“Le risorse per gli aiuti nelle mani dei corrotti” In Afghanistan la metà gestita dalla mafia

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Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su I RAGAZZI DEL CENTRO CULTURALE DI AFCECO
Mentre per i nostri bambini e ragazzi degli orfanotrofi di Jalalabad e in Pakistan erano le vacanze estive, per i bambini negli orfanotrofi di AFCECO a Kabul e Herat luglio è stato un mese di duro lavoro per preparsi agli esami di metà anno scolastico. Ora stiamo aspettando i risultati, fiduciosi che anche se il nuovo Centro Culturale è partito da appena tre mesi, si vedranno segni concreti dei miglioramenti che il programma del Centro ha già portato nelle prestazioni scolastiche di molti studenti.
Ora siamo nel mese di Ramadan e le scuole pubbliche sono chiuse. Ciò significa che noi abbiamo più tempo per coinvolgere anche i ragazzi delle superiori nelle attività educative e ricreative. Così, mentre continuano il loro percorso scolastico di base grazie alle nostre lezioni aggiuntive e frequentano i corsi di musica e arte, calcio, karate e box, i ragazzi stanno anche organizzando un grande spettacolo che sarà messo in scena a settembre. Lo spettacolo assomiglierà sotto molti aspetti a simili eventi allestiti in passato da AFCECO, ma ora stiamo lavorando per migliorare la qualità delle prestazioni di recitazione, musica, declamazione oratoria e dibattito, poesia e gare su argomenti di storia. Stiamo pensando di fare una campagna di raccolta fondi negli USA l’inverno prossimo, che potrebbe comprendere eventi nei quali si esibiscano i nostri ragazzi.
Sempre più, a mano a mano che i ragazzi progrediscono nel loro percorso educativo, ci rendiamo conto del grande valore delle esibizioni pubbliche. Questo mese abbiamo avuto l’onore di ospitare nel nuovo Centro Culturale due spettacoli di Mashal Arman. Mashal Arman è una cantante lirica di professione; vive in Svizzera ed è figlia del più grande cantante afgano, Ustad Arman.
Nel primo concerto che ha tenuto da noi, Mashal ha cantato una selezione di brani classici da opere molto famose, accompagnata al pianoforte dalla pianista italiana Adriana Mascoli, che insegna attualmente all’Istituto nazionale afgano di musica.
Nel suo secondo concerto, Mashal ha suonato l’armonium, accompagnata dai nostri allievi dei corsi di tabla e rabab, e ha cantanto alcune canzoni tradizionali afgane.
Questi concerti sono stati vissuti dai nostri ragazzi come un vento di mondanità penetrato improvvisamente attraverso una porta lasciata aperta. Lo si poteva vedere dai loro volti accesi, stupiti, sorridenti mentre assistevano a questi concerti di altissima qualità e ascoltavano questo tipo di musica per la prima volta nella loro vita. E non era solo questo: davanti a loro si esibiva una virtuosa della musica afgana.
Questo è esattamente quello che pensavamo di fare avverare, quando abbiamo deciso di istituire un Centro Culturale e non semplicemente una scuola: un auditorium per oratori di talento, artisti, musicisti, danzatori e registi cinematografici, come pure un luogo in cui proiettare film di qualità e magari anche fare vedere in diretta grandi eventi sportivi, come i Mondiali di calcio. Pensavamo a un posto vibrante di iniziative che i ragazzi non avrebbero dimenticato più.
Considerate che la maggior parte della gente in Afghanistan non ha mai visto un pianoforte, e tantomeno ne ha mai sentito uno suonare. Per tutta la vita questi ragazzi si ricorderanno di questi anni e della molteplicità di esperienze che hanno vissuto al Centro Culturale. Queste esperienze non potranno mai essere loro strappate, cancellate o diminuite da qualsiasi forza repressiva possa continuare a schiacciare la società afgana. I pilastri della missione educativa di AFCECO sono coltivare la libertà di pensiero, lo scambio e la condivisione di idee; aiutare i ragazzi a costruire la propria personalità, la fiducia in se stessi, le competenze pratiche e intellettuali utili per la vita; e infine, sviluppare nei ragazzi la capacità di innamorarsi della bellezza di imparare. Questi concerti sono solo uno dei passi che stiamo facendo verso questi obiettivi. Grazie infinite, Mashal, per averci regalato questi ricordi per sempre.
E un ringraziamento speciale a Richard Riess, un buon amico e un sostenitore di AFCECO che recentemente ci ha donato una significativa somma di denaro per diminuire il peso dei nostri gravosi impegni finanziari. Se non fosse stato per la sua generosità e fiducia, quest’anno avremmo avuto serie difficoltà. Ora abbiamo tempo di organizzare delle campagne di raccolta fondi da svolgere nei prossimi sei mesi, per prepararci a fare fronte alle spese che avremo l’anno prossimo.
Ci appelliamo a voi e ai vostri amici in Afghanistan e in tutto il mondo affinché continuiate ad aiutarci a fare in modo di arrivare a questa tranquillità finanziaria.
I nostri migliori auguri per tutto e un enorme grazie da parte dei circa 700 ragazzi che stanno crescendo e fiorendo nel modo proposto da AFCECO.
Dalla newsletter di AFCECO (vedi anche il Blog di Ian Pounds, Facebook, Youtube)
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su AVVOCATE A KABUL
Li vediamo schizzare nelle città su belle macchine, arringare in tribunale, indagare al fianco di fascinosi poliziotti, rilassarsi in ristoranti alla moda, risolvere efferati delitti e banalità quotidiane. Sono gli avvocati, protagonisti di molte serie e film televisivi: avvocati a New York, a Las Vegas, a Londra, a Roma, Parigi. Ma cosa vuole dire essere avvocati a Kabul? O meglio avvocate?
