per un’internazionalizzazione della solidarietà, il secondo dedicato di profitti. Di solito tra l’uno e l’altro ci stava bene anche un accapo.
Fino a qualche anno fa, infatti, si aveva pudore a mescolare il commercio internazionale, cioè i soliti vecchi affari, alla cooperazione allo sviluppo, nata proprio per riparare alle rapine del colonialismo a danno dei sistemi economici del cosiddetto «Terzo mondo» o, almeno, per tentare di ricostruire la reputazione degli ex-schiavisti. Oggi, invece, dopo due giorni di Forum una cosa è chiara: la crisi placa gli antichi rimorsi e stiamo entrando a passo svelto nella fase del «si salvi chi può» anche in questo settore.

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Intervento di Selay Ghaffar al Coordinamento Nazionale CISDA

Milano 30 settembre 2012 , Presso la Fattoria didattica del Parco Trotter – Sessione pubblica

Selay Ghaffar ha aperto la sessione pomeridiana del Coordinamento Nazionale dell’Associazione CISDA presentando un suo breve profilo di attività e un’analisi di contesto della situazione afghana.
Selay Ghaffar è una attivista per i diritti umani e riveste il ruolo di direttrice di una delle organizzazioni non governative afghane più accreditate del paese: Hawca-Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan (vedi www.hawca.org). L’associazione gestisce la ‘casa protetta’ o ‘shelter’ di Kabul per fornire protezione e assistenza alle vittime di violenza e i Centri di Aiuto Legale di  Kabul, Herat e Jallalabad.
Hawca è una associazione molto radicata sul territorio con una presenza in 11 delle 34 Provincie afghane. Le attività di lobby e advocacy sono realizzate in stretta partnership con organismi e istituzioni locali così come internazionali e hanno una particolare focalizzazione  sugli ambiti legali per consentire l’attuazione di politiche di rispetto dei diritti delle donne e di garanzia per coloro che hanno subito violenza.
Negli ultimi cinque anni le cose in Afghanistan sono andate via via peggiorando. La situazione si è politicizzata in senso partitico e il miglioramento della condizione della donna è divenuto parte dell’agenda politica ma questo non ha comportato evoluzioni in positivo:  coloro che siedono al governo e che dovrebbero promulgare leggi per il rispetto dei diritti umani sono ex criminali di guerra che si sono macchiati le mani di crimini orrendi.
Anche le Nazioni Unite non sono oneste perché perseguono gli interessi delle nazioni che rappresentano e non quelli degli afghani;  non vi è alcun monitoraggio sulla reale applicazione delle risoluzioni che la comunità internazionale chiede al governo afghano per i rispetto delle donne, alcun investimento per una reale modifica delle infrastrutture sociali. Il reale intento è la condivisione del potere.
Del resto, nessuno dei governi che dichiara di volere affermare i diritti delle donne in Afghanistan investe denaro per sostenere gli stessi diritti nel proprio Paese.

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LA PROTESTA DEGLI STUDENTI AFGHANI BLOCCA L’INGRESSO AL PARLAMENTO

by Abasin Zanini, 29.9.2012,  RawaNews

Il veicolo di un parlamentare ha investito i manifestanti, ferendone tre. Non è stato reso pubblico il nome dell’investitore.
 
two women beaten in student protest near parliament1 300x209La foto che vedete è stata fatta circolare su Facebook, e mostra due studentesse dell’Università di Kabul picchiate da guardie del corpo di Nazir Ahmad Hanafi, rappresentante della provincia di Herat. Questo “warlord” (signore della guerra) appartiene a Jamiat-e Islami ed è un sostenitore di Burhanuddin Rabbani, oltreché alle dipendenze di Ismail Khan. Le ragazze hanno anche dichiarato che una di loro è stata investita dalla sua auto e ferita ad un piede.
Sabato scorso (29 settembre 2012) centinaia di studenti hanno nuovamente protestato bloccando l’ingresso al Parlamento, contro la decisione di Karzai di intitolare l’Università di Kabul a Burhanuddin Rabbani, capo del partito Jamiat-i-Islami, responsabile di crimini contro la popolazione afghana e ucciso lo scorso anno in circostanze poco chiare.
 
