Politici e uomini di governo afgani implicati nei massacri degli anni Novanta
Di Rod Nordland, con Alissa J. Rubin
22 luglio 2012, The New York Times
MAZAR-I-SHARIF, Afghanistan
A Mazar-i-Sharif, le atrocità della guerra civile afgana degli anni Novanta vengono ricordate ancora a bassa voce: racconti dell’orrore su un conflitto etnico e fazionale che fece terra bruciata di tutto, nel quale furono massacrati civili e combattenti prigionieri.
Prova evidente di questi massacri sono le fosse comuni che continuano a essere rinvenute nelle zone rurali dell’Afganistan. Una di queste si trova appena fuori Mazar-i-Sharif, nel nord del paese. Riportata alla luce solo per metà, oggi appare parzialmente ricoperta dal fango delle recenti inondazioni, dal quale emergono ossa e resti di vestiti. Gli esperti dicono che in questo luogo si trovano i resti di almeno 16 vittime: tutti i teschi rinvenuti hanno un foro nella nuca.
Accusati di essere responsabili di questi e di decine di migliaia di altri morti sono uomini potenti, alcuni ritenuti mandanti diretti, altri considerati i vertici della catena di comando che portò ai massacri. I nomi di questi uomini vengono elencati nell’imponente report sulle violazioni dei diritti umani in Afghanistan dall’era sovietica (anni Ottanta) fino alla caduta dei Talebani nel 2001: più di 800 pagine compilate negli ultimi sei anni da un gruppo di ricercatori e specialisti dell’AIHRC (Afghan Independent Human Rights Commission).
L’elenco dei nomi corrisponde a una sorta di manuale sugli uomini più potenti dell’Afghanistan: signori della guerra passati e attuali, così come esponenti delle opposte fazioni che li combattono. Molti erano nomi eminenti nell’era della guerra civile afgana, che scoppiò dopo il ritiro dei Sovietici: nomi che vengono spesso citati nei discorsi preccupati degli Occidentali quando si immagina la probabile degenerazione violenta che potrà seguire alla fine della missione militare NATO nel 2014. Già da ora si percepisce chiaramente la crescente preoccupazione per il caos che potrà travolgere i sistemi di potere e dell’economia, insieme a rinnovate tensioni etniche e tribali.
Ma il report difficilmente sarà divulgato a breve, dato che cerca di inchiodare questi uomini potenti alle loro responsabilità, come sostengono gli autori, i quali inoltre accusano noti rappresentanti del potere pubblico in Afghanistan di avere rapidamente distrutto le prove rinvenute e coperto i responsabili dei crimini. Da parte loro, i ricercatori affermano che il paese sembra condannato a rivivere la violenza sanguinaria del suo passato, se le violazioni commesse non saranno pubblicamente denunciate e i responsabili perseguiti penalmente. Mentre molti politici afgani – compresi alcuni diplomatici – esprimono la loro preoccupazione che il report possa scatenare subito un nuovo conflitto civile.
Intitolato “Mappa dei conflitti afgani dal 1978”, lo studio, realizzato dall’Afghan Independent Human Rights Commission (AIHRC), riporta in modo preciso i luoghi e i dati relativi a 180 fosse comuni in cui si trovano resti di civili e combattenti fatti prigionieri, molte rinvenute in siti segreti e nessuna compiutamente scavata e riportata alla luce. Inoltre include testimonianze di sopravvissuti e di persone che hanno visto gettare i cadaveri degli assassinati nelle fosse comuni, insieme a dettagli su altri crimini di guerra collegati.
Lo studio è stato commissionato all’interno del “Programma di riconciliazione e giustizia” voluto dallo stesso presidente Hamid Karzai nel 2005 ed è stato completato nel dicembre 2011. La commissione che lo ha realizzato, composta di 40 ricercatori impegnati per sei anni, è stata formata e assistita da alcuni dei maggiori esperti di diritto internazionale e di quella che viene chiamata “giustizia transizionale”.
Le notizie che abbiamo sul contenuto di questo lavoro vengono da tre ricercatori e analisti, afgani e internazionali, che hanno lavorato su una grossa sezione del report e hanno fatto queste rivelazioni a condizione di potere mantenere l’anonimato, per timore di ritorsioni e anche perché la Commissione non li ha autorizzati a parlare di questi argomenti in pubblico.
Secondo alcuni attivisti per i diritti umani e diplomatici occidentali, al diffondersi della notizia che il report sarebbe stato sottoposto di lì a poco al presidente afgano, subito alcuni vecchi signori della guerra, tra cui il vice presidente maresciallo Muhammad Qasim Fahim, avrebbero chiesto a Karzai di costringere alle dimissioni l’ideatore e responsabile della ricerca, Ahmad Nader Nadery.
Durante un incontro pubblico lo scorso 21 dicembre 2011, nel quale erano presenti Karzai e alcuni dei massimi esponenti del suo governo, il maresciallo Fahim ha affermato che licenziare Nadery sarebbe stata in effetti una punizione troppo leggera. “Dovremmo semplicemente crivellargli la faccia con 30 colpi di pistola” ha detto, secondo uno dei presenti. Più tardi, Fahim si è scusato per il commento, sostenendo di non avere inteso dire sul serio una cosa simile.
Di fatto, Karzai ha allontanato dal suo incarico Nadery. Ma un portavoce del presidente, Aimal Faizi, ha affermato che è “irresponsabile e falso” dire che il presidente ha licenziato Nadery a causa del report sulle fosse comuni o che voleva cercare di impedirne la pubblicazione. Inoltre, ha aggiunto che le voci sull’incontro pubblico del 21 dicembre con il maresciallo Fahim e gli altri esponenti politici sono “assolutamente prive di fondamento.”
Secondo le parole di Faizi, il signor Nadery ero giunto alla fine del suo incarico, della durata prevista di cinque anni, e il presidente era legalmente autorizzato a sostituirlo: “Questa decisione non ha nulla a che vedere con nessun report dell’AIHRC sulle atrocità di guerra. Siamo convinti che, se c’è veramente un report simile dell’AIHRC, prima o poi verrà fuori e sarà pubblicato”.
Le figure accusate nel report di avere avuto responsabilità nelle uccisioni di massa comprendono alcuni dei personaggi più potenti del governo afgano e delle attuali fazioni etniche, compresi politici dell’Alleanza del Nord che cacciò i Talebani nel 2001.