Decisamente è un altro mondo. Ce lo racconta Selay Ghaffar, presidente di Hawca. Anche le avvocate di Kabul si muovono in macchina, o meglio in vecchi pulmini in grado di portare almeno sei persone. Non guidano, sarebbe una pericolosa provocazione anche a Kabul, altrove nel paese, è inconcepibile. L’autista è anche una sorta di guardia del corpo, indispensabile: è rischioso per una donna muoversi da sola, a maggior ragione per un’avvocata. «I nostri avvocati sono tutte donne, prima di tutto perché vogliamo promuovere il loro lavoro e la loro competenza, e poi, perché solo una donna capisce veramente i problemi delle altre».
Solo di una donna le ragazze in difficoltà si fidano. «Negli uffici dei Centri Legali, a Kabul, Herat, Jallalabad. le donne arrivano dopo molte peripezie, con un carico pesante. Sono spaventate, confuse, sole. Arrivano dalla città o da villaggi sperduti. Le avvocate accolgono, i gesti, le parole della loro vita che raccontano spesso per la prima volta, che emergono con difficoltà. I problemi con cui hanno a che fare tutti i giorni sono matasse intricate, fatte di mille altri problemi e il cammino per uscirne è una corsa a ostacoli, tra nemici brutali. Le avvocate ascoltano e cercano di mostrare quella piccola luce in fondo al tunnel, la speranza di farcela. Poi si comincia a sbrogliare la matassa. Per ognuna di loro sarà una battaglia sfibrante, combattuta su più fronti. Devono capire, prima di tutto, se la donna è in pericolo nella sua famiglia, se deve essere allontanata e protetta. Se è malata devono trovare il modo di curarla, facendosi aiutare dai medici amici che curano gratis. Non ce ne sono molti. Poi devono esplorare le possibilità di vita, le risorse disponibili. I pilastri fondamentali della sopravvivenza: dove stare, con chi, come mantenersi. Se è necessario le ospitano nelle ‘case protette’. Se vogliono. Alcune rifiutano, in genere per non lasciare i figli. Se tornano in famiglia, bisogna trovare il modo di proteggerle mentre si cerca di risolvere il caso, in tutti i suoi aspetti. Gli attori del dramma sono molti. Lavorare con loro richiede diplomazia, capacità di persuasione, fermezza. Interrogare, convincere, mediare, trovare un compromesso».
Viaggiano molto le avvocate di Kabul. Si spostano nell’esasperante traffico della città, nelle pozze di fango, tra le voragini di detriti, nella polvere onnipresente di 30 anni di distruzione. Tra le baracche improvvisate, nelle case di terra, arrampicate sulle colline che dividono la città, negli spettri di case distrutte dove la gente abita, e nelle ricche ville kich, in stile ‘narcobarocco’, come viene chiamato. Oppure affrontano lunghi viaggi, spesso pericolosi, su strade insicure, per raggiungere i villaggi di origine delle loro assistite, per discutere con le famiglie. E’ questo il primo fronte sul quale si combatte la battaglia per ogni donna che chiede aiuto. Ci vanno spesso le avvocate, molte volte, per ogni caso. Parlano con mariti, padri, fratelli, cognati, suoceri. Le donne che hanno avuto il coraggio di parlare sono evidentemente a rischio. A volte, quando trovano collaborazione, coinvolgono la polizia locale, perché sorveglino gli uomini, perché non si sentano più impuniti nei loro abusi quotidiani.
Non sono interlocutori facili. Possiamo immaginare l’accoglienza che ricevono quando bussano alla porta. «Se vieni da fuori nessuno ti rispetta,» racconta Selay- «a maggior ragione perché sei donna, ancor di più perché sei magari di un’altra etnia. Una tagika, ad esempio, non può permettersi di discutere le leggi tradizionali dei pashtun, per loro è estranea, nemica. E, soprattutto, sei lì per difendere i diritti della moglie, cerchi di ottenere il divorzio, di portargliela via, di rovinare la sua famiglia e il suo onore, di accusarlo. E’ una fase molto rischiosa per le nostre avvocate. Sono continuamente in pericolo, minacciate, insieme ai loro parenti».
La battaglia continua sull’altro fronte, quello legale, che si combatte nei tribunali. Anche qui gli ostacoli non mancano. Alleati? Pochissimi. Qualche giudice onesto che ancora resiste, alcune leggi forse. «Usiamo tutte le leggi possibili per vincere le cause. Quelle giuste sono poche ma, se usate bene, possono proteggere le donne». Ci sono diritti, come l’uguaglianza di uomini e donne di fronte alla legge, sanciti nella Costituzione Afghana, c’è il Cedaw, ad esempio, la Convenzione per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne, che l’Afghanistan ha sottoscritto, primo tra i paesi musulmani, nel 2003. Il problema è che quasi nessuno le applica, nessuna autorità obbliga i giudici a farlo.
«I giudici sono parte, in genere, del sistema di potere fondamentalista dei warlords che governano il paese, obbediscono a loro, molti sono addirittura criminali. La mentalità è la stessa dei talebani. Sono quasi tutti contro i diritti delle donne in modo pregiudiziale. Considerano la donna colpevole di portare vergogna e separazione nella famiglia, passibile di arresto se è scappata da casa, di adulterio se è stata stuprata». E, come se non bastasse, L’Afghanistan è uno dei paesi più corrotti al mondo. Nella giustizia è prassi comune. A un marito bastano pochi afghani per comprarsi una sentenza. E allora, non si vince mai? «Sempre. Finora non abbiamo mai perso».
