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Autore: Anna Santarello

L’oppio afghano non abita più qui

ilmanifesto.it Giuliano Battiston 9 giugno2023

ASIA CENTRALE. Dopo il bando promulgato dal leader supremo dei Talebani la riduzione della coltivazione del papavero è «senza precedenti». Cancellato così anche uno dei principali “datori di lavoro” 

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Sull’oppio, i Talebani fanno sul serio: la riduzione «è senza precedenti» e dipende dalla progressiva applicazione del bando promulgato nell’aprile 2022 dal leader supremo, Haibatullah Akhundzada.

I Talebani «sono riusciti a ridurre di oltre il 99% la coltivazione del papavero nella provincia di Helmand, che in precedenza produceva oltre il 50% dell’oppio del Paese». Una situazione simile vale anche «per altre province del sud e del sud-ovest, un’area che di solito coltiva circa l’80% del raccolto totale di papavero dell’Afghanistan». Qui rimangono «solo piccole sacche di coltivazione di papavero nella provincia orientale di Nangarhar». La coltivazione potrebbe essere aumentata in alcune zone del nord-est, come nel Badakhshan, ma è chiaro che «verranno raggiunti i livelli più bassi di coltivazione del papavero dal divieto talebano del 2000/2001».

A SOSTENERLO, grazie a immagini satellitari di precisione e a una pluridecennale esperienza sul campo, è David Mansfield, autore di molte ricerche accademiche e di un libro fondamentale come A State Built on Sand. How Opium Undermined Afghanistan (Hurst), pubblicato nel 2016. Lì Mansfield restituisce l’oppio alla complessa economia politica di cui fa parte, contestualizzando il bando del 27 luglio 2000, al tempo del primo Emirato.

Che ha funzionato. Nell’agosto successivo, infatti, l’Agenzia dell’Onu per la droga e il crimine (Unodc) sforna dati precisi: coltivazione ridotta da 82.000 ettari del 2000 a 8.000 ettari. Nelle aree controllate dai Talebani, da 78.850 ettari a 1.220. I funzionari della Nazioni unite parlano di successo straordinario. Pochi mesi dopo, con il rovesciamento militare del regime da parte degli Stati uniti, «le interpretazioni del bando talebano sulla produzione dell’oppio sarebbero state influenzate dalla narrazione sulla ‘guerra al terrore’ e dalla ‘demonizzazione’ del regime» dei Talebani, scrive nel libro David Mansfield.

IL QUALE, OGGI, ritiene la riduzione del 2023 «senza precedenti». Ne dà conto in un contributo online sul sito di Alcis, azienda specializzata nella raccolta di dati geospaziali. Partendo proprio dallo scetticismo con cui è stato accolto il decreto con cui Haibatullah Akhundzada ha bandito l’oppio. È l’aprile 2022: poche settimane prima, alle ragazze delle superiori viene impedito di andare a scuola. Molti leggono il bando sull’oppio come un tentativo di dirottare l’attenzione. Al contrario, da allora c’è stato «un costante aumento della pressione sulla produzione di droga», contestuale al tentativo di costruire consenso tra le comunità agricole rurali e gli apparati amministrativi. La parola dell’emiro talebano non si fa legge per volontà divina. Passa per politiche amministrative, che incontrano resistenza. In alcune aree, ci sono scontri e morti. Ma il bando viene applicato. «La realtà è che in Afghanistan è stato imposto un divieto effettivo di coltivazione del papavero nel 2023 e la produzione di oppio sarà trascurabile rispetto al 2022».

NEL CORSO DELL’ESTATE del 2022 i Talebani «intensificano gli sforzi contro l’industria della metanfetamina» e mandano segnali inequivocabili sull’oppio proprio nelle province di riferimento di Haibatullah, Helmand e Kandahar. I campi piantati alla fine del 2021, quasi pronti al raccolto, non vengono sradicati per non compromettere l’economia di intere comunità, ma ci si concentra sulle stagioni successive. Un elemento di cui non tengono conto gli esperti dell’Onu. Così, nel rapporto del novembre 2022 dell’Unodc viene detto «che la coltivazione è aumentata del 32% rispetto all’anno precedente, nonostante il raccolto del 2022 fosse stato piantato dodici mesi prima del rapporto e cinque mesi prima che Haibatullah annunciasse il suo piano antidroga». Un piano che per ora funziona. Le immagini satellitari parlano chiaro.