Hamdullah, studente di letteratura, ha dichiarato all’agenzia di stampa afghana Pajhwok: “un certo numero di parlamentari sono usciti dal parlamento per minacciare i manifestanti. Inoltre il veicolo di un parlamentare ha colpito i manifestanti, ferendone tre” ha asserito lo studente “senza farsi riconoscere!”.
Pare che l’autore dell’investimento sia proprio il deputato della provincia occidentale di Herat, Nazir Ahmad Hanafi, che prima ha tentato di prendere a calci i manifestanti e poi ha tentato di investirli con la sua auto davanti al Palazzo del Parlamento. Naturalmente il suo autista ha negato ogni addebito.

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COMUNICATO STAMPA DEL CISDA

Selay Ghaffar, attivista afghana per i diritti umani sarà in Italia dal 28/9 al 14/10/2012
Selay Ghaffar, attivista per i diritti umani e direttrice di una delle organizzazioni non governative afghane più accreditate del paese: Hawca-Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan (vedi www.hawca.org), sarà in Italia dal 28 settembre al 14 ottobre per prendere parte a una serie di eventi organizzati sul territorio nazionale da associazioni che operano nell’ambito della cooperazione internazionale sui temi della giustizia sociale e a favore dei diritti delle donne.
L’Associazione afghana Hawca gestisce la ‘casa protetta’ o ‘shelter’ di Kabul e i Centri di Aiuto Legale di Kabul, Herat e Jallalabad fornendo protezione e assistenza alle vittime di violenza. Hawca porta avanti progetti con molte organizzazioni umanitarie internazionali, anche delle Nazioni Unite. Collabora, in Italia, con il MAE (Ministero degli Affari Esteri), Aidos (Associazione Donne per lo Sviluppo), ICS (Istituto per la Cooperazione e lo Sviluppo) di Alessandria, il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) e altri.
Selay Ghaffar, è anche stata una delle due rappresentanti della società civile selezionate per intervenire alla conferenza di Bonn del dicembre 2011 che ha visto riunita la diplomazia internazionale per parlare di Afghanistan.

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Afghanistan. I rimpasti sospetti di Karzai

Rinascita, di Ferdinando Calda, 20 settembre 2012

Il presidente afgano Hamid Karzai ha sostituito i governatori di dieci delle 34 province del Paese, tra i quali il governatore dell’Helmand Mohammad Gulab Mangal, considerato un ottimo alleato da statunitensi e britannici. Secondo l’ufficio di presidenza che ha diffuso la notizia, le sostituzioni fanno parte di una revisione generale dell’organizzazione amministrativa mirante ad eliminare inefficienze e corruzione. Tuttavia, secondo i critici, si tratterebbe di una mossa di Karzai per consegnare posti di potere a personaggi a lui vicini, in modo da garantirsi una certa influenza in vista delle elezioni presidenziali del 2014. La Costituzione afgana impedisce al presidente di correre per un terzo mandato e Karzai ha già rassicurato le opposizioni politiche che non ha intenzione di candidarsi
Il commentatore politico Fazl Rahman Orya, sentito dall’agenzia di stampa afgana Pajhwok, sostiene che le nuove nomine tra i governatori servano proprio a trovare un successore leale che, una volta eletto, possa continuare a difendere gli interessi dei Karzai.

Un altro analista, Mohammad Amin Wakman, aggiunge che il presidente avrebbe paura che un successore onesto lo porti di fronte a un tribunale per tutto quello che ha combinato durante il suo governo.
 