Ma come fate? «Le nostre avvocate sono molto testarde», sorride Selay. Se la causa si perde, non si scoraggiano. Ne intentano una nuova, ancora e ancora, finché riescono a far prevalere la legge. «E’ l’unica arma, seppure spuntata, che abbiamo». Ad esempio, nel caso della piccola Basera, una delle ragazzine sponsorizzate dai nostri lettori, sono riuscite a far arrestare lo stupratore. E hanno ottenuto il divorzio per Fahema e Saniya. Vincere una causa non significa la fine del lavoro né il riposo sugli allori. La puntata non finisce qui, come nei telefilm. E’ solo il primo passo. La strada è tutta in salita per una donna divorziata, vedova, ragazza o bambina, fuori dalla famiglia. Non possono certo abbandonarle adesso. Devono aiutarle a costruirsi una vita possibile. A sfuggire altre trappole matrimoniali, a evitare la vendetta dei parenti, a ottenere la custodia dei figli, a trovare un posto dove stare e il denaro per vivere.
Selay scuote la testa. Ogni caso è diverso e così complicato a volte che per lei è difficile spiegarmelo. Le insidie saltano fuori dappertutto e i casi nuovi continuano ad arrivare. «E’ qui che gli sponsor diventano fondamentali. Per rompere la totale dipendenza che rende la donna schiava degli uomini e delle famiglie. Perché possa avere qualcosa di suo da mettere in campo nel gioco della sua vita. Un piccolo stipendio, in un anno in cui l’assistiamo, può diventare la salute, un lavoro, la scuola, una formazione, la sicurezza. Può fiorire in tanti modi». Ma l’impegno delle avvocate afghane non è ancora finito. Risolvere i casi, la vita delle loro assistite, non è ancora abbastanza, ci spiega Selay. «Dobbiamo lavorare anche sul piano politico. Se non combattiamo con i referenti politici sulla questione dei diritti delle donne il nostro lavoro non vale niente. Abbiamo bisogno di leggi più giuste, che siano applicate, sono le nostre uniche armi e devono funzionare in tribunale. Non possiamo limitarci a fare dei progetti e basta. Vogliamo che il nostro diventi un paese libero in cui i diritti di tutti siano rispettati».
Questo significa una costante vigilanza sulle mosse del Governo e del Parlamento. Fronteggiare la spinta fondamentalista sulla giustizia. Una tenace opposizione alle leggi ingiuste, che negano i diritti delle donne e la difesa di quelle che invece possono farle vincere in tribunale. E significa organizzare incontri con le colleghe, con le Organizzazioni Umanitarie internazionali, discutere, allearsi, proporre, opporsi. «A volte abbiamo meetings dalle otto del mattino a mezzanotte». Sospira Selay. Le avvocate a Kabul, non hanno molto tempo per rilassarsi. Ma ogni minuto della loro complicata giornata per essere fiere di se stesse.
PERCHE’ TANTA VIOLENZA CONTRO LE DONNE IN AFGHANISTAN?
E’ una domanda che le persone fanno spesso qui da noi, quando ascoltano, annichiliti, il racconto dell’inferno delle donne afghane. Ecco la risposta di Selay. «Io vengo spesso in Europa e negli Stati Uniti e per me è penoso ascoltare l’opinione di molti media occidentali, anche di quelli che lavorano per la cosiddetta stampa democratica. Secondo loro, me lo ripetono spesso, la ragione per la quale siamo vittime di violenza è la cultura afghana. Perché donne e uomini sono ignoranti e seguono tradizioni barbare. Ma non è così. Noi riceviamo donne da ogni parte dell’Afghanistan, di tutti i gruppi etnici e sociali, anche donne molto istruite che non vivono in famiglie tradizionali, magari hanno mariti che sono vissuti all’estero, tornano in patria e commettono violenza. Prima di tutto, sono convinta che la violenza contro le donne sia un fenomeno globale che riguarda tutto il mondo, in tutti i continenti. Per la mia esperienza, viaggiando molto all’estero e avendo continui contatti con organizzazioni in tutto il mondo, sono arrivata a questa constatazione. Le ‘case protette’ ci sono dappertutto e dovunque sono necessarie e piene di donne. Siamo in contatto con altri shelters, non solo in India e in Pakistan, ma anche in Europa, ad esempio in Danimarca e a Milano, professioniste che ci hanno aiutato nel nostro lavoro. In tutti questi posti la violenza contro le donne è simile. L’unica differenza è che qui c’è il sostegno della legge e da noi no. In Afghanistan, dopo tanti anni di brutalità e di guerra, le condizioni di vita della gente sono disastrose e questo imbarbarisce le relazioni. Ma la violenza contro le donne sta aumentando sempre di più soprattutto perché è tollerata e sempre più impunita. La cosa peggiore, che uccide la speranza, è che le donne non hanno giustizia. Le persone che formano il nostro attuale governo sono fondamentalisti hanno commesso crimini di guerra, hanno distrutto il paese e hanno violato i diritti umani di uomini donne e bambini.
Questa gente vuole mantenere il proprio potere anche attraverso l’oppressione delle donne, controllare la vita di metà della popolazione. E non ha nessuna intenzione di applicare leggi che glielo impediscano e che si rifiutano di riconoscere. La giustizia è nelle loro mani. Il parlamento è pieno di partiti conservatori che varano leggi contrarie ai diritti delle donne. Ad esempio, La Suprema Corte, formata da moullah tra i più integralisti, sta lavorando, adesso, a un progetto disastroso per formalizzare e far diventare legge dello Stato il sistema tradizionale legale, le jirga, nel quale le donne sono schiave dei loro mariti e delle loro famiglie e i loro diritti non esistono. Se passasse sarebbe una tragedia: non avremmo più nessun modo per salvare le donne che ci chiedono aiuto».