Meno chiare sono le ragioni del bando e i suoi effetti. Nel suo libro, Mansfield attribuisce il bando del primo Emirato al tentativo dei Talebani di uscire dall’isolamento diplomatico internazionale, accreditandosi come interlocutori affidabili. Nel suo recente articolo, anticipa invece le letture dei media: «Si potrebbe sostenere che il divieto sia un vero e proprio atto di zelo religioso, una continuazione degli sforzi di Haibatullah per concentrare il potere, uno sforzo per attirare grandi quantità di assistenza allo sviluppo da parte della comunità internazionale, etc». Qualcuno, come già in passato, ipotizzerà che il bando derivi dalla volontà dei Talebani di monopolizzare il commercio, o di manipolare i mercati. Letture – come quella di Roberto Saviano sui “Talebani nuovi narcos” – molto fragili, che Mansfield lascia con ironia agli esegeti del pensiero talebano.

ANCHE GLI EFFETTI sui consumatori sono difficili da anticipare. «L’ultima volta che i Talebani hanno imposto un divieto, nel luglio 2000 – ricorda il ricercatore – ci sono voluti 18 mesi prima che si registrasse un calo significativo della qualità dell’eroina nei mercati del Regno unito e due anni perché la purezza scendesse dal 55% al 34%». Di gran lunga più preoccupante, per Mansfield, «è l’impatto del divieto sulla popolazione afghana. L’economia dell’oppio è stata a lungo uno dei maggiori datori di lavoro. Nel 2022 avrebbe dato lavoro a 450.000 persone (a tempo pieno) e 1,3 miliardi di dollari di reddito netto agli agricoltori. Il raccolto di papavero nel solo Helmand avrebbe fornito quasi 21 milioni di giorni di lavoro per coloro che si occupano di estirpazione e raccolta, e 61 milioni di dollari in salari nel 2022».

COSA SUCCEDERÀ, ora? C’è coltivatore e coltivatore, spiega Mansfield. I coltivatori con molti ettari potranno capitalizzare, mettendo da parte una percentuale del raccolto in vista di un aumento del prezzo. Altri, invece, ne usciranno con le ossa rotte, dovendo vendere a prezzi bassi. «I proprietari terrieri più ricchi, nel sud e sud-ovest, saranno in grado di coltivare una quantità di grano sufficiente a soddisfare il fabbisogno familiare, e avranno a disposizione terreni per colture da reddito come il cotone, le noci e i meloni». Ma in altre province e per coloro che hanno meno terra non sarà possibile. «Qualcuno passerà a cipolle, aglio, pomodori, ma senza ricavarne reddito sufficiente» per famiglie numerosa. L’emigrazione, allora, diventerà una strategia sempre più importante. «Se il divieto dovesse durare a lungo, i paesi europei potrebbero trovarsi a dover scegliere tra la droga afghana e i migranti afghani».

Afghanistan: Amnesty International denuncia la guerra dei talebani contro le donne

liberopensiero.eu Arianna Lombardozzi 6 giugno 2023

La guerra dei talebani contro le donne: il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere in Afghanistan“. Amnesty International e la Commissione internazionale dei giuristi hanno firmato un rapporto finalizzato a fare luce sulla situazione femminile in Afghanistan. 

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In Afghanistan donne e bambine sono vittime di una politica di restrizione e di discriminazione 

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Chi ha paura delle ragazze istruite?

rsi.ch Francesca Rigotti 2 giugno 2023

Protesta delle donne nigeriane

Quando i terroristi di Boko Haram, nello scorso mese di aprile, hanno organizzato un attacco in Nigeria, il loro bersaglio non è stato una base militare o una stazione di polizia. E’ stata una scuola femminile. Un istituto che non produce armi ma istruisce ragazze. Un incubo per i talebani, che per lo stesso motivo, per il fatto che andava a scuola e scriveva un blog, hanno sparato in testa a Malala Yousafzai quando aveva 15 anni.