Di fatto, con il decreto di ieri, il presidente ha più che altro riposizionato alcuni governatori, licenziandone altri che probabilmente riteneva poco affidabili. A capo della provincia di Kabul è stato nominato Abdul Jabbar Taqwa, già governatore di Takhar. Al suo posto è arrivato il generale Ahmad Faisal Begzad, già governatore di Faryab. A Badghis è arrivato Mohammad Tahir Sabari, che prima era governatore di Logar, passata in mano a Iqbal Azizi. Quest’ultimo era già governatore a Laghman.

Le altre province interessare da questo rimpasto sono state quelle di Nimroz, Logar, Baghlan e Helmand.

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La Nato: stop operazioni congiunte con gli afghani

KABUL/FILM ANTI-ISLAM ATTENTATO KAMIKAZE

Il manifesto, di Giuliano Battiston, 19 settembre 2012
 
In Afghanistan il film anti-islamico Innocence of Muslims continua, in modo virale, a infiammare gli animi. Dopo le proteste di Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, ieri a Kunduz, nel nordest del paese, sono scesi in strada centinaia di studenti, che hanno incendiato ritratti di Barack Obama e ingaggiato una lunga guerriglia urbana con le forze di polizia locali. Nella capitale, invece, una donna kamikaze ha fatto esplodere l’automobile che guidava, una Toyota-corolla imbottita di esplosivo, contro un minibus nei pressi dell’aeroporto. Dodici i morti accertati, tra cui un ragazzo di 12 anni, 11 invece i feriti.
 
Tra le vittime, 8 sarebbero sudafricani, lavoratori della Aviation Charter Solutions Inc. (ACS), una compagnia che secondo le agenzie di stampa gestisce il rifornimento di aerei ed elicotteri per l’ambasciata statunitense e per i suoi programmi di ricostruzione, grazie a un contratto stipulato nel 2010 con Usaid, l’Agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale. Ad assumersi la responsabilità dell’attacco, con una email all’agenzia Associated Press, è stato uno dei portavoce dell’Hezb-e-Islami, il movimento guidato da Gulbuddin Hekmatyar, forte nell’area settentrionale del paese, diviso tra aperture al dialogo politico con Karzai e, come in questo caso, attentati e omicidi mirati. Secondo gli uomini di Hekmatyar, l’attentato di Kabul sarebbe una risposta alle provocazioni oltraggiose del film Innocence of Muslims.
 
Meno eclatante, ma molto più significativa rispetto a quella dell’Hezb-e-Islami, la reazione dei comandi militari delle forze Isaf-Nato. Che in risposta agli «eventi avvenuti dentro e fuori del paese» in seguito alla diffusione del film hanno deciso di interrompere, o quantomeno diminuire le operazioni congiunte con le forze afghane. La decisione dimostra una delle tante contraddizioni dell’intervento occidentale in Afghanistan. Da una parte la Nato promette di aiutare le forze locali ad assumersi la responsabilità della sicurezza, addestrandole e fornendo tutta l’assistenza tecnica e logistica possibile. Dall’altra decide di ridurre le operazioni congiunte.
 
Qualcosa evidentemente non funziona. E non è sufficiente precisare, come hanno fatto subito i vertici Isaf, che si tratta di una decisione «momentanea», che «non compromette assolutamente l’impegno ad assistere, addestrare e fornire aiuti alle nostre controparti afghane», affinché si realizzi in modo graduale il previsto passaggio di consegne. Tutti sanno infatti che, dietro le rassicuranti dichiarazioni di facciata, c’è un’enorme problema di fiducia. La Nato non si fida più dei soldati afghani, con cui dovrebbe collaborare, e viceversa.
 