L’allarme sulla giustizia che esclude le donne dai propri diritti, è stato lanciato anche da Nader Naderi, commissario di AIHRC, Afghanistan Independent Human Rights Commission: «Finché non verranno applicate le leggi fondamentali, il flagello della violenza non potrà essere eliminato. È necessario che anche nelle scuole religiose s’insegni il rispetto per le donne».
Cristiana Cella, L’Unità, 2 agosto 2011
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su Il tradimento dell’Occidente
Discorso di ringraziamento di Said Mahmoud Pahiz, rappresentante del Partito Afghano della Solidarietà (HEZB E HAMBASTAGI Afghanistan), per essere stato invitato alla conferenza L’altro Afghanistan, organizzata dal partito tedesco Die Linke a Berlino il 28 e 29 gennaio 2011.
Cari amici del Partito della Sinistra tedesco,
prima di tutto voglio esprimere la gratitudine del Partito Aghano della Solidarietà verso il Partito della Sinistra tedesco perché solitamente in conferenze simili a questa sull’Afghanistan sono invitati una rappresentanza di criminali e fondamentalisti anti-democratici, mentre voi avete invitato un rappresentante di un partito anti-fondamentalista che lotta per la democrazia. Questa conferenza è stata probabilmente l’unica nella quale non fosse invitato nessun criminale afghano. Per questa ragione avete sicuramente guadagnato il plauso e il riconoscimento della gente dell’Afghanistan.
Poiché la maggior parte dei nostri amici invitati qui hanno parlato della catastrofica situazione dell’Afghanistan di oggi e delle ineguagliate disgrazie che hanno travagliato la nostra terra, io preferisco dilungarmi meno sulla situazione contingente – sugli esempi concreti della criminalità rampante, dei saccheggi, dei tradimenti, della corruzione e della “mafia-zzazione” della nostra società nella sua interezza- e piuttosto parlare di più del bisogno reale di una forza democratica presente nel paese, e del tradimento che è stato perpetrato nei riguardi di tutti coloro che anelano alla libertà per mano dei poteri occidentali nel corso dei tre decenni passati.
È oggi chiaro a tutti che nel nome della “guerra contro il terrorismo” l’Afghanistan è praticamente diventato terra di nessuno al centro di conflitti portti avanti da guerrafondai e paesi prepotenti, e si trova in una situazione peggiore che nel 2001.
A seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan [1978, N.d.T.], gli Stati Uniti e l’Occidente cominciarono a far fuire fiumi di finanziamenti nel nostro paese. Fu in quel periodo che, secondo quanto espressamente detto dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli USA Mr. Brzezinski, gli Stati Uniti videro il fondamentalismo islamico come “il più forte bastione contro il comunismo”, e così iniziarono a sostenere e armare i gruppi fondamentalisti in accordo con il governo pakistano e attraverso l’apparato dei servizi segreti pakistani che funzionava da collettore.
I gruppi fondamentalisti che fecero la parte del leone furono il Partito Islamico di Golbodin (Hezb-i-Islami), la Società Islamica di Rabbani (Jamiat-i-Islami) e l’Unione Islamica di Sayyaf (Ettehad-i-Islami), che si avvantaggiarono della generosità della CIA e quindi si svilupparono diventando entità enormi e mostruosamente dedite al crimine. Fu durante questo periodo che la CIA reclutò Al-Qaeda e i Talebani come forze al proprio servizio nella regione. Nello stesso tempo anche l’Iran cominciò a foraggiare i partiti fondamentalisti afghani legati ai Guardiani dei Giuristi Islamici (Vilayat-e-Faqih) e di conseguenza, nel giro di pochi anni, l’Afghanistan diventò un centro per terroristi islamici fondamentalisti.
Fin dall’inizio, queste forze sinistre e criminali teorizzarono l’equazione “democrazia = regime degli infedeli” e scatenarono la loro guerra contro le forze afghane democratiche e liberali e contro le donne. In questa guerra essi furono finanziati degli USA e dall’Occidente.
Durante la resistenza contro i sovetici, i combattenti per la libertà afghani – che a un certo punto erano molto più forti e molto più organizzati dei fondamentalisti, nella arena politica afghana – furono costretti a combattere contro due nemici su due fronti diversi: da un lato, i Russi e il loro regime fantoccio, che decimarono le forze liberali richiudendo sistematicamente centinaia di cittadini nelle loro prigioni; dall’altro lato, i fondamentalisti, che non persero occasione per assassinare ed eliminare fisicamente tutti coloro che professavano posizioni liberali. Con la benedizione dei servizi segreti pakistani (ISI), il partito di Golbodin allestì numerose e orribili prigioni segrete in Pakistan, nelle quali mandò a morire intellettuali, dissidenti e attivisti contro il fondamentalismo.
Il mondo se ne stette zitto, mentre questi personaggi facevano carneficine in Afghanistan. La signora Cheryl Benard, analista ebreo-svizzero-americana per la RAND Corporation e moglie di Zalmay Khalilzad, americano di origini afghane e massimo rappresentante della politica statunitense in Iraq e Afghanistan sotto George Bush, ha ammesso “All’inizio tutti pensavano che non ci fosse modo di battere i sovietici. Così l’unica cosa che potevamo fare era mandare avanti i peggiori pazzi criminali che potavamo trovare, e questo causava molti danni collaterali. Sapevamo esattamente chi erano questi personaggi e che cosa erano le loro organizzazioni, ma non ci importava. Allora, abbiamo permesso loro di sbarazzarsi dei tutti i leader moderati, semplicemente di ammazzarli. La ragione per cui non abbiamo oggi leader moderati in Afghanistan è perché noi li abbiamo fatti ammazzare tutti quanti da quel gruppo di pazzi criminali svitati. Loro si occuparono di uccidere i loro oppositori: uomini di sinistra, moderati e uomini di centro. Gli uomini di queste posizioni politiche furono semplicemente eliminati, durante gli anni Ottanta e negli anni successivi” [estratto da Robert Dreyfuss, Devil’s Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam, American Empire Project, 2005, pp. 291; corsivo aggiunto].