Perché i talebani hanno tanta paura dell’istruzione femminile? Perché cambia la società. Perché le ragazze istruite non pensano che il loro compito prioritario nella vita sia quello di sfornare figli per la patria e vivere sottomesse al marito, magari condividendolo con altre spose. L’istruzione femminile riduce il tasso demografico e promuove lo sviluppo economico e culturale di ogni paese.

Ma queste sono cose che succedono in Nigeria, anni luce da qui. Ah sì? Provate a sfogliare un libro uscito in Germania due settimane prima del rapimento delle ragazze in Nigeria. Si intitola Deutschland von Sinnen, («Germania fuori di testa») ed è opera di uno scrittore tedesco di origini turche, Akif Pirinçci (pron. Pirintzi), 55 anni. Vi leggerete che l’aborto è una strage, che le femmine non hanno mai apportato nulla di significativo al progresso dell’umanità e che il senso di essere donna è quello, «naturale», di generare, e tutto il resto deve essere subordinato a tale funzione.  Il libro ha venduto più di centomila copie (almeno a detta dell’editore) e i commenti in rete sono entusiasti.

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Si riaccende la tensione tra Kabul e Teheran

internazionale.it Pierre HaskiFrance InterFrancia 30  maggio 2023

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Per il momento si tratta solo di qualche scaramuccia, seppur con diverse vittime. Ma il conflitto che incombe all’orizzonte tra l’Afghanistan e l’Iran, due paesi vicini le cui relazioni sono piuttosto difficili, è ben più grave. Ognuno dei due governi punta il dito contro l’altro e ognuno ha inviato i rinforzi militari verso la frontiera di 900 chilometri che separa i due paesi. Il rischio di escalation è enorme. 

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L’Afghanistan delle vedove sole

Enrico Campofreda  dal suo Blog 6 giugno 2023

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La vita delle vedove senza figli nell’Afghanistan, ancor più talebano, è un rovo spinoso nel quale districarsi lascia graffi e ferite che restano silenziate. I drammi quotidiani sono talmente tanti che situazioni simili paiono inezie, anche perché risultano una “normalità” diffusa.

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Afghanistan: ottanta studentesse sono state avvelenate

ansa.it 6 giugno 2023

E’ la prima volta che succede da quando i talebani sono al potere.

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Ottanta studentesse sono state avvelenate e ricoverate in ospedale nella provincia di Sar-e-Pul, nel nord dell’Afghanistan.

Si è trattato di attacchi separati in due scuole primarie vicine tra loro, colpite una dopo l’altra.

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Una clinica che va dai pazienti

Per adeguarsi alle nuove proibizioni dei talebani imposte alle donne, OPAWC aprirà un team sanitario mobile che andrà nelle aree rurali a portare servizi medici di base

CISDA, giugno 2023

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 Da clinica stabile a centro sanitario mobile: per andare incontro alle nuove esigenze delle donne e della popolazione, Opawc intende chiudere l’attività della clinica “Hamoon Health Center” finora funzionante a Farah e al suo posto aprire una unità mobile che andrà nelle aree rurali del Paese e fornirà servizi medici di base alla popolazione, con particolare attenzione a donne e bambini.

Il progetto “Hamoon Health Center”, promosso da OPAWC (Organization of Promoting Afghan Women’s Capability) e CISDA e finanziato da OSF – Opera San Francesco dei poveri di Milano, è attivo dal 2008.

Nonostante tutte le sfide di sicurezza, questo progetto è stato un successo in termini di raggiungimento della sua destinazione principale. E’ riuscito a soddisfare i bisogni sanitari di circa 20.000 persone, la maggior parte delle quali donne sposate e giovani ragazze. Anche i bambini sono andati spesso in questo centro per essere curati e hanno ricevuto un’attenzione speciale dai medici esperti del centro.

L’obiettivo della clinica e del progetto era fornire assistenza sanitaria ad adulti e bambini della provincia di Farah, per la maggior parte donne che per anni non erano state in nessun centro sanitario sia per motivi economici e condizioni familiari difficili, sia per mancanza di medici donne che potessero visitarle senza creare problemi alla famiglia, spesso donne sposate che soffrivano di diversi tipi di malattie dovute ai ripetuti parti e alle condizioni estremamente antigeniche dei luoghi di residenza.