Anche il segretario americano alla Difesa, Leon Panetta, l’ha ammesso: sono troppi i soldati internazionali uccisi dai soldati afghani. Nel 2007 a rimanere vittima del fuoco amico erano stati due soldati dell’Isaf. Nel 2012 sono già 51. Abbastanza per allarmare Bruxelles e Washington. Che con la decisione di ieri vogliono mandare un messaggio a Karzai, perché trovi una soluzione. Anche Kabul non può fare molto, però. Ormai è troppo tardi per risanare la crisi di fiducia e l’incomprensione tra i soldati afghani e gli stranieri.
Di «crisi di fiducia e incompatibilità culturale» parlava già, nel maggio 2011, una ricerca condotta dal «N2KL Red Team», un gruppo di esperti e scienziati americani che si occupa di psicologia e operazioni militari. Gli «omicidi fratricidi» – così spiegavano gli autori – non sono casi isolati, rappresentano «un vero e proprio rischio sistemico», riconducibile a molti fattori, ma a uno in particolare: gli afghani, anche i soldati, sopportano sempre meno le truppe d’occupazione, la loro scarsa sensibilità e i loro comportamenti da padroni in casa altrui.

Il manifesto 2012.09.19 – 07 INTERNAZIONALE KABUL/FILM ANTI-ISLAM ATTENTATO KAMIKAZELa Nato: stop operazioni congiunte con gli afghaniTAGLIO MEDIO – G. B.

In Afghanistan il film anti-islamico Innocence of Muslims continua, in modo virale, a infiammare gli animi. Dopo le proteste di Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, ieri a Kunduz, nel nordest del paese, sono scesi in strada centinaia di studenti, che hanno incendiato ritratti di Barack Obama e ingaggiato una lunga guerriglia urbana con le forze di polizia locali. Nella capitale, invece, una donna kamikaze ha fatto esplodere l’automobile che guidava, una Toyota-corolla imbottita di esplosivo, contro un minibus nei pressi dell’aeroporto. Dodici i morti accertati, tra cui un ragazzo di 12 anni, 11 invece i feriti.

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CARTOLINE DA KABUL. Sulla lavagna afghana un vecchio copione

il manifesto, di Giuliano Battiston, 19 settembre 2012
 
In due libri recenti drammi e conflitti del paese asiatico. «In battaglia quando l’uva è matura» di Valerio Pellizzari e «Shùlai» di Enrico Piovesana In Afghanistan, tre giorni fa un bombardamento delle forze internazionali Isaf-Nato ha causato nove vittime nella provincia di Laghman, nel distretto di Alingar: tutte donne, tutte giovani tra i 18 e i 25 anni, tutte innocenti. Per alcuni giornalisti quelle ragazze vanno registrate nell’inevitabile computo della guerra, inserite nella contabilità generale come un corollario necessario, un deficit momentaneo e fastidioso dell’efficienza militare. Precisa ma non perfetta. Per altri non sono numeri, ma persone.
 
Colbacchi e propaganda
Valerio Pellizzari, giornalista e scrittore, già inviato speciale per «Il Messaggero» ed editorialista per «La Stampa», per molti anni ha inseguito le storie degli afghani che la guerra l’hanno combattuta, ma soprattutto subita e sofferta. La storia che racconta nel suo ultimo libro, In battaglia, quando l’uva è matura.

Quarant’anni di Afghanistan (Laterza, pp. 244, euro 18) è infatti una storia dalla parte degli afghani, e inizia trentatré anni fa, quando «centomila soldati
sovietici occupavano l’Afghanistan».
 
Era pieno inverno, quei soldati che indossavano colbacchi e pesanti giacconi erano arrivati a Kabul «per difendere la rivoluzione comunista locale e combattere l’integralismo islamico». Così raccontava la loro propaganda, e così ricorda Pellizzari. Dopo alcuni anni, quella propaganda si è sgretolata. A diradare la nebbia dei bollettini ufficiali era stato il «potente circuito delle notizie che attraversa il bazar, la moschea, la stazione degli autobus, le locande che vendono il tè, che si dilata nei grandi raduni familiari in occasione delle nascite, dei matrimoni, dei funerali…».
 
Nel 2001, gli americani e i loro alleati occidentali sono arrivati in Afghanistan «per sconfiggere il terrorismo che si era trincerato in quelle vallate con Bin Laden, cancellare l’oscurantismo dei talebani e importare la democrazia. Così hanno ripetuto per anni la radio e ‘La voce della libertà’, il giornale delle truppe straniere», e così ricorda Pellizzari. Per
il quale il copione della politica era destinato a ripetersi, in un paese considerato «come una lavagna a disposizione
dell’ultimo forestiero arrivato»: «la vittoria degli stranieri non arriva mai, e gli slogan di chi governa a Kabul
rimangono gli stessi».
 