Quando nel 2001 gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan, i loro leader affermarono che avevano imparato la lezione dal passato e quindi non avrebbero più sostenuto i fondamentalisti. Ma questa era una enorme bugia, poiché tutti noi abbiamo visto con i nostri occhi che fin dal primo giorno dell’invasione gli USA hanno appoggiato al potere le bande criminali dell’Alleanza del Nord e hanno sostenuto Sayyaf, Rabbani, Qanuni, Abdullah, Ismail Khan, Khalili, Mohaqiq, Fahim e altri fondamentalisti con le mani intrise di sangue, mettendoli al governo del nuovo regime fantoccio. Di fatto, questa è stata la seconda volta che l’Occidente ha tradito il nostro popolo. Grazie al potere delle sue armi moderne, l’Occidente ha messo il destino dell’Afghanistan nelle mani di assassini, criminali e oscurantisti. L’Occidente ha capito che solo i fondamentalisti erano pronti, come schiavi ubbidienti, a entrare a servitù dell’Occidente in cambio di soldi e potere, sacrificando l’interesse nazionale dell’Afghanistan all’altare degli interessi dei loro signori e padroni.
La guerra attuale condotta dagli USA e dall’Occidente contro i Talebani è, ai nostri occhi, la guerra del signore contro i suoi servi di un tempo. Così come fin dall’inizio i talebani furono portati sulla scena, finanziati ed equipaggiati dall’Occidente, allo stesso modo prima o poi essi avranno accesso al governo da operetta di Kabul – non si stanno lesinando gli sforzi per portarli all’ovile. I talebani sono un’entità pericolosa e venale che non potrà mai rappresentare il nostro popolo.
Un’entità medievale come i talebani non ha alcuna presa sul popolo afghano né può portare avanti alcuna speranza per conto degli afghani. I crimini commessi dagli USA e la corruzione e l’impotenza del governo da operetta di Karzai li hanno rinvigoriti. Se in questo momento i Talebani stanno combattendo contro gli USA e la NATO, nello stesso tempo sono in combutta con loro e in pratica una parte dei finanziamenti mandati dagli USA e dall’Occidente per la ricostruzione dell’Afghanistan finisce nei loro forzieri; e il denaro prestato a loro dal regime sanguinario dell’Iran e dal governo pakistano viene opportunamente ignorato. Quei partiti politici e quelle organizzazioni occidentali che considerano i Talebani una “forze di resistenza” o una forza “anti-imperialista” meritano solo di essere ricorperti di ridicolo, dal momento che semplicemente non capiscono che una entità fascista, reazionaria fin dal suo midollo non potrà mai essere una “resistenza” o una forza “anti-imperialista”.
Mentre l’Occidente, con in testa gli USA, continua a commettere crimini e imbrogli contro l’Afghanistan, negli ultimi dieci anni non sono stati lesinati sforzi per impedire che una forza realmente democratica e antifondamentalista sorgesse nel paese e prendesse l’iniziativa. E mentre i partiti fondamentalisti e i loro uomini si sono messi in tasca miliardi provenienti dagli aiuti occidentali, non c’è stato il minimo sostegno alle organizzazioni per la democrazia e ai loro rappresentanti. Al contrario, è stato permesso che nel paese si affermasse un’atmosfera di intimidazione, di minaccia e di prepotenza verso queste forze. Questo tipo di politica occidentale è stata portato avanti non solo in Afghanistan, ma anche in Irak. L’Occidente cerca di schiacciare e spazzare via ogni mente progressista e liberale in questi paesi, allo scopo di potere controllare questi paese senza fastidiosi mal di testa, attraverso un manipolo di mercenari e spie locali.
Gli elementi liberali e progressisti hanno sofferto i peggiori sacrifici negli scorsi trent’anni e un numero inimmaginabile dei migliori e più appassionati patrioti sono stati annientati. Ma la storia è testimone che in nessun paese gli aggressori sono stati mai capaci di tenere asservita una nazione per sempre, attraverso traditori e forze oscurantiste. Oggi il nostro paese si deve ancora confrontare con vari nemici: criminali forze fondamentaliste afghane (i Talebani e l’Alleanza del Nord), occupanti stranieri e, in tandem con l’Occidente, la lunga mano criminale dei paesi confinanti, Iran e Pakistan in particolare, che lavorano duro contro l’Afghanistan.
Solo un movimento di liberazione anti-fondamentalista può dare l’indipendenza, la libertà e la democrazia al nostro popolo. Oggi, più che mai in passato, esiste un fertile terreno perché le organizzazioni che aspirano a creare un simile movimento possano fare un lavoro dal basso, tra le masse. Per contro, il popolo afghano nutre un profondo odio verso i fondamentalisti e gli invasori, per cui queste forze malvage non hanno alcun supporto popolare su cui fare affidamento, ed è solo attraverso il potere delle armi, dei soldi e del sostegno degli USA e dell’Occidente che riescono a governare.