Questo progetto sanitario è stato particolarmente utile per gli abitanti della provincia in quanto il 60% dei pazienti proveniva da villaggi lontani e innumerevoli persone che non potevano accedere a medici privati potevano ricevere le cure continuative di medici esperti.

Nonostante le risorse limitate, il tasso di accettazione ha raggiunto i 100 pazienti al giorno, dando la preferenza ai bambini e a coloro che provenivano da villaggi remoti e si trovavano in condizioni critiche.

Farah – una delle 34 province dell’Afghanistan, situata nella parte sud-occidentale del paese vicino all’Iran – è una provincia estesa e scarsamente popolata, divisa in undici distretti e comprendente centinaia di villaggi. La gente di questa provincia è fortemente contraria a che le donne escano di casa e impongono varie pressioni sociali alle donne, già costrette a vivere in estrema povertà e in situazioni difficili.

Le severe limitazioni imposte dai talebani, che vietano alle donne di viaggiare a più di 77 km da casa senza un tutore maschio, hanno fatto sì che molte donne dei distretti più remoti siano state scoraggiate dal cercare assistenza per i loro problemi di salute. Molte hanno manifestato sintomi significativi di disturbi da stress post-traumatico, depressione e ansia. Quasi la metà delle donne visitate riferiva ai medici della morte di uno o più membri della famiglia uccisi in guerra. Anche le condizioni economiche di estrema povertà di queste persone sono state riconosciute come uno dei principali motivi della richiesta di assistenza in questa provincia.

Per questo motivo Opawc ha pensato di chiudere la clinica di Farah e di sostituirla con un team di medici che vanno direttamente sul luogo per andare incontro alle donne impossibilitate a raggiungere un presidio sanitario lontano e mettendosi a disposizione nelle loro zone di abitazione.

 

Il nuovo progetto

Questo nuovo progetto propone un team mobile che andrà nelle aree rurali del Paese e fornirà servizi medici di base alle persone, con particolare attenzione ai bambini con malnutrizione e alle donne incinte. L’équipe sanitaria mobile visiterà anche le aree colpite dai disastri naturali.

Con l’improvviso cambio di governo, la già instabile situazione finanziaria della popolazione è ulteriormente peggiorata. Attualmente le persone non hanno accesso a una corretta alimentazione, all’istruzione, a farmaci e riparo. Mentre la fame minaccia la vita delle persone, i problemi di salute sono diventati ancora più incisivi. L’Organizzazione mondiale della sanità ha segnalato un aumento dei decessi tra donne e bambini dall’inizio del 2022, poiché la maggior parte delle donne non ha accesso ai servizi medici di base. Il governo talebano ha dichiarato che oltre il 60 per cento della popolazione non ha accesso ai servizi medici. Ma mentre gli uomini possono andare dai villaggi alle città per ottenere assistenza medica di base, donne e bambini non hanno tale fortuna e non è insolito che muoiano a causa di malattie comuni come la diarrea e la malaria.

Il progetto mira a fornire assistenza medica di emergenza a persone bisognose in varie province dell’Afghanistan, con particolare attenzione alle donne e ai bambini che non possono ottenere assistenza medica nelle loro zone di abitazione. Inoltre, in casi particolari le donne saranno trasferite, a spese del progetto, dalle aree remote del paese alla città di Kabul per essere visitate da medici o ricoverate in ospedale.

Complessivamente, il progetto sosterrà almeno 20.000 persone nella Provincia di Farah. Il team di progetto creerà un piano e selezionerà le aree più bisognose della provincia, poi l’unità mobile visiterà l’area individuata con le attrezzature necessarie e fornirà i servizi medici alle persone.

Infine, l’Unità sanitaria si avvarrà del personale necessario:

– un manager per supervisionare e gestire le attività del progetto e fornire rapporti al donatore

– due medici, un uomo e una donna, per interagire facilmente con pazienti sia donne che uomini. Verrà assunta una ginecologa per prestare un’attenzione particolare alle donne incinte o con problemi ginecologici

– un infermiere, per assistere i medici, dare istruzioni di base ai pazienti mentre i medici visiteranno altri pazienti, fare iniezioni, assistere i bambini malnutriti

– un farmacista, che aiuterà a somministrare le medicine ai pazienti prestando maggiore attenzione a spiegare l’uso del farmaco poiché la maggior parte dei pazienti è analfabeta

– tre membri di personale di supporto – un impiegato, un addetto alla logistica e una guardia – per supportare l’equipe durante le visite nei villaggi.