Una strada in salita
Anche la nebbia della nuova propaganda si è sgretolata. Il «fossato dell’incomprensione tra la gente e le forze straniere è stato scavato», nota Pellizzari. Troppo evidente l’incongruenza tra le dichiarazioni ufficiali e i risultati sul campo.
Troppo eccessiva la distanza tra mezzi e fini. Troppi gli errori commessi. Pellizzari li elenca in modo scrupoloso: la fretta di «importare la democrazia con il sostegno dell’Onu, di celebrare il rito delle dita bagnate nell’inchiostro per dire sì o no»; l’impiego dall’estate del 2006 degli elicotteri corazzati e dei bombardieri («da allora tutti i numeri negativi che riguardano la guerra – gli uomini impiegati, i soldati uccidi, i civili uccisi, gli attacchi con le mine, i
kamikaze – sono cresciuti in modo costante»); la sordità alle richieste della popolazione locale; l’ottusa insistenza sulla militare, «una strada senza indicazioni, in salita, che si perde nella nebbia»; la sovrapposizione tra guerra privata e guerra degli eserciti regolari; la vita di un afghano valutata al prezzo di due pecore.
 
L’analisi di Pellizzari è dettagliata e rigorosa, perlopiù condivisibile. Ma risulta convincente e appassionante per due motivi. Perché viene spiegata alla luce del passato, dentro una cornice storica di ampio respiro, che restituisce densità temporale e di significato alle vicende attuali. E soprattutto perché si snoda lungo un doppio binario. C’è il binario della grande storia, degli avvenimenti e dei personaggi che rimarranno nei libri scolastici, di Gandamak e del medico militare William Brydon, del re modernizzatore Amanullah Khan e del passaggio dalla monarchia alla repubblica, di Zaher Shah e di Babrak Karmal. Ma c’è anche, abilmente intrecciato al primo, il binario delle storie individuali quotidiane, di chi ha incarnato e reso possibile la grande storia. Quella dei sette guardiani del tesoro di Tillia Tepe, del mujaheddin Gul Mohammed Zahid o del monaco-guerriero Farhad, per esempio. O quella di un giornalista occidentale, entrato per la prima volta in Afghanistan nel 1974, quando il paese «rappresentava un angolo di Oriente tagliato fuori dai grandi disegni strategici e dalle grandi rotte commerciali». E rimasto a osservare le terre dell’Hindu Kush fino a oggi, mentre «si chiude lentamente il sipario su un’altra storica sconfitta, con un’uscita di scena quasi furtiva». Lo fa con sguardo onesto, ma a tratti troppo nostalgico verso un paese idilliaco che forse non c’è mai stato.

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«Kabul, la politica ha fallito» intervista al’ex inviato della Farnesina De Maio

Lettera43, di Barbara Ciolli, 20 settembre 2012
 
L’INTERVISTA
«Kabul, la politica ha fallito»
L’ex inviato della Farnesina De Maio.
 
Dopo l’annuncio del ritiro completo dei circa 130 mila uomini entro il 2014, nel settembre 2012 la Nato ha dimezzato le operazioni congiunte con le forze afghane, e gli Stati Uniti hanno interrotto l’addestramento della polizia locale e delle unità di forze speciali, per sottoporre le reclute ad «accurati controlli».
Ci sono stati troppi infiltrati e troppi morti tra i soldati in missione – soltanto tra il 15 e il 16 settembre sei militari uccisi, 51 in tutto l’anno – per fidarsi delle forze afghane che gli Usa e gli alleati atlantici si erano impegnati a formare, anche dopo la loro uscita dal teatro di guerra.
 
LA NATO SULLA DIFENSIVA.