È per rispondere a questo bisogno sociale che è stato fondato il Partito Afghano della Solidarietà. Nonostante il Partito della Solidarietà non abbia ricevuto alcun aiuto o assistenza da nessun paese o istituzione nel mondo, e nonostante la miriade di difficoltà e di costrizioni cui ha dovuto fare fronte, e nonostante le minacce, le violenze e le intimidazioni subite dai suoi nemici, il suo messaggio di democrazia e indipendenza è stato accolto con adesione dal popolo afghano e le nostre esperienze con la gente di questi ultimi anni sono state molto incoraggianti. Se da un lato siamo sotto il pugno repressivo del governo mafioso di Karzai, dei signori della guerra, dei Talebani e dei loro portaborse, dall’altro godiamo di un incoraggiante benvenuto da parte del nostro popolo, e nel potere del popolo noi abbiamo un’assoluta fede.
Il nostro partito accusa gli USA e l’Occidente di commettere crimini contro la nostra gente e di continuare a tradirla. A causa dei loro interessi economici, politici, strategici e militari, gli USA e l’Occidente, che non attribuiscono alcun valore al benessere della nostra gente, si sono alleati con i nostri più sordidi nemici. Sono ormai in milioni a chiedere il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan. Con il loro ritiro, i loro pupilli afghani resteranno orfani e perderanno il supporto che li ha sin qui sostenuti, e il popolo afghano si dovrà confrontare non con la potenza degli USA e dei loro alleati NATO con il più sofisticato arsenale di armi al mondo, ma con un pugno di criminali e traditori afghani. Questo renderà molto più facile la nostra lotta per la libertà.
Noi crediamo che, per ingannare l’opinione pubblica nei loro paesi, gli USA e l’Occidente parlano di ritiro delle loro forze dall’Afghanistan entro il 2014, ma in realtà gli USA vogliono mantenere Afghanistan come loro principale base strategica per sostenere la loro posizione globale, esercitare il loro potere e tenere a bada i loro rivali asiatici (Russia, Cina, India, Iran). Gli USA non rinunceranno all’Afghanistan tanto facilmente, a meno che non siano cacciati per mano della nostra gente.
Il Partito Afghano della Solidarietà sta lavorando per mobilitare un grande movimento per la democrazia e contro il fondamentalismo. Questo grande movimento sta guadagnando tanto più consenso tra la popolazione afghana quanto più vengono portati avanti gli insidiosi “grandi giochi” dei poteri occidentali e i crimini commessi dai loro lacchè nel nostro paese. Negli ultimi anni la nostra gente ha più volte organizzato manifestazioni contro i selvaggi massacri di civili afghani da parte delle forze USA e NATO. In qualità di forza politica progressista, noi consideriamo nostro dovere guidare questo risentimento popolare e questa indignazione e farlo confluire in un movimento nazionale anti-fondamentalista e anti-occupazione. Questa è l’unica soluzione possibile alla situazione che si è venuta a creare nel nostro paese. Nessuna nazione nella storia mondiale è mai riuscita a ottenere la liberazione e l’emancipazione senza la lotta e l’insurrezione popolare.
Il nostro partito attribuisce un grande valore alla solidarietà internazionale delle forze democratiche e progressiste. Noi chiediamo che le forze contrarie alla guerra in Germania, e tutti coloro che difendono la giustizia e la libertà, non si dimentichino dei loro compagni in Afghanistan. Il nostro appello a voi è questo: se i vostri governanti sostengono più sanguinari nemici della libertà e della democrazia, siete voi, insieme alle forze della vostra base, che noi interpelliamo per avere fattivo sostegno al Partito Afghano della Solidarietà; siete voi coloro da cui ci aspettiamo che giochino un ruolo positivo nella lotta della nostra gente per l’emancipazione dalla morsa della tirannia e dell’ignoranza.
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su Afghanistan. Ancora attacchi contro edifici governativi
Rinascita, 28/7/2011 di Ferdinando Calda
Continua senza sosta l’offensiva talibana in Afghanistan contro le truppe straniere e il governo di Kabul. Ieri mattina sono stati presi di mira alcuni uffici governativi di Tirin Kot, capoluogo della provincia centro-meridionale afgana di Uruzgan, a nord di Kandahar.
Un commando armato composto da sei persone, tra cui almeno tre attentatori suicidi, hanno attaccato gli edifici che ospitano gli uffici del vicegovernatore e del capo delle forze di sicurezza locali, ingaggiando accesi scontri a fuoco con le forze di sicurezza. Il bilancio è di almeno 20 morti e una quarantina di feriti. Tra le vittime anche alcuni civili, tra cui un giornalista locale che lavorava per la Bbc e, sembrerebbe, un bambino.
“Ci sono state due esplosioni nell’ufficio del vice governatore. Una è stata provocata da un attentatore suicida e l’altra da un soldato Ana (l’esercito afghano ndr) che ha sparato contro un altro attentatore suicida”, ha raccontato il portavoce dell’esercito Hekmatullah Kuchi.
“Il secondo attentato suicida – ha continuato Kuchi – si è verificato a circa un chilometro di distanza, nella base del comandante Matiullah Khan, che non è rimasto ferito”. Matiullah Khan è il capo di una milizia locale privata composta di circa 2mila uomini che assicura la protezione dei convogli Nato nella regione. Inoltre, è il nipote dell’ex governatore dell’Uruzgan, Jan Mohammad Khan, stretto collaboratore del presidente Karzai, assassinato il 17 luglio a Kabul.
Da quando i talibani hanno iniziato la loro offensiva di primavera, sono stati diversi gli attentati contro le forze di sicurezza di Kabul e gli uomini di governo, accusati di essere collaborazionisti delle truppe straniere.