Relazioni India-talebani: un attento equilibrio guidato dal pragmatismo

Non solo Cina… Anche l’India cerca di rafforzare il suo posizionamento nell’area centroasiatica attraverso l’avvicinamento all’Afghanistan dei talebani, come si evince da questa analisi

Vinai Kaura, Middle East Institute (MEI), 30 maggio 2023

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Una lotta di potere in corso per la posizione di ambasciatore presso l’ambasciata afghana a Nuova Delhi sottolinea il dilemma diplomatico dell’India sulla natura del suo impegno con il regime talebano in Afghanistan.

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L’inizio del disastro afghano

Un racconto storico sull’inizio del sostegno statunitense ai warlords afghani

Cristiana Cella, giugno 2023

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Khost 1980.

Il buio e la  fatica si portano via le ultime parole stanche dei combattenti. Si sistemano per la notte, posando il fucile accanto a loro, accudendolo come un bambino. La cena, riso , yoghurt e uva, offerta dal comandante Bul Bul, è un miracolo, tra i buchi profondi delle bombe, gli echi di qualche assalto notturno, in quello sperduto villaggio diventato il suo quartier generale. “I Russi sono già passati di qui, per questo è un posto sicuro”. Ci dice. Sorride, con un sorriso che fa quasi luce. “ Quando tornerai, l’anno prossimo, ti farò fare tutto il giro del mio paese su un elicottero russo. Sarà bellissimo e non dovrai più camminare a piedi!” Guardiamo insieme quel piccolo sogno. Nessuno di noi ci crede.

“Davvero, insiste, in un paio di mesi prenderemo Khost”. E’ per questo che siamo qui. La città è in fondo alla valle, la vediamo. Il bersaglio, l’aeroporto, con gli MI24, micidiali elicotteri russi da combattimento,  che luccicano al sole. Abbiamo passato la giornata a spiarne i movimenti. La notte seguente ci sarà battaglia. Bul Bul mi spiega i dettagli dell’assalto all’aeroporto. “Da quella collina potrai vedere bene gli MI24 che saltano in aria”. Come per un programma di fuochi artificiali.

Il comandante Bul Bul fa parte, in segreto, del Fronte Nazionale Unito, una formazione che raggruppa laici, democratici, militanti di sinistra e islamici moderati. Combattono i russi ma anche i gruppi fondamentalisti, che hanno fatto di Peshawar, in Pakistan, la loro sede. Stanno diventando sempre più forti e terrorizzano la popolazione dei villaggi che attraversiamo. Una guerra su due fronti, difficile da reggere con poche armi, soldati contadini, senza esperienza militare e comandanti più abituati ai libri che ai fucili. Così, come altri militanti, Bul Bul sceglie di infiltrarsi in gruppi islamisti ben armati e numerosi, prendere il controllo di un piccolo esercito personale e aiutare altre formazioni che combattono con le sue stesse idee. Ora è un capo rispettato, e porta la sua guerra anche nella mente delle persone. Una preziosa opportunità. Mostra loro il futuro del loro paese, libero, democratico, dove l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne e di afghani  di tutte le etnie sia la base per un futuro di pace. L’antidoto al veleno integralista, venuto da oltre confine, che comincia a circolare. Le sue previsioni sono lucide e puntuali, non c’è spazio per le illusioni. “La guerra sarà lunga e sempre più violenta. Alla fine, i russi se ne andranno. Ma se, al posto loro, arriveranno i mujaheddin, sarà molto peggio. Sono come cani furiosi e fanatici e  si azzanneranno tra loro portando alla rovina  tutto il paese”. Purtroppo è andata proprio così.

Il doppio fronte di guerra si porterà via più di 60.000 militanti. Qualcuno, ancora, in Afghanistan, contrapponendoli ai jihadi, capi delle fazioni fondamentaliste, li chiama “i veri mujaheddin”. E’ nell’ambito di queste famiglie di combattenti che sono cresciuti donne e uomini liberi che oggi,  contrastano i talebani in una impari lotta di resistenza. 