Sembra l’ennesimo fallimento della missione internazionale Isaf: dopo aver rinunciato a vincere la guerra al terrorismo e pacificare il Paese, i contingenti non riescono neppure a mandare avanti i programmi di addestramento.
Con la crisi, Spagna e Italia hanno tagliato i budget per Kabul. E anche il «tentativo degli Usa di trattare con i talebani», ha confermato a Lettera43.it l’ex inviato del governo italiano in Afghanistan e ambasciatore in Pakistan Enrico De Maio, «con un negoziato di basso spessore non è andato da nessuna parte».
 
IL VUOTO POLITICO-DIPLOMATICO.

Tuttavia, ha raccontato l’alto funzionario, il vero fallimento internazionale della missione è un altro. «Sul piano militare, tenendo conto delle difficoltà di un terreno ostile, sono stati fatti dei progressi. Non sul piano politico-diplomatico».
È questo il grande vacuum che, di anno in anno, alimenta gli insorti e l’asfissia della palude afghana. Una palude sempre più «scollegata dal suo naturale contesto asiatico e ancorata agli interessi particolari dei potentati stranieri». Per uscire dal pantano, secondo De Maio, bisogna ripartire proprio dai Paesi del resto dell’area.
 
Come si esce dall’Afghanistan senza che per la Nato sia una resa pressoché incondizionata?
Per restituire identità e stabilità all’Afghanistan occorreva mandare avanti, in questi 10 anni, oltre alle operazioni militari e di sicurezza, un serio lavoro politico-diplomatico. Con un approccio multilaterale e non bilaterale, come invece è avvenuto.
 
Lei parla sempre di contesto asiatico. Perché?
Non si può pacificare il Paese, se prima non si correggono le storture con il Pakistan, legato a triplo filo con Kabul. Per questo è necessario coinvolgere l’India, che, come l’Afghanistan, in Kashmir ha una frontiera inesistente con i pachistani.
 
È una tela molto più complessa dello schema finora adottato.
L’Afghanistan appartiene all’Asia, non agli Stati Uniti o all’Europa. E i nodi da sciogliere nella regione sono molti, a partire dall’influenza dei militari corrotti e dei sofisticati servizi segreti di Islamabad in contatto con la rete talebana. Che a Quetta, in Pakistan, ha il suo stato maggiore.
 
Ma i rapporti tra Washington e Islamabad non sono mai stati così tesi come dall’uccisione di Osama bin Laden.
I potenti 007 dell’Isi e la casta militare pachistana si nutrono dell’instabilità afghana per ricevere smisurati aiuti militari ed economici, in modo da far ingrassare le loro lobby.

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Deputato laburista cacciato dal parlamento per aver detto che il governo sta mentendo sulla guerra in Afghanistan

Paul Flynn dice che i ministri del governo utilizzano i soldati britannici come scudi umani per salvaguardare la loro reputazione, mandandoli a morire invano in una guerra in Afghanistan, che si perderà.
Alla Camera dei Comuni, il 18 settembre 2012, il deputato laburista Paul Flynn è stato sospeso dal Parlamento britannico per aver detto che il segretario alla difesa Phillip Hammond stava usando soldati britannici come scudi umani per salvare la reputazione dei ministri mandandoli a morire invano in un guerra ormai persa.
Ha paragonato Hammond e gli  altri ministri del governo ai politici della prima guerra mondiale che “hanno mentito e i soldati sono morti.” Paul Flynn ha rifiutato di ritirare l’accusa ed è stato sospeso dalla Camera dei Comuni per cinque giorni.
L’accusa di Paul Flynn di aver mentito è arrivata il giorno dopo la discussione parlamentare voluta da un certo numero di parlamentari laburisti sul ritiro immediato delle truppe britanniche dall’Afghanistan.
L’ex ministro laburista Denis MacShane – che in precedenza aveva sostenuto tutte le guerre degli ultimi undici anni – ha chiesto perché il governo stava permettendo soldati britannici di “essere sacrificati senza scopo”.  Ha anche aggiunto che essi sono stati impegnati in un conflitto impossibile da vincere senza nessun vantaggio strategico per il Regno Unito.
L’ex ministro conservatore John Redwood ha detto: “Portate le nostre truppe a casa per Natale.”
Hammond ha risposto: “Abbiamo una posizione in Afghanistan ottenuta con un costo elevato: 430 persone hanno dato la vita per ottenere questo e abbiamo intenzione di proteggere questa eredità, assicurando che gli interessi della sicurezza nazionale del Regno Unito siano  protetti e garantiti anche in  futuro, attraverso la formazione del personale afgano in modo che le forze di sicurezza afgane possano svolgere il ruolo che svolgiamo noi attualmente.
Quando ha affermato questo, Hammond sapeva che la Nato stava per annunciare che avrebbe sospeso questo addestramento di soldati e poliziotti afgani poiché ci sono stati troppi attacchi ” green-on-blue”*, in cui le forze afghane hanno ucciso i  loro formatori.