Il giorno prima dell’attacco di ieri, un attentatore suicida ha ucciso il sindaco di Kandahar, Ghulam Haidar Hameedi. Si tratta delle terza vittima di alto profilo nella provincia di Kandahar nel giro di due settimane. Il 12 luglio, infatti, è stato ucciso Ahmad Wali Karzai, controverso fratellastro del presidente Hamid Karzai, mentre neanche una settimana dopo è stata la volta di un suo stretto collaboratore, Jan Mohammad Khan. Lo stesso Hameedi era considerato uno dei possibili candidati a succedere, come presidente del consiglio provinciale, al potente Wali Karzai, vero e proprio boss di Kandahar.
Uccisioni che assestano un duro colpo alla già debole autorità del governo Karzai, in un periodo particolarmente delicato per l’Afghanistan. Gli Stati Uniti e i loro alleati, infatti, sono impazienti di ritirare il grosso dei loro contingenti e di lasciare a Kabul l’onere della sicurezza, almeno nelle zone considerate più “tranquille”. Allo stesso tempo gli insorti incalzano le truppe Nato e le forze afgane, galvanizzati dell’imminente partenza dei militari stranieri e decisi a presentare il ritiro come una fuga e, quindi, una loro vittoria sugli invasori.
A questo si aggiungono le divisioni interne al governo di Kabul (con le minoranze hazara e tagika contrarie a qualsiasi apertura ai talibani) e la corruzione diffusa che domina tutti gli aspetti della società, rendendo ancora più difficoltosa la creazione di una rete amministrativa efficiente e di un esercito e una polizia all’altezza dell’arduo compito che dovranno affrontare.
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su Stati Uniti, milioni di dollari del governo nelle mani dei talebani
Fondi governativi americani, ammontanti a 3,3 milioni di dollari, sono finiti nelle mani dei talebani afgani. Come è potuto accadere lo spiega un’inchiesta del Washington Post, che ha riportato i risultati di una lunga indagine condotta a livello militare.
La quota rientrava in una somma che il governo statunitense aveva stanziato verosimilmente per promuovere un giro di affari in Afghanistan nel settore dei trasporti. Il contratto, che valeva in totale di 2,16 miliardi di dollari, coinvolgeva otto aziende di trasporti. Le indagini sono riuscite a provare la “documentata ed incredibile evidenza”, riporta il Post, del coinvolgimento di almeno quattro di quelle aziende in organizzazioni criminali o di supporto del nemico.
Nella pratica, le aziende sospette avrebbero girato 7,4 milioni di dollari ad aziende appaltatrici, che a loro volta avrebbero trasmesso i fondi ad altre aziende fornitrici di camion. Sarebbero queste ultime ad aver depositato la somma al comando della Polizia Nazionale afgana, in cambio di garanzie sulla sicurezza del passaggio dei convogli.
L’intelligence americana ha quindi scoperto che 3,3 milioni di dollari, prelevati dal conto del comando poliziesco attraverso 27 transazioni, sono finiti nelle mani dei talebani sottoforma di armi, esplosivi e denaro contante.
“Questo va oltre la nostra comprensione”, ha commentato il democratico John Tierney citato dal Post. Tierney presiedeva una sottocommissione della Camera dei Rappresentanti americana e aveva già accusato i militari di supportare un racket che finiva per finanziare i talebani.
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su Crisi dell’acqua in Afghanistan
Solo il 48 per cento della popolazione afgana ha accesso all’acqua potabile e solo il 37 per cento usa servizi igienici adeguati – con implicazioni gravi per la salute, soprattutto per i bambini, secondo l’UNICEF. Mentre alcune aree del paese sono fisicamente prive di acqua, la maggior parte di persone non ha accesso all’acqua potabile a causa di infrastrutture inadeguate e cattiva gestione, piuttosto che risorse insufficienti, afferma un rapporto pubblicato dal Centro per la politica e lo Sviluppo Umano dell’Università di Kabul.
Il rapporto dal titolo “Afghanistan Rapporto sullo sviluppo umano 2011” dice che “Nel corso di tre decenni di disordini in Afghanistan, le infrastrutture di fornitura dell’acqua sono state trascurate o distrutte, mentre le istituzioni responsabili per la gestione e l’erogazione dei servizi sono crollate”.
“Circa il 73 per cento della popolazione si affida sulle strutture improvvisate e inadeguate per la fornitura di acqua, mentre le fonti stanno diventando sempre più inquinate e sovrautilizzate in città come Kabul”.
Circa il 70 per cento della popolazione urbana vive in insediamenti illegali, mentre il 95 per cento non ha accesso a servizi igienici. A Kabul l’80 per cento della popolazione vive in insediamenti non pianificati in cui la scarsa igiene e la mancanza di accesso all’acqua potabile sono comuni.
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su AFGHANISTAN: il luogo peggiore in cui essere madre
Da: RAWA.ORG
L’85% della popolazione vive a 3-4 ore di distanza dalle strutture sanitarie e il 35% vive troppo lontano da qualsiasi centro medico o non ne ha accesso.
Secondo un nuovo sondaggio, le autorità stanno cercando di migliorare la condizione delle donne in Afghanistan, paese in cui la mortalità legata alla maternità e le aspettative di vita sono le peggiori del mondo.
La relazione del 2011 sulla condizione delle madri nel mondo, pubblicata il 24 giugno dalla ONG Save the Children, afferma che ogni giorno in Afghanistan circa 50 donne muoiono di parto. Una donna su tre subisce violenze fisiche o sessuali e l’aspettativa media della vita femminile è di 44 anni. Inoltre, più dell’85% delle donne afghane è analfabeta, mentre il 70% delle ragazze in età scolare di fatto non frequenta la scuola per vari motivi: genitori con mentalità conservatrice, mancanza di sicurezza o paura per la propria vita.