Qualche mese prima, nella primavera del ’79, molto lontano da quelle montagne, nei fumosi uffici della Cia, qualcosa si stava muovendo. Una nuova idea stava prendendo piede. Un’idea che sarebbe costata agli americani alcuni miliardi di dollari.

E’ ai primi di marzo che la Cia trasmette le sue segretissime proposte al presidente Carter per un sostegno ai ribelli afghani anticomunisti. La proposta rimane a lungo sospesa nell’incertezza. Gli Stati Uniti, con la rivoluzione khomeinista, hanno perso il loro appoggio a Teheran e l’idea di rivolgere contro l’Unione sovietica il fondamentalismo agguerrito che si presenta ora sulla scena sembra allettante. Le rivolte contro il Governo comunista, intanto, in Afghanistan, diventano sempre più violente e represse nel sangue.

Carter si convince e il 3 luglio sottoscrive il documento di autorizzazione all’operazione. La Cia avrebbe appoggiato i ribelli ma senza l’invio di armi, per mettersi al riparo da eventuali rappresaglie russe se fossero stati scoperti. Si tratta di poco più di 500.000 dollari in attività di propaganda e psicologiche, apparati radio, equipaggiamenti medici e denaro contante. Tutto, come succederà anche in seguito, sarebbe passato dalle mani dell’Isi (Inter Services Intelligence)  pakistano e del suo governo. “Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, aveva già tracciato le grandi linee di una campagna americana diretta dalla Cia in Afghanistan che sarebbero rimaste in vigore per il decennio successivo”. Scrive Steve Coll, condirettore del “Washington Post”. Brzezinski a Natale ha già chiaro che i ribelli vanno sostenuti, armati e consigliati, utilizzando il Pakistan come mediazione, altrimenti i russi non saranno fermati. E’ questa  la nuova brillante mossa della Guerra fredda.

Ma la svolta militare decisiva arriva nel 1986 per porre fine alla supremazia aerea russa. La Cia fornisce  ai ribelli i micidiali Stinger, lanciamissili contraerei, che si portano comodamente in spalla. L’ideale per la guerriglia tra le montagne. Ne arrivano tra i 2000 e i 2500. Colpiscono efficacemente il  bersaglio con la guida a ricerca di calore. Tra l’86 e l’89 elicotteri e aerei da trasporto russi cadono a centinaia. 

Trovarsi sotto la minaccia degli elicotteri da combattimento MI24 russi non è una bella esperienza. Non puoi fare nulla, non ti puoi difendere. “Nasconditi!” mi diceva il comandante. Ma dove? Intorno solo deserto e arbusti bassi. “Togli gli anelli, chiudi gli occhi , luccicano e possono rivelare la nostra presenza!” Sembrava una superstizione  magica. Le  mani nella terra, gli occhi bassi. Non si poteva fare altro che appiattirsi nella polvere gialla e sperare. La frustrazione dei mujaheddin era enorme. Sparavano contro i mostri al titanio con i vecchi fucili Enfield, pur di non sentirsi impotenti. Gli Stinger rovesciano la situazione e, a sentirsi esposti e vulnerabili saranno i piloti russi, morti a centinaia. I capi fondamentalisti conquistano trionfalmente terreno.

Partiti i Russi, siamo agli inizi degli anni ’90,  la Cia si rende conto che quei missili, che nessuno aveva restituito, sono diventati una mina vagante. Avrebbero potuto essere usati dai terroristi,  contro gli americani. Del resto l’Iran ne aveva già comprati diversi. Sia il presidente George Bush che il suo successore Bill Clinton approvano un programma segretissimo che autorizza la Cia a ricomprare a qualsiasi prezzo tutti gli Stinger sui quali avrebbero potuto mettere le mani. Vengono stanziati decine di milioni di dollari per l’operazione. I warlords, impegnati nella loro catastrofica guerra etnica, accettano di rivenderli al prezzo variabile tra 80.000 e 150.000 dollari al pezzo. In quella guerra strisciante e infida il cielo non è minaccioso e i dollari della Cia diventano la cassa segreta dei signori della guerra, il carburante della distruzione del paese.