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L’espansione delle basi militari in Afghanistan

Asia Times Online, di Nick Turse, 6 Settembre, 2012

[Traduzione in sintesi a cura del CISDA]

Il conteggio ufficiale delle basi militari ISAF in Afghanistan, considerando tutte le installazioni militari straniere di ogni tipo, tra cui logistica, amministrazione e strutture di supporto raggiunge l’enorme numero di 1.500 siti.
 
Al culmine dell’occupazione americana dell’Iraq, gli Stati Uniti contavano 505 basi nel Paese, che vanno da piccoli avamposti a mega basi aeree. Stime stampa dell’epoca ne citavano solo 300. Solo quando le truppe Usa si prepararono a lasciare il paese emerse il reale – sorprendentemente alto – numero di basi riferito. Oggi che gli Stati Uniti si preparano per il ritiro dall’Afghanistan, il vero numero di basi americane e della coalizione in quel paese è altrettanto oscuro, con le fonti ufficiali che offrono cifre contrastanti e imprecise.

Nonostante da anni si parli del ritiro americano, vi è infatti stato un lungo periodo di boom edilizio durante il quale il numero di basi è stato costantemente ampliato. All’inizio del 2010, l’ISAF ha dichiarato di avere quasi 400 basi afghane. All’inizio di quest’anno, il numero era salito a 450. Oggi, un portavoce militare ne dichiara circa 550. E questo potrebbe essere solo la punta di un iceberg.
Quando si aggiungono al conteggio delle mega-basi quelle di piccole dimensioni utilizzate per proteggere strade e villaggi, gli avamposti di combattimento, e le basi di pattugliamento, il numero passa a 750. Conteggiando tutte le installazioni militari straniere di ogni tipo, tra cui logistica, amministrativa e strutture di supporto, il conteggio ufficiale offerto dal Comando ISAF raggiunge un numero enorme di 1.500 siti. Differenti metodi di conteggio probabilmente spiegano almeno una parte di questa crescita fenomenale nel corso di quest’anno. Tuttavia, i nuovi dati suggeriscono una conclusione che dovrebbe spaventare: le basi afghane presidiate superano di gran lunga le 505 basi americane in Iraq, al culmine di quella guerra.

La continua espansione delle basi
Mentre alcune basi USA sono in fase di chiusura o di trasferimento al governo afghano, e si parla di operazioni di combattimento in fase di rallentamento, così come di un piano per il ritiro delle forze da combattimento americane, l’esercito statunitense si sta ancora preparando per lo sviluppo di mega basi come quelle di Kandahar e Bagram, con una gigantesca base aerea a circa 40 miglia a nord di Kabul. “Bagram sarà soggetta a modifiche significative nel corso dei prossimi uno o due anni,” dichiara il tenente colonnello Daniel Gerdes della US Army Corps of Engineers di Bagram, chiamato Freedom Builder. “Siamo in una fase di transizione nei progetti per la base … a lungo termine, di cinque anni, 10 anni.”

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