“Se consideriamo tutti questi fattori, l’Afghanistan è il luogo peggiore in cui essere madre” conclude questa relazione, che ha esaminato 164 paesi. Anche i bambini afghani, insieme a quelli dell’Aftica sub-sahariana, sono sottoposti al rischio di morte più elevato del mondo. Un bambino su cinque muore prima di raggiungere i cinque anni, il che significa inoltre che ogni madre afghana può anche soffrire per la perdita dei propri figli.
“Nonostante i miglioramenti, siamo ancora molto preoccupati per la mortalità materna nel paese”, ha dichiarato Kargar Norughli, portavoce del Ministero della Salute. L’obiettivo principale del Ministero è quello di contrastare la mortalità legata alla maternità.
Una delle strategie adottate è la preparazione del personale medico. Tahir Ghaznavi della UN Population Fund, UNFPA, ha affermato: “Il paese si sta muovendo nella giusta direzione, ma ci vorrà tempo per avere personale medico qualificato che possa garantire cure appropriate, eque e puntuali per ogni gravidanza e ogni parto”.
Circa 750 ostetriche professionali si diplomano ogni anno dopo 24 mesi di preparazione e si prevede che il numero raggiunga le 800 unità nel 2012. Secondo Ghaznavi, se si calcola il numero delle ostetriche che si diplomeranno nel 2011, nel 2012 e nel 2013, si suppone che il numero potrà arrivare a 2.300 unità.
Strutture sanitarie troppo lontane
“Una parte del problema”, afferma Norughli, “è che l’85% della popolazione vive a 3-4 ore di distanza dalle strutture sanitarie e il 35% vive troppo lontano da qualsiasi centro medico o non ne ha accesso”.
Esiste anche una diffusa mancanza di consapevolezza all’interno delle comunità in merito alle cure e all’assistenza alla maternità, in particolare nelle zone rurali. Inoltre, nelle aree più remote del paese mancano le strutture mediche e i mezzi di trasporto e di comunicazione.
L’Afghanistan è una terra montuosa e in alcuni luoghi ci vuole un giorno di viaggio a piedi, o a cavallo di un asino, per spostarsi da un luogo all’altro.
Secondo Save the Children, solo il 14% delle nascite riceve un’adeguata assistenza medica. Molte donne partoriscono a casa senza nessun aiuto (i mariti sono riluttanti a portarle da un’ostetrica) oppure muoiono lungo la strada prima di raggiungere un centro medico.
L’antica tradizione di partorire con l’assistenza di una donna anziana, ignorante e incompetente è ancora ampiamente diffusa nelle zone remote dell’Afghanistan.
Scritto da Anna Santarello il . Pubblicato in Notizie 2011. Nessun commento su Coi tacchi e il velo, donne afghane protestano contro le molestie
di Michelle Nichols. Reuters, 14/7/2011
KABUL- Con i tacchi alti e il velo in testa, un piccolo drappello di donne afghane è sceso in strada nella capitale, Kabul, martedì scorso per protestare contro le molestie da parte degli uomini negli spazi pubblici.
Issando striscioni, che recitano “Questa strada appartiene anche a me” e “Noi non tollereremo più insulti” circa una ventina di donne – e alcuni uomini che hanno sfilato in solidarietà – hanno protestato contro abusi, palpeggiamenti e pedinamenti nelle strade della città.
L’Afghanistan resta un paese profondamente conservatore, con pesanti restrizioni culturali e sociali alla libertà femminile, anche se la caduta dei talebani intransigenti un decennio fa ha portato vasti miglioramenti nei diritti legali.
“L’idea che sta dietro le molestie nelle strade è che le donne non dovrebbero uscire dalle loro case”, ha detto l’organizzatrice Noor Jahan Akbar, 19 anni, fondatrice del gruppo per i diritti Giovani Donne per il Cambiamento.
“Noi vogliamo combattere quella mentalità perchè crediamo che queste strade appartengano a noi tanto quanto appartengono agli uomini di questo paese”, aggiungendo che lei stessa ha subito molestie così persistenti da diventare riluttante ad andare in qualsiasi luogo.
L’attenzione internazionale si è spesso concentrata sugli attacchi più estremi alla libertà delle donne, compresi gli attacchi con l’acido sulle ragazze che vanno a scuola e i misteriosi attacchi con il gas contro parecchie scuole femminili, persino nella stessa Kabul.
Ma le donne afghane dicono che loro devono far fronte a una barriera di persecuzione di bassa intensità che può trasformare la vita quotidiana in una sfida continua.
“Quello che vogliamo indossare, come vogliamo camminare, questa decisione spetta a noi”, ha dichiarato Anita Haidery, 19 anni, studentessa di cinema e scienze informatiche che ha contribuito ad organizzare la protesta.
Akbar, che studia musica e letteratura all’università negli Stati Uniti e torna a Kabul ogni estate, ha detto che lei è stata criticata per “aver importato un modo di pensare occidentale” ma sostiene che in realtà la libertà delle donne ha le sue radici nell’Islam.
“La sicurezza delle donne non è un’idea occidentale, perfino al tempo del profeta Maometto le donne godevano di sicurezza, potevano commerciare, potevano uscire, e noi ci meritiamo questo”, ha dichiarato.
La polizia ha regolato il traffico mentre i manifestanti marciavano per parecchi chilometri attraverso le strade polverose della città, sventolando striscioni che promuovevano la loro causa sui finestrini aperti dei veicoli in transito nella speranza di seminare le radici del cambiamento.
Omaid Shirfi, 25 anni, che lavora per la Afghan Transition and Coordination Commission, ha detto che lui vuole manifestare insieme alle donne per mostrare la propria adesione alle loro richieste e promuovere il cambiamento.
“Loro sono parte di questa società, sono la metà della popolazione: devono avere il diritto di andare a scuola, di circolare nelle strade”, ha detto.