Nel gennaio 1998, in un’intervista al “Nouvel Observateur”, Brzezinski rivela: “Avevo spiegato al Presidente che, a mio parere, il nostro sostegno avrebbe prodotto un intervento militare russo in Afghanistan. Non abbiamo spinto l’Unione Sovietica a intervenire ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero”. E continua: “E’ stata un’eccellente idea attirare i russi nella trappola afghana. Il giorno in cui l’Armata rossa ha attraversato la frontiera ho scritto al Presidente che avremmo avuto la possibilità di dare alla Russia il loro Vietnam”. Un vero successo per gli americani. L’inizio di una catastrofe per la popolazione afghana che durerà più di 40 anni.

Alla domanda del giornalista sulla sua responsabilità nell’avere sostenuto il terrorismo islamista Brzezinski risponde: “Che cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o la caduta dell’Impero Sovietico? Qualche esaltato islamista o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?”. L’ipotesi dell’affermazione dell’islamismo integralista e del terrorismo sono sciocchezze, liquida deciso.

In molti hanno seguito la sua strada. Nessuno ha voluto, nei decenni successivi, prendere atto di questo pericolo, nessuno ha voluto fermarli. Anzi, i fondamentalisti islamici si sono confermati le migliori pedine del gioco dell’Occidente in Afghanistan e  in altri paesi. Così sui fanatici e feroci gruppi  afghani pioveranno armi, denaro e  consigli militari per i prossimi decenni a venire. Il loro Islam fondamentalista e politico, ispirato all’ideologia wahabita saudita, la più estrema, si insinuerà nelle menti e nella vita di milioni di persone, cambiando profondamente la società afghana e soprattutto esiliando sempre di più le donne dalla vita sociale.

Eppure qualcuno aveva cercato di avvertire del pericolo. Najibullah, quarto e ultimo Presidente della repubblica Democratica dell’Afghanistan, ucciso, in seguito, barbaramente dai talebani, teneva la posizione anche dopo l’annuncio del ritiro dell’Armata Rossa. Siamo nell’87 e il Presidente fa di tutto per arginare il futuro disastro che seguirà la partenza dei russi. Ai suoi nemici, i mujaheddin islamisti, offre condivisione del potere, promulga una nuova Costituzione liberale. Ma fallisce. I warlords non scendono a compromessi. Porta il suo grido di allarme all’Assemblea generale  delle Nazioni Unite il 7 giugno 1988. Chiede un intervento per fermare i fondamentalisti che, una volta preso il potere, avrebbero scatenato una sanguinosa guerra civile. Nessuno gli da retta e i combattimenti proseguono sempre più feroci. Nessuno tiene fede agli accordi che cerca di mettere in piedi. Nel ’92, ormai rifugiato nella sede dell’Onu, lancia un altro appello disperato alla Comunità Internazionale. Anche questo, ignorato.

Quei warlords, divenuti ormai criminali di guerra, dopo le sanguinose gesta che li avevano visti protagonisti nella guerra civile, sono rimasti saldi al potere, sostenuti dagli invasori americani,  fino all’agosto 21, in cui il paese è stato consegnato ai loro rivali talebani.

Con le conseguenze che tutti possiamo vedere e pochi vogliono guardare.

Un popolo intero è chiuso in gabbia, la miseria uccide la popolazione, la paura fa parte della vita, corrode l’anima e la mente delle persone, la brutalità e l’ignoranza governano il paese con leggi ottuse e paranoiche che seppelliscono le donne, ogni giorno il respiro è più corto.

Di nuovo il fondamentalismo islamico, che non è nato tra queste montagne massacrate da 40 anni di guerra, armato e sostenuto dall’Occidente, di nuovo ha vinto. Quell’idea della Cia, nel lontano ’79, ha fatto strada, mettendo in moto e accompagnando  l’orrore. Tutto questo, forse, Bul Bul, comandante onesto e coraggioso, non lo aveva previsto.

Una versione più corta di questo articolo è pubblicata su “Altreconomia” di giugno 2023 con il titolo Chi ha spianato la strada ai fondamentalisti in Afghanistan

Un Tribunale delle donne per le donne afghane

Alla Casa internazionale delle donne di Roma 8 profughe afghane hanno testimoniato davanti a una Commissione di giuriste che elaborerà un “verdetto”

Antonella Mariani, Avvenire, 30 maggio 2023

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Parisa, Mahoba, Sakina, Madina: donne che hanno lasciato in tutta fretta l’Afghanistan nelle ore concitate della presa di Kabul da parte dei taleban (agosto 2021), e, arrivate in Italia, faticano a trovare una nuova vita. Le loro testimonianze, a tratti drammatiche fino alle lacrime, sono state raccolte sabato scorso in un lungo e intenso pomeriggio alla Casa internazionale delle donne di Roma. La prima seduta del “Tribunale delle donne per i diritti delle donne migranti” è stata una occasione per far parlare loro, le protagoniste, ascoltare il loro dolore e i loro sogni. Che non devono restare tali, però: ne va della civiltà dell’intero popolo italiano. «Sono una chirurga, ho rinunciato a tutto pur di studiare» – ha raccontato Mahoba, profuga in Iran da bambina, ragazza piena di speranze durante il ventennio “filo occidentale” dell’Afghanistan. «Sono scappata da Kabul solo con ciò che indossavo. All’arrivo mi dissero che in Italia c’era molto bisogno di medici, che avrei avuto buone possibilità di lavorare. Non è stato così. Oggi ci concedono di fare la badante o al massimo mediatori culturali. Ma io non voglio buttare via tutti i miei obiettivi. Se non riconoscono le mie competenze di medico, la mia laurea, la mia esperienza, non riconoscono la mia dignità».

Altre profughe hanno sottolineato con disperazione l’impossibilità di riunirsi con un figlio appena maggiorenne, perché la legge consente di far arrivare solo i minori, o con una madre, una sorella. Altre donne hanno evidenziato le difficoltà di essere donne in migrazione, in un Paese molto accogliente ma con tante difficoltà burocratiche da affrontare ogni giorno: il riconoscimento dei titoli di studio, l’inserimento scolastico, la ricerca di un lavoro adeguato. La frattura della loro vita tarda a ricomporsi e questo genera un dolore sordo, che si trasforma in lacrime liberatorie durante il racconto. Una giovane donna ha confessato di sentirsi in debito verso chi è rimasto in Afghanistan: «Noi siamo in salvo, ma non siamo nulla. Loro invece sono in pericolo ma nonostante questo continuano a lottare, scendono in piazza, resistono. A volte rimpiango di non essere rimasta con loro, almeno la mia vita avrebbe un senso».

Il Tribunale delle donne non ha una giuria, ma una Commissione di ascolto, composte da avvocate, docenti di diritto, giuriste, esponenti politiche (presente anche la giornalista di Avvenire): l’obiettivo è redigere, a breve, un “verdetto” utile alle istituzioni (Comuni, Regione, Parlamento, ognuno per le proprie competenze) per sostenere i diritti delle donne in migrazione. Una sorta di giustizia riparativa per quanto hanno subìto, che possa garantire loro il riconoscimento dei titoli di studio, un lavoro consono alla loro preparazione, ricongiungimenti familiari più estesi.

Il progetto del Tribunale delle donne è stato sostenuto dall’8 per mille delle Chiese Valdesi e proposto dalla Casa Internazionale delle donne, con Differenza Donna e Le Sconfinate e l’adesione di diverse associazioni, tra le quali Nove onlus. Proprio la vicepresidente della onlus, Arianna Briganti, ha voluto sottolineare, a commento dell’iniziativa, come «l’inserimento occupazione, rimane uno dei problemi di più difficile risoluzione. Anche per le donne straniere, spesso arrivate in Italia senza i mariti ma con i figli minori, è quasi impossibile lavorare e al tempo stesso prendersi cura dei bambini. Inoltre l’inserimento professionale delle donne migranti viene rallentato se non impedito dal mancato riconoscimento accademico dei titoli di studio»

Le donne straniere in Italia, ha notato Briganti, passano dalla felicità di essere accolti in un Paese che rispetta i loro diritti fondamentali «alla delusione di trovarsi davanti a delle barriere istituzionali e culturali che sembrano insormontabili».